Leggere una raccolta di saggi sulla museologia russa del primo trentennio del XX secolo parebbe un modo come un altro per darsi le solite arie radical chic. Perché la parola “rivoluzione” piace sempre, tanto più dopo cento anni. O forse sono soltanto gli stessi stereotipi per cui mi torna in mente una ragazza russa, in vacanza a Milano, con cui ho chiacchierato poco tempo fa in attesa della 90. Perché a San Pietroburgo, se vuoi, ci arrivi anche in autobus da Tallin. Prima prendi un volo Ryanair, poi ti fai sette ore di pullman. Se sei fortunata con 50 euro stai visitando l’Hermitage (si, si, anche a me i musei piacciono ma come ci arrivo all’outlet di Serravalle?).
Se la questione è lasciarsi ispirare da idee radicali, assurde o coraggiose che siano, per approdare a soluzioni critiche e sensate destinate al presente dei musei, occorrerà mettere nuovamente a fuoco una necessità di funzioni e competenze sovrapposte. La trasferibilità dei modelli potrà allora sfuggire al rigore di una sola istituzione di riferimento, alla contemporaneità storica e, ovviamente, alla similitudine geografica: fra i migliori spunti museali offerti all’accessibilità cognitiva, ad esempio, io ricordo il lavoro esemplare di diversi aeroporti.
Devo ammettere che i musei russi io non li ho mai visti; ma anche Arseny Zhilyaev, giovane curatore del volume citato in apertura, confessa di non aver mai visitato quelli dell’era rivoluzionaria. A dispetto delle occasioni di ognuno, quello che però ho chiaramente capito, in una ricerca che parte da una serie di video su Youtube e prosegue articolata fino ai temi che più sento vicini, è che questo rappresenta solo uno dei moltissimi universi di riferimento che ci stanno sfuggendo.
La scoperta personale di questo specifico contesto passa, per dire, dalla cultura americana. Da un convegno, interamente trasmesso online, organizzato dal Walker Art Center lo scorso novembre intorno ad un libro intitolato Avant-garde Museology. Il testo, pubblicato nel 2015 e frutto di anni di studi, raccoglie seguendo un indice ragionato, le traduzioni di diversi saggi originali che vanno dalla fine del XIX secolo agli anni Trenta del successivo. Si tratta del primo di una collana di testi pubblicati da e-flux, progetto curatoriale e piattaforma online, noto soprattutto per l’omonima rivista sui temi culturali e politici legati alla produzione artistica contemporanea.
Nelle premesse delle giornate di studi, svoltesi fra Minneapolis e il Brooklyn Museum a pochi giorni dalle elezioni di Trump (quando, per altro, le relazioni con Mosca non erano ancora oggetto di interesse), emerge soprattutto un interrogativo rivolto al potenziale di rottura del museo stesso contrapposto a quello, solo all’apparenza più eloquente, delle opere che preserva e valorizza. Il domandarsi quanto questa istituzione possa rimanere indipendente, ricettiva e visionaria, a dispetto delle ideologie dominanti.
Nell’incrociare questa con altre indagini, pare che la Russia stia recuperando solo in anni recenti la memoria delle proprie conquiste disciplinari: mi riferisco alla riflessione sul ruolo sociale del museo, le sue potenzialità, l’attenzione ai pubblici.
Questioni che, nel corso della storia del XX secolo di questo paese, hanno subito più volte rallentamenti e battute d’arresto anche a fronte di un esordio frammentario eppure ambizioso. Oggi, in un dibattito internazionale certamente mai troppo mainstream, la Russia non pare affatto un avamposto di riferimento in materia seppure, dalla lettura delle fonti d’epoca (i testi sciolti di intellettuali, museologi e artisti) è possibile intuirne l’entusiasmo di un passato vivace, seppure geograficamente circoscritto ai maggiori centri urbani. Ciò che più in generale emerge, comunque, è la definizione di scopi capaci di muovere oltre le finalità di educativo diletto diffuse negli stessi anni in Europa e le facili supposizioni di chi immagina gli approcci esclusivamente propagandistici, per quanto comunque presenti.
Il confronto, dunque, è quello offerto da un contesto plurivocale, dalla dimensione storico-politica imprescindibile e altresì caratterizzato da un’urgenza sperimentale che associa al museo un enorme valore simbolico, a maggior ragione nei casi in cui ne auspica la distruzione. Una rivoluzione in chiave educativa che, del resto, non può che essere letta in parallelo rispetto a quella profonda trasformazione che, dal 1917, investe anche le accademie, le scuole d’arte e gli istituti dedicati alla formazione artistica ed estetica.
