Come scegliamo oggi i nuovi mediatori

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    Nella mappa contemporanea, nell’era di internet, i luoghi dove si comunica il sapere, dove ci si informa sul campo culturale, dove ci si scambiano informazioni, dove si discute, sono teoricamente infiniti. Sarebbe però ingenuo credere che siano cadute le gerarchie. Le gerarchie, gli ordini, sopravvivono, basati su accessi e contatti, sulla notorietà, sul prestigio, sulle frequentazioni, sullo status. Sono tuttavia gerarchie più labili, meno fisse, meno riconosciute, specie da parte delle generazioni cresciute nel nuovo paesaggio tecnologico e mediale. È molto più difficile definire il centro e la periferia. Basti pensare al dato al quale accenna Sinibaldi, ovvero la perdita di centralità di quello che ha rappresentato per decenni, se non per secoli, il cuore dell’informazione culturale, le pagine culturali della carta stampata. Oggi l’informazione culturale – ovvero la cinghia di trasmissione tra il prodotto culturale e il suo pubblico – è diventata polimorfa, ubiqua, partecipata, grazie alla rete l’offerta e lo scambio si sono moltiplicati, si sono moltiplicati i canali di trasmissione e gli strumenti di ricezione, e un giovane cresce con un’idea molto meno strutturata del campo culturale.

    Rispetto a questi processi, sino a qualche anno fa i due timori principali mi sembra fossero quello della frammentazione delle informazioni, e quindi del pubblico della cultura, e quello di una rifeudalizzazione dei saperi, una nuova compartimentazione potenzialmente portatrice di nuove esclusioni.

    Oggi, anche in questo campo, le preoccupazioni sembrano invece orientarsi verso i rischi di strapotere dei grandi players globali. Google, Amazon, ma specialmente Facebook stanno diventando i grandi mediatori dell’informazione, con una funzione non dissimile a quella che svolgevano un tempo le poche riviste e giornali.

    Non è casuale che Lorenzo Fabbri, nel tentare di disegnare una mappa delle culture digitali, finisca per assegnare il dominio di ciascuno dei quattro quadranti ai quali viene associato un profilo tipo (studioso, esploratore, esteta, presentatore) ai quattro giganti del web: Microsoft, Google, Apple, Facebook. Il sistema culturale, dice con un certo ottimismo, non ha più la forma di una piramide in cui pochi decidono in nome di molti cosa è importante e cosa non lo è, ma di un network, un corpo vivo che partecipa attivamente alla selezione, alla valutazione culturale e alla produzione di «senso», e però si chiede se sia positivo che funzioni culturali come la scrittura di documenti, la ricerca di informazioni, la condivisione di contenuti siano un gigantesco oligopolio globale.

    Il rischio è quello della divisione del cosiddetto web sociale in un piccolo numero di grandi recinti, colossi che cercano di essere quasi tutto per tutti. Sono in competizione per gli stessi utenti, gli stessi dati, lo stesso tempo e lo stesso obiettivo: profilare e monetizzare gli utenti.

    Il News Feed di Facebook è diventato una specie di bussola quotidiana per centinaia di milioni di persone. È l’aggregatore che mostra in successione gli aggiornamenti propri e degli amici. Ci sono numeri e criteri che aiutano a capire come vengono inseriti gli argomenti sulle nostre pagine: il nostro legame con gli altri utenti, i like e le interazioni con i contenuti degli altri (300 le ultime interazioni di cui l’aggregatore tiene conto per presentarci i contenuti) e le proprie abitudini. Per cui, se guardo spesso i post del «Times» o della «Repubblica», i contenuti di questi giornali avranno punteggi più alti e saranno meglio posizionati nella timeline. Grazie al Feed Quality Program, il News Feed viene continuamente rifinito, da ultimo attraverso il tempo di lettura (quanto tempo passo su un articolo o su un post).

    Tom Alison, l’ingegnere che ne è il responsabile: «È il risultato dei post delle persone e pagine a cui sei connesso. È unico e personalizzato, dipende dall’interazione che si ha con quelle pagine e quegli amici. ognuno dei post possibili ha un punteggio basato sui like, i commenti e le condivisioni».

