Si è presentato con una sobria conferenza stampa (online) il nuovo direttore del Piccolo Teatro di Milano. Claudio Longhi entrerà in carica dal prossimo primo dicembre e intanto ha avuto modo di incontrare il Cda, cui ha esposto le proprie linee guida – poi raccontate anche ai giornalisti – cogliendo subito l’occasione per riflettere serenamente sul senso e la missione dei teatri nazionali, prendendo proprio a riferimento quello che è il teatro-simbolo, noto in tutto il mondo per la sua bella storia, che sarà la sua nuova casa.
Sembra, dunque, essersi finalmente placata la contorta vicenda che lo ha portato alla guida del Teatro milanese. Si ricorderà: dopo l’addio di Sergio Escobar, che da oltre venti anni teneva le redini dell’Istituzione meneghina, si è aperto un contenzioso sulla nomina del successore per il ruolo che è stato di Giorgio Strehler e poi di Luca Ronconi. Il dibattito si è acceso, anche perché – in questo clima mesto di pandemia – la “partita” è ovviamente di rilievo e la politica (locale e nazionale) non si è fatta sfuggire l’occasione per entrare a gamba tesa nella gestione della nomina.
Il Cda, presieduto da Salvatore Carrubba, aveva scelto di procedere per bandi e manifestazioni di interesse, coinvolgendo di fatto alcuni tra i migliori e degni manager della scena italiana. Da Rossana Purchia, poi approdata al Regio di Torino, a Filippo Fonsatti, adamantino alla guida del Nazionale torinese e artefice, a quanto pare, di un bel progetto per Milano; da Marco Giorgetti, direttore del Teatro della Pergola-Teatro Nazionale della Toscana; ad Antonio Calbi, ben conosciuto in città e attualmente sovrintendente all’Inda di Siracusa. Insomma, nomi più che credibili, tutti attendibili, addirittura auspicabili come direttori del Piccolo, ma che non hanno trovato pieno consenso per dissensi eminentemente politici.
Tra i nomi doveva esserci, sin dall’inizio anche Longhi: in un primo momento ha declinato, impegnato come era alla direzione di Ert-Emila Romagna Teatro. Poi, dopo un secondo, (pressante) invito ha dato la sua disponibilità.
Ora, è nota anche la soluzione cui è arrivato il Cda per poter nominare Longhi: un allargamento del numero dei consiglieri. E non sto qui a ripercorrere tutte le gabole, le ripicche, le assenze (in)giustificate, le prese di posizione, le smentite: vicenda tristanzuola che dobbiamo, in gran parte, ai fieri rappresentanti in Cda nominati dalla Regione Lombardia (quella Regione Lombardia, che ha mostrato e sta mostrando tanta “capacità” nella gestione di emergenze ben più gravi).
Quindi, a conclusione della arruffata vicenda, la figura di Claudio Longhi arriva come una ventata di professionalità, rigore, serietà e impegno. Molti hanno storto il naso: “non doveva accettare”, dicono; oppure “ma insomma, ha rifiutato a luglio e ad agosto dice di sì”. E ancora “questo modo, con l’allargamento del Cda, non è corretto”. Chiacchiere. Era meglio stare a sentire i due rappresentanti della Regione Lombardia (quella Regione Lombardia)?
La figura di Claudio Longhi arriva come una ventata di professionalità, rigore, serietà e impegno.
In conferenza, il neo-direttore è tornato sulla questione: vero, conferma, dapprima aveva rinunciato, impegnato a traghettare l’Ert nella difficile fase della pandemia, e convinto che il Cda avrebbe proceduto alla nomina di uno dei candidati coinvolti.