La stessa prospettiva d’avanguardia, sempre nell’ambito della museologia, tocca in modo significativo anche lo sviluppo dei visitor studies. Secondo Vitaly Ananiev, autrice di un altro volume quale Visiting the Visitor. An Enquiry Into the Visitor Business in Museums, l’emergere di questo settore, nella Russia dei primi decenni del secolo, segue quello delle scienze e della meccanica quantistica. Il cosiddetto Principio dell’Osservatore, proprio della fisica, fu infatti tradotto, già negli anni Venti, in un precoce lavoro di indagine sui pubblici condotto presso alcuni musei di Mosca e Leningrado. L’attenzione all’inclusione delle loro differenze, altro caposaldo, risulta parimenti fra le scoperte mancate ad una ricognizione storica internazionale che associa lo sviluppo del settore ad un’area prettamente anglofona. Le ragioni di questa assenza risultano dovute perlopiù alle difficoltà di traduzione dei testi dal cirillico, alla presenza di un corpus teorico poco compatto (rinvenibile soprattutto in articoli, protocolli e interviste di singoli autori) nonché, verrebbe da ipotizzare, dalla tardiva diffusione occidentale delle stesse avanguardie artistiche.
Secondo Zhilyaev, l’inizio della Rivoluzione del novembre 1917 (quella bolscevica e proletaria che vede Lenin protagonista) facilita la comprensione di punti di vista sempre più radicali rispetto a un luogo per sua definizione votato alla conservazione del passato; lo sguardo degli artisti sui temi del museo, ad esempio, associa opinioni spesso antagoniste che partono dal presupposto che l’arte, senza la prospettiva di un’uguaglianza sociale, non può che rappresentare un ghetto per soluzioni immaginarie. Un ghetto che il museo rischia di atrofizzare ulteriormente, in pieno contrasto con il progressismo rivoluzionario. Così almeno la pensavano diversi artisti fra cui Malevich per il quale il museo non rappresentava che un relitto da distruggere; anche Lenin, a detta di altri, non sembrava essere un amante del museo anche se probabilmente avrebbe apprezzato quello della Rivoluzione, creato alcuni anni dopo la sua morte.
Le visioni degli artisti, in questi anni però, non sono del tutto assecondate: in un paese già stremato, le resistenze governative impongono la tutela di questa istituzione. Del resto, preservare il patrimonio culturale precedente avrebbe rappresentato anche un presupposto culturale imprescindibile allo sviluppo del nuovo proletariato, così come anche a detta di Trotsky. La sistematica riorganizzazione cui sono oggetti i musei in questa fase appare confermata anche dall’incontrovertibilità del loro numero crescente. Dalla morte di Lenin alla diffusione del Realismo Socialista, e quindi dalla fine degli anni Venti ai primi Trenta, emerge una visione attiva del museo, luogo al centro della vita i cui impatti devono essere percepibili. Il tema della percezione del resto ritorna, di nuovo, anche nell’ottica di prossimità degli studi sui visitatori. Nel 1926, un precoce articolo tradotto come “Issues regarding the study of the perception of the museum visitor” della storica dell’arte Vera Belyavskaya, mette in luce la necessità di considerare i pubblici “scientificamente”: non solo le masse proletarie considerate come i visitatori più importanti, ma anche tutti gli altri. Nel dibattito che segue questa pubblicazione, come riporta sempre Ananiev, voci opposte riaffermano la necessità di un approccio che parta dai contenuti degli allestimenti, pur tenendo saldo il vincolo di un’accessibilità necessaria per tutti, a prescindere quindi “dalla mediocrità del livello culturale”.
La progressione storica delle ipotesi e delle riflessioni di quegli anni (che nel libro di e-flux si raccolgono soprattutto intorno al biennio 1931/32) è difficile da sintetizzare, seppure sia interessante rinvenirne lo spunto di pratiche e teorizzazione che aprono a nuove definizioni e messe in discussione ancora oggi possibili. Nel pensiero di Nikolai Fedorov, fondatore del Cosmismo e di una concezione del mondo articolata e che vede incluso anche il museo, Zhilyaev rintraccia addirittura una corrispondenza con ciò che sono oggi Facebook e Google: strumenti che riportano tutti in vita a dispetto della morte. Secondo il filosofo d’inizio secolo, infatti, la funzione di questa istituzione avrebbe dovuto unificare progressisti e conservatori, rinascita e decadenza.