    Sull’informazione, le notizie, il modo in cui formiamo il nostro punto di vista e i rischi di una filter bubble, Alison risponde: «Nei fatti le persone non sono in una bolla, se sei interessato alla politica vogliamo che tu possa seguire un giornale o un partito. Non vogliamo mostrarti cosa non ti interessa, ma nei commenti ognuno mostra il suo punto di vista». Nel 2015 Facebook ha pubblicato uno studio su oltre 10 milioni di utenti americani che smonterebbe, in parte, l’idea della bolla, perché la polarizzazione deriverebbe più dalle scelte delle persone che dall’algoritmo.

    Sono tuttavia tesi e ricerche che tranquillizzano solo in parte. Da un lato per la fonte, non propriamente neutrale, e dall’altro perché altre indicazioni empiriche ci portano in una diversa direzione.

    Il «New York Times» ha reso pubblici i dati sui suoi post degli ultimi sei anni: sono circa dieci milioni le persone che hanno messo il proprio like sulle pagine del giornale. Incrociando quei dati con le ricerche di Priceonomics – società di analisi del web – cosa scopriamo? che cooking, parenting, style, health, movie e travel sono i settori più frequentati, più di politica interna o internazionale. Così come l’ordine delle firme più lette vede in testa il critico televisivo e Paul Krugman solo trentunesimo. Gli articoli più popolari sono quelli di intrattenimento. Le classifiche insomma non aiutano i temi impervi.

    Se, come abbiamo più volte detto, Facebook sta diventando il vettore centrale delle informazioni, specie per via Instant articles, che porta le notizie di alcune testate direttamente in ambiente Facebook (con un formato di lettura adatto ai cellulari, gli articoli si riconoscono per la presenza di una saetta a destra nelle fotografie), il rischio che quelle testate privilegino l’intrattenimento perché porta traffico, click pubblicitari e soldi, indubbiamente c’è.

    Non solo. C’è anche la possibilità di perdere il controllo del tuo lettore, dei suoi gusti e desideri. Se decidi di affidarti alle piattaforme sociali perché sono loro a portare traffico e introiti, a quel punto saranno loro a governare, e magari a decidere che un video è più efficace di una lunga inchiesta. Usando ai loro fini l’autorevolezza altrui, perché diverse ricerche ci dicono che la fiducia nelle notizie che si trovano nelle piattaforme è legata alla credibilità delle fonti originali, e se quelle fonti sono testate giornalistiche la credibilità aumenta.

    La rete e i social network rafforzano una caratteristica strutturale dei media, quella di essere costruttori di relazioni. Se oggi arriviamo alle notizie sempre più attraverso aggregatori e social network significa che sempre di più saranno le relazioni a costruire il nostro palinsesto – con i rischi di omofilia sui quali la letteratura scrive da tempo, con conclusioni peraltro ancora incerte –, e che quindi il nostro modo di informarci sarà meno gerarchico, più complesso, e forse meno affidabile.

    Come si è appena visto, Facebook, Amazon, Google con i suoi cookies, Google Now diventano ordinatori e selezionatori, e in parte sostituiscono una ricerca che un tempo era individuale o dettata da mediatori più riconoscibili, più espliciti. Noi forniamo alle piattaforme informazioni su noi stessi e sui nostri gusti, e i loro algoritmi tendono a indicarci suggerimenti in linea con quei gusti e ad assecondare percorsi fatti in precedenza.

    Il sistema rafforza insomma caratteristiche di tipo tribale, amicale, o bolle individuali, così come si rafforza una logica che accentua il carattere emozionale delle storie, non sempre ma talvolta a discapito del contenuto razionale e informativo. È il trionfo dello storytelling, uno dei termini che definiscono la nostra epoca.

    Il primo quotidiano a stringere un accordo con Facebook per Instant articles è stato «la Stampa», nel novembre 2015, ma gli altri grandi giornali italiani sono arrivati nelle settimane successive. Negli Stati Uniti sono già oltre quindici le testate, anche grandi, che lo hanno adottato.

    Dai primi dati sembrerebbe che il tasso di condivisione sia tre volte superiore a quello dei link tradizionali. In sostanza i giornali cedono a Facebook le proprie notizie – sono i giornali a scegliere quali, però – e Facebook le distribuisce a seconda dei profili personalizzati che ha ricavato dal suo miliardo e mezzo di utenti.