«Quando sono stato contattato la prima volta ho declinato, seppur onorato del fatto che si fosse pensato a me. Non ritenevo infatti opportuno concorrere effettivamente perché mi trovavo alla direzione di Ert, cui sono legato, soprattutto in questo tempo complesso. Poi, ero tranquillo che la crisi temporanea del Piccolo avrebbe trovato una soluzione di tutto rispetto con la scelta di uno dei colleghi in lizza: colleghi e amici che stimo tantissimo, ciascuno con propria identità e storie teatrali. Passato un mese, mi è stato evidente che quel tipo di soluzione, che ritenevo praticabile, non lo era. E si è aperta una situazione di crisi decisamente più forte: visto lo stallo creato, era mutato il sistema di orizzonti e valutazioni (…) La crisi del Piccolo è crisi del sistema teatrale italiano. Dunque, consapevole della situazione e dell’impasse, ho ripensato alla prima valutazione. Non so se sarò all’altezza di un compito così difficile ma mi sono messo a disposizione. La decisione non è stata semplice, né ininfluente. Ma con altrettanta convinzione e serenità ho detto sì. I fatti poi decideranno»
La questione, per fortuna, è altra: Longhi è un ottimo direttore. Un uomo di teatro a tutto tondo. È noto, nel settore, quanto sia uno stakanovista: è capace di rispondere a mail a qualsiasi ora della notte. E lo ha dimostrato guidando l’Ert con consapevolezza e serietà, non solo radicando sempre più l’istituzione al territorio – con progetti mirati di formazione del pubblico, che sono una sua “specialità” da almeno venti anni – ma anche aprendo i teatri a un respiro internazionale davvero notevole. Grazie al festival Vie, e a una programmazione sempre dinamica – anche sulla scia del ventennale lavoro fatto dal predecessore Pietro Valenti – con sistematica attenzione a quanto di meglio si muove sulla scena mondiale. Dunque, tra micro e macrocosmo, l’attitudine di Longhi è quella di dare profondo senso politico alla azione e alla proposta scenica.
L’ha ribadito con fermezza anche per Milano: «Avverto il senso di profonda responsabilità per le scelte complesse cui il tempo in cui viviamo ci costringe. Non credo ci si debba dilungare sul passaggio epocale che stiamo vivendo, su questo momento di crisi che avrà ripercussioni oltre la fase dell’emergenza in corso. È un tempo di discontinuità, di rottura. La pandemia ha cambiato l’orologio biologico e culturale, con tempi di programmazione e produzione diversi e ci costringe ad immaginare il futuro e a vivere un presente che cambia di ora in ora. Ma sento la necessità di affrontare seriamente la questione della “funzione pubblica” del teatro, intendendo non il “teatro pubblico” in senso stretto, ovvero della funzione che il teatro deve ed è chiamato a tenere in rapporto alle comunità – dalla famiglia, alla città, al Paese, al contesto internazionale. Dobbiamo chiederci a cosa serve il teatro, che ruolo gli vogliamo attribuire nelle nostre vite. È una riflessione nodale per il Piccolo, che ha generato l’idea stessa di Teatro Pubblico in Italia. Questa interrogazione ci spinge a ragionare, nell’ottica di continuità e discontinuità, sull’idea di servizio pubblico, e capire come questa idea possa essere adattata ai tempi che viviamo, richiamando il concetto di Valore, come complemento e estensione della prospettiva pubblica, e dunque il concetto stesso di di teatro come Bene comune».
«Dobbiamo chiederci a cosa serve il teatro, che ruolo gli vogliamo attribuire nelle nostre vite»
La questione, dunque, posta già altre volte, è di provare a capire quanto il teatro possa contribuire a ricostruire una comunità, sempre più spaurita e smembrata: una priorità – in particolare a Milano e nel territorio lombardo (gestito dalla Regione Lombardia, quella…) sempre più urgente. Si sa, il Piccolo è un simbolo, ha una storia invidiabile e unica, ha uno staff d’eccellenza, fatto di lavoratori e lavoratrici di altissimo livello. Ma quel Teatro ha bisogno di non crogiolarsi nella propria infinita storia, di non confondersi con un centro commerciale dove si trova di tutto, di non sprecare il proprio talento in produzioni estemporanee, destinate da subito a breve vita. Dal Piccolo può e deve venire la lezione di sempre, di moralità e luminosità, di qualità e internazionalità, di investimento sui giovani, di pedagogia rigorosa nella scuola.
E se queste linee, sembra volersi muovere Longhi per il futuro. Lo ha detto a chiare lettere: rapporto con l’Europa («che vuol dire essere un Teatro d’Europa?» si chiede); poi un costante «attenzione al nuovo senza però dimenticare il canone, e in particolare alla nuova drammaturgia». E ancora: «Nuove modalità di organizzazione e di rapporti produttivi, anche con modelli diversi di gestione condivisa, in una “geografia delle sale”, che rispecchi diverse identità di programmazione». Inoltre, per Longhi è importante «dare spazio in tutti i sensi, fisico e progettuale, alla zona del “rischio culturale”, attraverso le pratiche dell’innovazione, e impegnarsi sul fronte di un segmento che il teatro italiano (con mille eccezioni e smentite) ha trascurato: ovvero l’esperienza del Teatro Ragazzi che in Italia esprime eccellenze mondiali». A questi temi ha aggiunto la necessaria cura per avere un teatro “green”, di basso impatto ambientale, in particolare per quel che riguarda le tournée; il lavoro sulla audience development, il favorire la crescita qualitativa della Scuola del Piccolo e ancora molte altre suggestioni, da verificare e su cui riflettere, dice, «con il Cda e presto con tutti i dipendenti».
