Come avviare una ribellione rigenerativa

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    Pubblichiamo un estratto dal volume di Roman Krznaric, Come essere un buon antenato (Edizioni Ambiente). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

    La maggior parte dei tentativi di opposizione ai sistemi economici dominanti sono falliti. Le economie pianificate del socialismo di stato sono sopravvissute per mezzo secolo, ma ora non si vedono quasi più. Le grandi speranze del movimento cooperativo nel XIX secolo sono svanite, e sopravvivono solo in piccole aree come Mondragón in Spagna.

    Oggi stiamo assistendo a un altro tentativo di sfidare l’egemonia del sistema di mercato: la progettazione rigenerativa. È un movimento alle prime fasi di vita, e le sue possibilità di successo sono certamente scarse. Ma se speriamo di trovare un modello economico che sostituisca la dipendenza dalla crescita con una visione più sostenibile, al suo centro ci sarà il pensiero rigenerativo.

    Il design rigenerativo è un approccio olistico alla progettazione, che ci chiede di pensare al modo in cui facciamo acquisti, mangiamo, lavoriamo e viviamo, il tutto entro i limiti biofisici del pianeta, senza esaurire i sistemi ecologici da cui dipende la vita o senza superare il picco di riscaldamento globale. Si tratta di processi che sono in grado di ripristinare, rinnovare e rivitalizzare le proprie fonti di energia e materiali, rendendoli sostenibili e resilienti nel lunghissimo termine: decenni e secoli piuttosto che mesi e anni.

    I ribelli rigenerativi di oggi portano avanti la loro lotta in quattro aree: l’economia circolare, la produzione cosmo-locale, la democratizzazione dell’energia e il rewilding (restauro ecologico, ndR). Immaginate di camminare in un centro commerciale, la maggior parte dei prodotti, dai calzini agli smartphone, dai cotton fioc ai deodoranti, sono realizzati attraverso un modello lineare di design industriale vecchio stile, che Kate Raworth riassume così: “Estrai, produci, usa e getta”. Estraiamo materie prime della Terra, le trasformiamo in oggetti che vogliamo, li usiamo per un po’, o addirittura una volta sola, e poi li buttiamo. Ed è questo modello economico lineare degenerativo che ci sta spingendo a superare i confini del pianeta.

    Un modello alternativo di design rigenerativo conosciuto come “economia circolare” sta guadagnando terreno, si tratta di un modello in cui i prodotti usati sono continuamente trasformati attraverso processi circolari che riducono al minimo la produzione di rifiuti.

    Un materiale biologico come i fondi di caffè una volta preparata la bevanda, può essere diventare compost per far crescere i funghi, quindi mangime per il bestiame e infine restituito al terreno come concime. Per i materiali industriali come l’acciaio o la plastica, il processo è simile, con il materiale che viene utilizzato ancora e ancora attraverso la riparazione, il ricondizionamento, il riutilizzo e il riciclo. In un sistema circolare non esistono i rifiuti, che sono solo una risorsa nel posto sbagliato. È l’equivalente del passaggio da un concetto di tempo lineare a uno circolare nella produzione, che genera un “eterno ritorno” a lungo termine delle risorse del pianeta.

    Migliaia di aziende e imprese sociali stanno entrando nella mentalità circolare. La canadese Enerkem, specializzata nel trattamento dei rifiuti, estrae carbonio da quegli scarti domestici che non possono essere riciclati e lo trasforma in un gas per produrre biocarburanti verdi, un processo che ha aiutato la città di Edmonton a riutilizzare il 90% dei suoi rifiuti e a ridurre il materiale da inviare nelle discariche di 100.000 tonnellate all’anno. Per dimostrare di meritare la qualifica circolare, nel 2018 l’azienda svedese di abbigliamento sportivo Houdini ha aperto il primo impianto di compostaggio per abiti, dove i clienti possono portare i loro capi di lana biologica usati, metterli in bidoni per il compost e poi usare il terreno prodotto per coltivare verdure e ottenere un pasto gustoso dalla loro vecchia giacca da trekking. Sembra fantastico, ma dov’è la fregatura?