    Negli Stati Uniti poi è stata lanciata l’app Notify, sempre di Facebook, per ricevere notifiche sul proprio telefono dai principali siti di informazione e intrattenimento. Apple ha lanciato l’app News, che permette agli editori ma anche ai singoli di distribuire contenuti in ambiente apple, ottimizzati da Apple per tutti i dispositivi IoS.

    Nella stessa direzione – provare almeno a negoziare la scelta di contenuti editoriali con i grandi players della rete – va il progetto Digital News Initiative di Google, al quale hanno aderito alcuni giornali italiani, o il progetto amp, piattaforma open source per rendere più veloce la lettura di siti e articoli su smartphone, o ancora Telegram, una app di messaggistica che consente di creare dei canali pubblici cui ci si può iscrivere per seguire determinati utenti e i loro aggiornamenti, e che per le testate giornalistiche si traduce nella possibilità di fornire ai propri lettori aggiornamenti e linkare ai propri contenuti online.

    Wired e Vice News Italia hanno aperto i loro canali su Telegram e altre testate stanno sperimentando. Altro terreno in cui i grandi players americani procedono in modo cannibalesco è quello dei video in diretta, del live streaming. È la strada inaugurata su larga scala da Periscope ma è destinata a dilagare con Facebook live, che permette di seguire e diffondere un evento in diretta e interagire con la funzione reazioni (con due rischi: che venga usato per la pornografia e che ponga problemi di copyright, se ad esempio riprendo la televisione o altri siti). Google starebbe per lanciare un prodotto simile, con YouTube connect. Iniziative che potrebbero indebolire la televisione, specie quella all news.

    Torniamo alle domande: siamo in grado di leggere tutti i dati e le riflessioni che potenzialmente ci offre la rete? abbiamo il tempo e la preparazione per farlo?

    La risposta che avevo dato poco fa e che ribadisco è: no, la maggioranza dei fruitori ha bisogno che il flusso delle informazioni venga messo in forma, filtrato, ordinato, gerarchizzato, spiegato, e questo resta il compito, il ruolo del giornalismo. Ricorderete l’espressione mondo-flusso. I grandi giornali hanno già rivisto la loro organizzazione del lavoro, il sistema giornale. Non più basato sulla riunione del mattino e la battaglia della sera, ma appunto sulla presenza e le riunioni sin dalle prime ore del mattino per inserirsi in un flusso che non si ferma mai.

    Non a caso si cita spesso la decisione di Dean Baquet, direttore del «New York Times», di non partecipare più alla riunione per la prima pagina del giorno dopo, per concentrarsi sul flusso dei temi e delle notizie che accompagnano senza pause la vita di un quotidiano.

    Giornalismo è stato, è, e sono convinto resterà selezione, gerarchizzazione e presentazione di informazioni finalizzate alla riduzione della complessità sociale, messa in forma delle informazioni, dando loro un senso e un preciso significato, interpretazione suffragata da argomentazioni e verifiche, servizio che con continuità e strumenti non ordinari ricerchi, connetta, selezioni, approfondisca, svisceri.

    La presa di parola giornalistica dal basso non sempre riesce a organizzare in modo corretto quelle operazioni di ricerca, controllo, validazione del mestiere giornalistico.

    Possiamo finirla qui e dirci soddisfatti di questa risposta? No, è una risposta sensata ma forse insufficiente. Perché potrebbe aver ragione Matthew Ingram: «Thanks to the web Journalism is now something you do, not something you are». Sempre più il giornalismo, o meglio l’attività di fornire informazioni, di aggregarle, è costruito da persone che non sono giornalisti di professione, che vivono d’altro, che si inseriscono sporadicamente, occasionalmente, talvolta casualmente – si parla non a caso di random acts of journalism – e con competenze settoriali o molto parziali nella filiera dell’informazione. Il processo di newsmaking è molto compartecipato, ed è composto da professionisti e non professionisti, dal flusso dei social media, da interventi episodici.