Longhi non si è tirato indietro di fronte a quanti gli anno chiesto un chiarimento sul rapporto con un Consiglio di Amministrazione evidentemente spaccato. E ha chiarito: «C’è una preoccupazione rispetto a uno scenario controverso, che conosciamo, ma mi impegno per fare squadra, per trovare una intesa, una condivisione, proprio in ragione del valore civile e profondo della pratica teatrale. Il Bene Comune non appartiene a nessuno e appartiene a tutti, e tutti se ne devono fare carico».
Insomma, Longhi conferma molte cose che avevamo imparato a conoscere del suo percorso: ha, dalla sua, il lungo lavoro “a bottega” con Luca Ronconi. Dal Maestro ha attinto rigore e voglia di rischiare. Anche se il suo viaggio, così a cavallo tra insegnamento universitario (è professore ordinario di Storia del Teatro a Bologna) e pratica scenica potrebbe far pensare non solo a Ronconi ma anche ad un altro grande regista del nostro passato, quel Luigi Squarzina, regista e docente, che non si è mai sottratto a una visione di teatro politico, attento come era non solo ai classici, ma anche a testi suoi contemporanei con cui intervenire, criticamente, nel dibattito sociale e culturale.
«Il Bene Comune non appartiene a nessuno e appartiene a tutti, e tutti se ne devono fare carico»
Ecco, la “regia critica” potrebbe essere uno degli ambiti in cui Longhi potrà muoversi, tentandone un rinnovamento necessario, alla luce dell’ormai conclamato e superato “post-drammatico” e alla necessità per cui a un regista non si chiede solo di allestire belle visioni, ma anche di porsi come intellettuale attivo, critico appunto, che sappia usare gli strumenti comunitari del teatro per incidere profondamente nel tessuto sociale di riferimento. Longhi ha accettato sfide drammaturgiche complesse, ha allestito testi difficili ma senza per questo perdere di vista la prospettiva dialettica, di attivazione di discorsi e riflessioni sul nostro tempo. Così, sono arrivati i confronti con l’opera di Edoardo Sanguineti, con Koltès e Camus, con Brecht e Canetti, fino all’argentino Alejandro Tantanian (da poco in scena a Modena) e alle creazioni complesse destinate al “teatro partecipato”. Ma, si schermisce in conferenza, la sua «identità di regista non è prioritaria in questa fase».
Dunque, tra poetico e politico, tra locale e globale, con una guida accorta che sappia ascoltare le spinte provenienti dall’interno della struttura, la direzione di Longhi potrebbe davvero essere un buon segnale per il Piccolo e per il Teatro italiano. Certo ce ne sarebbe davvero bisogno, soprattutto oggi.
Farà bene? Si imbatterà nelle maglie strette della politica regionale (quella Regione Lombardia…) che certo non lo accoglierà al meglio? Sarà in grado di rilanciare l’immagine e la sostanza del Piccolo Teatro in Italia e nel mondo?
Insomma: Claudio Longhi saprà raccogliere la sfida del Piccolo? Come ha scritto Thomas Ostermeier nel bel libro “Il teatro e la paura” (Luca Sossella Editore), parlando della sua direzione alla Schaubühne di Berlino: «Le istituzioni teatrali lanciano, a noi artisti, una sfida sempre diversa: investire questi luoghi di un senso nuovo, anno dopo anno, generazione dopo generazione. Rigenerare il dibattito dentro questi luoghi non significa mettere in discussione soltanto noi, noi artisti, ma la percezione che la società civile ha di se stessa, perché è la società civile che ha istituito questi luoghi come roccaforti della propria valorizzazione».
Dai teatri nazionali, come da tutti gli spazi grandi e piccoli diffusi in Italia, passa la prospettiva di un futuro possibile: anche durante questa aspra e dolorosa emergenza Covid, sta ai nostri vecchi teatri il compito di ridare forza alla comunità, di ritrovare la felicità dello stare assieme. Se rinunciamo al ruolo fondante dei teatri, abdichiamo a una parte di democrazia e di vivibilità, di comunità e di libertà. Servono azioni consapevoli, prospettive nitide, solidarietà di comparto, cura e impegno politico per dare al governo, al parlamento, ai partiti, alla gente un segnale inequivocabile della fondante presenza del teatro nella società.
Immagine di copertina, ph. Riccardo Frati