Undici anni fa, alcuni critici letterari (Giancarlo Alfano, Cecilia Bello Minciacchi, Clotilde Bertoni, Federico Bertoni, Raoul Bruni, Alberto Casadei, Matteo Di Gesù, Daniele Giglioli, Claudio Giunta, Gabriele Pedullà, Pierluigi Pellini, Gianluigi Simonetti, Italo Testa, Antonio Tricomi, Paolo Zublena) chiesero ad altri critici letterari: “Il dominio assoluto della rete nel dibattito critico contemporaneo ha mutato secondo voi i metodi e i linguaggi della critica, o li ha perlomeno condizionati? E qual è secondo voi il rapporto della rete con il mercato?”. Sulle pagine di Allegoria, una delle riviste più autorevole in quanto a statuto – ontologico e deontologico – della critica letteraria, questi critici ragionarono su cos’è, cosa è diventata, cosa dovrebbe essere.
Tutti convergevano nel ritenere la rete come l’esplosione delle opportunità comunicative, un posto in cui la fruizione e la condivisione di informazioni e testi, sempre più forsennata, aveva in molti casi superficializzato i linguaggi e accorciato il tempo delle riflessioni.
Nel 2012 non c’era, quindi, grande fiducia nelle potenzialità della rete per quello che concerne la fioritura del discorso critico sulla letteratura. Lo spazio infinito, la possibilità di “fondare” blog con pochi clic e pochi euro, pagare un nulla i collaboratori con la promessa di una verde, infinita distesa di lettori e lettrici, la velocità di esecuzione e la ancora più velocità di fruizione dei contenuti, il culto della performance e della visibilità inestricabili dal culto della persona – Internet sembrava essere l’incarnazione dei peggiori incubi di chi temeva che ormai valesse molto di più una foto di un libro ben posizionato su un’ottomana che una dissertazione sulla varietà dei registri in Gadda.
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