    In tanti invitano ad aprire gli occhi: oggi sono giornalisti tutti coloro che collaborano alla creazione di un prodotto giornalistico, non esistono più i giornalisti ma soltanto il giornalismo, ed è ormai una battaglia di retroguardia quella di chi insiste nel delimitare campi, ruoli, professionalità, dare certificazione legale, volere ordini, tutti assetti che sarebbero totalmente sconnessi dalla realtà.

    Oggi il fruitore può liberamente appropriarsi dell’informazione e più in generale del sapere. Ecco – è la posizione di Sinibaldi – le persone devono essere all’altezza di questa sfida; per la prima volta nella storia c’è la possibilità di conoscere e informarsi subito, in modo pluralistico e variegato, senza gabellieri che selezionano per noi: non possiamo tornare indietro, non possiamo rimpiangere selezionatori, gerarchie, filtri, fiorini da pagare al gabelliere.

    C’è ragionevolezza anche in questa posizione, e audacia, direi, e allora forse la strada da prendere è per così dire una terza via, indicata peraltro dagli stessi critici del tradizionalismo. Da Tedeschini Lalli quando parla degli aggregatori e del tempo limitato: «l’uomo informato del digitale è un’astrazione come l’uomo economico del mercato: al meglio ogni cittadino potrà e vorrà informarsi in modo pro-attivo solo in determinati momenti e per determinate materie, per il resto del tempo e degli argomenti si affiderà comunque a degli aggregatori e a dei curatori, la questione è di stabilire se tra questi ci saranno anche dei giornalisti o se la funzione sarà lasciata nelle mani di attori che effettuano le scelte in base a criteri non necessariamente malvagi, ma diversi»; da Sinibaldi quando suggerisce ai mediatori di diventare connettitori e da Mezza quando, descrivendo le nuove professioni del giornalismo, parla «della funzione di brokeraggio delle varie versioni dell’informazione sul primato di disvelamento della notizia».

    Ancora domande familiari: siamo in grado di dare significati accettabilmente razionali e condivisi a una realtà sempre più ricca e complessa? Il modo in cui è strutturata la società permette di avere il tempo per farlo? Possiamo fare a meno di mediatori tradizionali? I mediatori devono essere giornalisti? Figure attrezzate e retribuite per le attività descritte?

    Con la massima prudenza direi che la risposta dovrebbe essere sì e no. Sì, la ridondanza informativa – ma è un discorso che in realtà vale per tutte le informazioni che ci fornisce il mondo – vuole mediazioni, selezioni, messa in forma. Ma non saranno più solo i mediatori tradizionali, e tra questi i giornalisti, a farlo. Il giornalismo non si basa più solo sulla produzione di informazioni, di contenuti, ma sulla loro «selezione e gerarchizzazione […] a prescindere dall’etichetta professionale di chi le realizza». I dati della Lsdi sulla nuova morfologia della professione giornalistica sono molto indicativi in questo senso.

    Ci saranno però anche i giornalisti, perché per produrre valore giornalistico ci vuole tempo e cultura, ed entrambi costano. Lo ha scritto con grande chiarezza il direttore dello «Spiegel» Klaus brinkbaumer, a commento di un’ondata di astio e sfiducia nei confronti dei media in Germania, correlata anche con la questione rifugiati.

    La contemporaneità impone risposte e gratificazioni immediate, ma il giornalismo ha bisogno di calma e raziocinio. Il giornalismo di qualità non può rinunciare a ciò che lo distingue dalla canea dell’opinionismo: capacità di ricerca e cronaca, che significa cronisti locali, corrispondenti esteri e team investigativi. Ci vuole tempo per analizzare i contesti e spiegarli bene; ci vogliono nervi saldi e riflessione per evitare di essere trascinati nel gorgo.

    E ci vuole un rigoroso processo di autenticazione, che significa controllo delle fonti, fact checking. […] Non credo sia un caso che la reputazione di alcuni grandi quotidiani cartacei si sia trasferita alle versioni on- line, i numeri parlano chiaro. Bisogna però evitare di costruire un fossato tra medium autorevole e fruitori, con il primo che ha magari una visione elitaria della realtà, e accettare dialogo e critiche, e in questo la rete è preziosissima.

    Ieri i lettori/ascoltatori/telespettatori erano milioni di persone fondamentalmente passive, oggi partecipano attraverso i social media e sono diventati loro stessi produttori dei media.

    Note