La pratica impossibile del lavoro durante la pandemia

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    È possibile lavorare durante la pandemia? E come cambiano le abitudini di lavoro? Ce lo siamo chiesto in tanti e per chi, fino a ieri, andava ogni giorno in ufficio, le cose stanno certamente così. E in modo radicale. Lo stesso vale per i lavoratori dei servizi essenziali, farmacie e supermercati prima di tutto, che operano in un contesto surreale e, sicuramente, si sentono addosso il rischio e la responsabilità.

    Per chi scrive e lavora come freelance, invece, potrebbe persino apparire una condizione ideale. Non è infrequente per questo tipo di lavoratori stare chiusi in casa per una consegna, per una scadenza ravvicinata, incombenze per le quali spesso servono poche cose come un computer, una connessione, qualche materiale di lavoro e un po’ di generi di conforto (per quello che mi riguarda the, caffè, acqua e qualcosa da sgranocchiare).

    Già, ma non tutto si risolve nella “cornice” delle condizioni materiali. In realtà anche per un freelance ci sono cose che cambiano molto. Nel mio caso, ad esempio, il lavoro di osservazione che precede la scrittura è infarcito di socialità. Il teatro, ad esempio, che scandiva come la campanella della scuola il liberi tutti dalla concentrazione solitaria di fronte allo schermo, non si può andare a vederlo.

    Ci sono molti volenterosi che caricano vecchi spettacoli, anche se l’arte dal vivo vista sullo schermo non è mai la stessa cosa. Altri che improvvisano maratone di letture in streaming, racconti on line di quello che succede nelle nostre case, consigli legati alla sfera artistica – cosa leggere, cosa guardare –, magari conditi da un pizzico di ironia, nella speranza di cancellare la sensazione di essere tutti diventati, fatalmente e compiutamente, i protagonisti dell’edizione più estesa di sempre del Grande Fratello.

    Il tema del fare a tutti i costi che ha infettato le nostre menti e la nostra vita, frutto di un innesto del narcisismo sul virus del capitalismo

    Senza la prossimità, senza la socialità, lo spettacolo dal vivo ovviamente non ha senso. E la comunità degli artisti si è spaccata abbastanza diametralmente tra chi dice che forse è il caso di fermarsi, che a guardarlo alla luce della pandemia questa ansia di fare-fare-fare è parte del problema, e chi invece vuole proseguire in qualche modo, anche semplicemente come inno alla vita, o anche onestamente per non annoiarsi e avere qualcosa da fare.

    Il tema del fare a tutti i costi che ha infettato le nostre menti e la nostra vita, frutto di un innesto del narcisismo sul virus del capitalismo, avrebbe bisogno di uno spazio più ampio per essere affrontato – e forse lo stop forzato dei lavoratori dello spettacolo, che hanno contratti ridicoli e tutele inesistenti, può essere paradossalmente un buon momento per farlo. Ma al di là di come useremo il nostro tempo per ripensare un sistema che non ammette stop (ammesso che davvero lo si farà), mandare avanti il pensiero critico indipendentemente da ciò che avviene oggi non è affatto semplice. Si può continuare a scrivere articoli, certo, ma come fare a non tenere presente quello che accade? Allo stesso tempo, si può scrivere solo di quello, in un eccesso ipertrofico che allaccia in modo furioso informazione, fake news e ansia per il futuro? Non esiste una risposta esaustiva che possa far prevalere una posizione rispetto all’altra, è un po’ come essere dilaniati da due esigenze opposte che tirano in senso contrario – e in un certo senso, anche scrivendo questo pezzo, provo esattamente questa sensazione senza soluzione.

    Le strategie di sopravvivenza lavorativa che si possono mettere in campo sono diverse. Qualche montaggio che si può fare da casa, allestire cose che usciranno più in là, fare riunioni di progetti futuri per cui sembra quasi utopistico immaginare delle date e comunicare con chi era coinvolto in progetti che sono stati annullati.

    In un settore tanto precario come quello artistico, dove la gente ha accettato lavori senza tutela per anni, dove i guadagni sono risicati, quanto peserà questa cosa? Quanto ci indebiteremo?

    Su tutto però pesa l’incognita per il futuro. In un settore tanto precario come quello artistico, dove la gente ha accettato lavori senza tutela per anni, dove i guadagni sono risicati, quanto peserà questa cosa? Quanto ci indebiteremo? E quante volte ci sentiremo dire che questo non è il momento di chiedere i compensi dei lavori già svolti perché c’è stato il coronavirus? In un contesto dove storicamente sono poche le strutture che tutelano gli artisti con cui lavorano, dubbi del genere sono più che legittimi.

    E cambiano la percezione del mondo attorno a noi che, per converso, cambia anch’esso rapidamente. Di fronte a questo non è detto che si riesca sempre a trovare il tono giusto e non per mancanza di sensibilità, ma perché siamo immersi del tutto e senza più infingimenti nella contraddizione del nostro sistema economico. Le più alte espressioni del pensiero e dello spirito possono suonare illuminanti il giorno prima e disturbanti quello dopo, come la lettura di Agamben sullo stato d’eccezione o il richiamo alla specie di cui siamo parte della condivisissima poesia di Mariangela Gualtieri. Sguardi che illuminano potentemente un pezzo della questione ma che poi sembrano inesorabilmente venire rovesciati dalla complessità del tutto, dove le contraddizioni svettano supreme.

    C’è l’imperativo del dire, del vivere. E l’imperativo del tacere, del rispetto. C’è l’ansia per il destino individuale e la responsabilità di quello collettivo. C’è la sfiducia e la voglia di affidarsi finalmente a qualcuno. Come fare, davvero, a prendere parola di fronte a tutto questo? È una domanda che dobbiamo porci in qualche modo, anche se non ha una risposta univoca, perché non dobbiamo scordarci che chi legge, chi ascolta, è a suo modo dilaniato dalle stesse forze contrastanti, ma in modo ogni volta personale e imprevedibile.

    Occorre farlo in punta di piedi, nella consapevolezza che oggi chi prende parola, più che spuntare sentenze com’è prassi del sistema comunicativo italiano, deve soprattutto accompagnare la gente nell’ignoto (come da esempio stanno facendo egregiamente i colleghi di Radio 3).

    Magari un piccolo ignoto, che si risolverà in un tempo breve, ma che comunque è probabile che lascerà dietro di sé strascichi più lunghi. L’ignoto ha la capacità di sovvertire i parametri in cui ci muoviamo e con cui misuriamo il mondo: il cinismo può rovesciarsi in violenza, la razionalità in freddezza, la sensibilità in appiccicosa salmodia. Ma può anche aprire dei varchi e farci vedere per quello che sono le giustificazioni con cui, fino ad ora, abbiamo nascosto la fragilità di molti di noi, magari soltanto per prendere un nuovo lavoro e arrivare al prossimo bonifico.

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