L’estetizzazione diffusa, la veloce proliferazione di immagini levigate e consegnate al consumo, dove conta solo il mero presente della piú piatta percezione, conducono a una fondamentale anestetizzazione. Nulla piú accade e ci riguarda nel profondo, e cosí l’arte diventa solo occasione di una momentanea eccitazione. Pubblichiamo un estratto dall’ultimo libro di Byung-Chul Han, La salvezza del bello (Nottetempo)
Il “bello naturale” non è qualcosa che piace immediatamente, e non definisce un bel paesaggio:
Dire di un paesaggio “com’è bello” è ferirne il muto linguaggio e diminuirne la bellezza; la natura che si manifesta vuole silenzio […]. Quanto più intensivamente si contempla la natura, tanto meno si diviene consapevoli della sua bellezza se uno non la possiede già per istinto.
(Adorno, Teoria estetica)
Il bello naturale si dischiude a una percezione cieca, inconsapevole. In quanto “codice cifrato di ciò che ancora non c’è”, esso indica “ciò che appare piú di ciò che è letteralmente lí per lí”.
Adorno parla del “pudore nei confronti del bello naturale”, che deriva dal timore “di ferire ciò che ancora non c’è cogliendolo in ciò che c’è”.
Il decoro della natura è “il decoro di ciò che ancora non c’è e che con la sua espressione rigetta una intenzionale umanizzazione”, e rinuncia a qualunque uso.
Cosí il bello naturale si sottrae interamente al consumo e alla “comunicazione”, la quale conduce solo all’“adattamento dello spirito all’utile”, adattamento “tramite il quale lo spirito si allinea tra le merci”.
Al mero sentimento di piacere, che ha in sé sempre qualcosa di autoerotico, il bello naturale resta precluso, e vi ha accesso solo il dolore, che strappa il soggetto alla propria interiorità autoerotica.
Il dolore è l’incrinatura attraverso cui si annuncia il totalmente altro: “Il dolore al cospetto del bello, dolore in nessun luogo piú corposo che nell’esperienza della natura, è ugualmente anelito verso ciò che il bello promette”.
L’anelito verso il bello naturale è, in fondo, l’anelito verso un’altra condizione dell’essere, verso una forma di vita del tutto differente, priva di violenza.
Il bello naturale è antitetico al bello digitale. Nel bello digitale è del tutto eliminata la negatività dell’altro, di conseguenza esso è completamente levigato e non deve contenere alcuna incrinatura.
Il suo contrassegno è il sentimento di piacere privo di negatività, il mi-piace. Il bello digitale costituisce un levigato spazio dell’uguale che non permette alcuna estraneità, alcuna alterità.
Il modo della sua manifestazione è il puro dentro privo di qualsiasi esteriorità, e trasforma la stessa natura in finestra di se stesso.
Grazie alla totale digitalizzazione dell’essere viene raggiunta una totale umanizzazione, una soggettività assoluta in cui il soggetto umano incontra ormai solo se stesso.
La temporalità del bello naturale è il già del non-ancora. Esso si manifesta nell’orizzonte utopico di ciò che viene.
Il bello naturale è antitetico al bello digitale. Nel bello digitale è del tutto eliminata la negatività dell’altro, di conseguenza esso è completamente levigato e non deve contenere alcuna incrinatura.
La temporalità del bello digitale è invece il presente immediato senza futuro, senza storia. Il bello digitale è semplicemente lí presente. Nel bello naturale è insita una lontananza, esso “si nasconde nell’attimo della massima vicinanza”.
La sua lontananza auratica si sottrae a qualsivoglia consumo: “In quanto indeterminato, anzi antitetico alle determinazioni, il bello naturale è indeterminabile, in ciò parente della musica […]. Come in musica, ciò che nella natura è bello balena per sparire subito davanti al tentativo di acciuffarlo”.
Il bello naturale non si oppone al bello artistico, piuttosto l’arte imita “il bello naturale in sé” e “l’indicibilità del linguaggio della natura”, e in questo modo lo mette in salvo.
Il bello artistico è “copia del silenzio dal quale soltanto parla la natura”.
Il bello naturale si manifesta come la “traccia del non-identico nelle cose sottoposte alla signoria della identità universale”.
Il bello digitale mette al bando qualsiasi negatività del non-identico, e permette solo differenze consumabili, utilizzabili.
L’alterità cede il posto alla diversità. Il mondo digitale è un mondo che gli uomini hanno, per cosí dire, intessuto e rivestito con la propria retina (Netzhaut).
Nel bello naturale è insita una lontananza, esso “si nasconde nell’attimo della massima vicinanza”.
Questo mondo messo in rete e irretito (vernetzte) conduce a un costante autorispecchiamento.
Quanto piú spessa è tessuta la Rete, tanto piú radicalmente il mondo si scherma e protegge dall’altro e dall’esterno.
La retina digitale trasforma il mondo in uno schermo di immagini e di controllo.
In questo spazio visuale autoerotico, in questa interiorità digitale, non è possibile alcuno stupore. Gli uomini trovano piacere solo per se stessi.