    Nell’economia circolare, chiudere il cerchio ed eliminare i rifiuti ambientali può essere costoso. Il risultato è che l’abbigliamento sportivo Houdini costa parecchio. Naturalmente, dice l’azienda, è perché, a differenza dei nostri concorrenti, stiamo coprendo tutti i costi ambientali di produzione. Ma la realtà è che senza grandi cambiamenti nei comportamenti, la maggior parte delle persone continuerà a cercare occasioni da Primark o H&M, e l’attrezzatura Houdini rimarrà di nicchia. Quello che serve davvero è che il modello circolare si diffonda all’intera economia.

    Il movimento Fab City si concentra proprio su questo compito. Le sue origini risalgono al 2014, quando il sindaco di Barcellona sfidò le città di tutto il mondo a “produrre tutto ciò che consumano” entro il 2054. Da allora, il movimento si è diffuso in oltre 30 città, da Santiago a Shenzhen, e non solo ha promosso la creazione di un’economia circolare a zero emissioni, ma ha anche messo in pratica una filosofia di produzione innovativa nota come “produzione cosmo-locale”.

    L’idea di partenza di questo secondo approccio al design rigenerativo è “gli atomi sono pesanti e i bit sono leggeri”: è ragionevole fabbricare prodotti (fatti di atomi) localmente per ridurre i costi di trasporto e l’uso di energia, a partire però da progetti (fatti di bit di informazioni) che sono liberamente disponibili a livello globale attraverso piattaforme digitali open source. Sentiamo parlare spesso di software open source come Linux, Drupal o Firefox, ma il Fab City guarda anche all’hardware open source. L’inventore polacco-americano Marcin Jakubowski, per esempio, ha creato il Global Village Construction Set, che comprende progetti gratuiti sviluppati all’interno della comunità che possono essere scaricati per costruire 50 macchine essenziali, dai trattori alle stampanti 3D, a una frazione del costo commerciale. “Il nostro obiettivo”, dice, “è un archivio di progetti pubblicati in modo così chiaro, così completo che un singolo DVD masterizzato è effettivamente uno starter kit per la civiltà”. Il suo lavoro ha ispirato l’Open Building Institute e WikiHouse, che offrono progetti per abitazioni ecologiche modulari a basso costo che possono essere prodotte e costruite localmente. Molte di queste organizzazioni si possono trovare ora nei makerspace (spazi fisici ideati per condurre attività pratiche, collaborative e creative, ndR) che stanno sorgendo in tutta l’Africa, dal Be- nin alla Nigeria.

    Come molte idee trasformative, il localismo cosmopolita sta lottando contro un sistema economico che potrebbe facilmente bloccarlo. Sarebbe bello vivere in una casa a basso costo e a basse emissioni di carbonio, che arrivi come un imballaggio dell’IKEA e richieda solo qualche mese per essere costruita. Tuttavia, considerati i prezzi elevati delle proprietà urbane, a meno che non siate disposti a vivere lontani da qualunque cosa, è difficile comprare un terreno su cui costruirla. Detto questo, e sforzandosi di essere comunque realistici sulle sue prospettive, secondo il guru belga dell’economia peer to peer Michel Bauwens la produzione cosmo-locale potrebbe “diminuire radicalmente l’impronta umana sulle risorse naturali, che devono essere conservate per le generazioni future e per tutti gli esseri del pianeta”. Inoltre, possiede anche un’adattabilità e una flessibilità intrinseche, perché crea economie che rispondono alle esigenze locali e sono resistenti al cambiamento: ogni città basata sulla produzione cosmo-locale avrà un aspetto diverso, basandosi sull’innovazione dei suoi produttori locali esperti di tecnologia.