Fedorov immagina un museo del futuro quale luogo capace di riconciliare istanze diverse di sopravvivenza. E se auspica, da un lato, l’avvento di un museo che si leghi inscindibilmente “a un laboratorio scientifico, una biblioteca e una chiesa-scuola” dall’altro, mette in luce la vitalità delle singole mostre, contrapposte alle collezioni permanenti, incapaci di rispondere al presente. Lo psichiatra Nikolai Rybnikov, invece, auspica la creazione di un Istituto Biografico capace di collezionare e studiare le biografe di ogni singolo cittadino sovietico. Per Pavel Florensky, così come scrive nel 1918, il modello è invece quello di un centro sperimentale che funga da rete per istituzioni educative e scientifiche; questo anche perché, citando Pavel Murator (autore pochi anni prima del libro Obrazy Italii, Immagini d’Italia),“forse non è alla luce dei musei che si debba cercare un genuino entusiasmo per gli antichi”.
Nell’adozione del materialismo dialettico quale approccio predominante anche in area museale, emergono anche esperienze come“The Experimental Complex Marxist Exhibition”, un allestimento che rifugge dall’esclusività dei quadri appesi attraverso il quale favorire l’apprendimento offerto dal confronto fra gli stili e le arti (arredamento incluso) delle diverse classi sociali.
Mentre per Bogdanov, prima vicino a Lenin e poi suo oppositore, il Prolekult (l’Organizzazione Culturale-educativa Proletaria) avrebbe dovuto realizzare mostre autodidatte nelle fabbriche, aggiornandole progressivamente; un progetto ipotizzato sulla falsariga di uno ulteriore che vede la nascita di un museo davvero industriale, fucina laboratoriale di produzione. La necessità di un’istituzione sempre connessa alla vita quotidiana e un museo capace di superare i propri confini spinge anche verso l’idea di un museo itinerante dentro comuni veicoli, allo scopo capace di raggiungere anche i contadini che vivono nelle campagne. E poi il già citato Museo della Rivoluzione, il Pantheon dell’URSS, i Musei Antireligiosi e diversi altri.
Sono numerose, quindi, le teorizzazioni e talvolta le sperimentazioni reali volte a promuovere nuove formule e tipologie museali che, sempre a partire dagli anni Trenta, vedono emergere anche una riflessione specifica sulle modalità testuali più efficaci per favorire la comprensione. Si tratta di musei, talvolta surreali, che ambiscono innanzitutto ad un’osmosi con il territorio, in un’ottica di inclusione per quanto chiaramente finalizzata ad obiettivi e valori politici.
Quella che poteva comunque essere l’esordio di un lungo percorso di ricerca si interrompe però con il progredire degli anni Trenta: se anche Stalin si esprime sul tema, definendo i musei “nuove armi per propositi di partito”, il loro destino li vede costretti ad un agire via via sempre più omogeneo che non lascia spazio a nuove rielaborazioni e teorie. Dal 1917 ad oggi, a quasi distanza di cent’anni dalla rivoluzione di novembre, è interessante notare il moltiplicarsi delle mostre che, nei grandi musei internazionali, raccontano la ricchezza di una produzione creativa: dalla pittura al cinema, dagli artefatti alle porcellane, dalle stoffe stampate ai coupon alimentari.
Per il MoMA di New York è la prima volta che una mostra raccoglie così tanti supporti diversi, obbligando i diversi dipartimenti ad una collaborazione del tutto nuova. Lo racconta in un articolo dello scorso dicembre il New York Times, citando Alfred H. Barr Jr, primo direttore del museo che, visitando Mosca nel 1928 non avrà potuto che prendere ispirazione dalla molteplicità delle forme espressive dell’avanguardia nella stessa differenziazione delle aree del suo museo. E se pure l’influenza formale e intellettuale di quegli anni rivoluzionari aveva, per alcuni, plasmato la cultura americana del dopoguerra fatta di manifesti e pubblicità, la prima mostra su larga scala e senza prestiti organizzata negli Stati Uniti risale solo al luglio del 1980.
Il museo, in questo senso, rappresenta chiaramente un mezzo espressivo che meriterebbe maggiore attenzione nell’indagine dei suoi paradigmi e delle sue potenzialità. Credo che durante l’estate sarà difficile poter approfondire lo stato attuale di quelli russi per soli 50 euro. Ma chissà che, al contrario, negli outlet della provincia italiana qualcuno non possa comunque decidere di inventare un qualche progetto sensato, senza per forza chiamarlo museo; perché a parer mio, nei primi anni Trenta e per una causa da considerarsi buona, non l’avrebbero affatto escluso a priori.