    Va da sé che un’economia completamente rigenerativa sarebbe alimentata al 100% da energia solare, vento, onde e altre fonti rinnovabili. Se vogliamo mantenere il riscaldamento del pianeta al di sotto di 1,5 °C, non abbiamo altra scelta che decarbonizzare completamente i nostri sistemi energetici entro vent’anni, al più tardi. Si stanno facendo passi da gigante in questo campo: più di 100 città generano ormai oltre il 70% della loro elettricità da fonti rinnovabili, da Dar es Salaam in Tanzania a Curitiba in Brasile. Ma lo sviluppo davvero entusiasmante è la “democratizzazione dell’energia”, come è stata definita dal teorico dei cambiamenti sociali Jeremy Rifkin. Rifkin si riferisce alla crescita delle microreti di energia rinnovabile che permettono alle famiglie non solo di produrre la propria elettricità solare, ma di vendere l’eccedenza ai vicini, attraverso reti orizzontali peer to peer. E non sta accadendo solo in paesi ricchi come la Germania. In Bangladesh, decine di migliaia di persone, molte delle quali donne contadine povere, sono state formate per diventare ingegneri solari nei loro villaggi, e hanno installato sistemi solari in oltre quattro milioni di case nell’ambito di un programma governativo di “elettrificazione a sciame”.

    Entro il 2030, oltre 10.000 microreti collegheranno le famiglie che generano energia solare in tutto il paese come parte della rivoluzione solare in corso nel mondo. La virtù di questo modello è che è nello stesso tempo distributivo e rigenerativo: aiuta a portare le persone al di sopra della base sociale della ciambella, distribuendo la capacità di produrre elettricità molto più equamente di quanto avviene quando le famiglie sono costrette dipendere dalle grandi compagnie energetiche private che puntano al profitto. Questa democratizzazione dell’energia può avere anche profonde implicazioni politiche, le microreti tendono a rafforzare la coesione della comunità. Con la produzione di energia, la proprietà e la distribuzione diventano locali, e le persone potrebbero volere che anche altre cose siano locali, compreso il processo decisionale politico. Nel corso della storia umana, i sistemi energetici hanno plasmato i sistemi politici: come lo sviluppo dell’industria mineraria nel XIX secolo ha rafforzato il movimento sindacale e le richieste di diritti dei lavoratori, la rivoluzione solare guidata dalla comunità del XXI secolo potrebbe diventare una spinta per un decentramento radicale del potere, che favorisce il pensiero a lungo termine. D’altra parte, se i residenti preferiscono accumulare la loro energia in batterie private invece di condividerla, o se la produzione di energia rinnovabile viene dominata da un manipolo di grandi aziende, come sta cominciando ad accadere in molti paesi, allora il suo potenziale di democratizzazione potrebbe non essere mai pienamente realizzato.

    Una quarta forma di design rigenerativo viene promossa dal rewilding, un movimento che si è diffuso ovunque nell’ultimo decennio, dalla Scozia al Sudafrica e alla Romania. Le sue origini sono in parte una risposta ai fallimenti delle tradizionali organizzazioni di conservazione della natura. Per più di un secolo, gli ambientalisti hanno sostenuto che il nostro compito primario è quello di preservare la terra in modo che possa essere trasmessa alle generazioni future in condizioni incontaminate. Questa potrebbe sembrare un’aspirazione ammirevole, in sintonia con l’obiettivo del buon antenato di prosperare all’interno dei confini naturali, ma i critici fanno notare che molte organizzazioni di conservazione hanno involontariamente ceduto al fenomeno noto come “sindrome dello spostamento dei parametri di base”.

    Come spiega George Monbiot, “le persone di ogni generazione percepiscono lo stato degli ecosistemi che hanno incontrato nella loro infanzia come normale”. Di conseguenza, gli ambientalisti spesso chiedono il ripristino di pesci, animali o piante secondo i parametri ecologici della loro gioventù, senza sapere che già così potrebbero essere in uno stato di estremo impoverimento.

    In Gran Bretagna, per esempio, molte persone fanno campagne per preservare le ampie brughiere del paese, ma in realtà queste erano ricche foreste brulicanti di fauna selvatica che sono state devastate da secoli di allevamento di pecore. “Il movimento di conservazione, anche se animato dalle migliori intenzioni, ha cercato di congelare i sistemi viventi nel tempo”, sostiene Monbiot. Quindi lui e molti altri preferiscono il rewilding alla conservazione, che non consiste nel cercare di riportare la natura a una condizione precedente di cui si ha memoria, ma di permettere ai processi ecologici di ripartire reintroducendo piante e animali che possono dare il via al recupero della natura selvaggia e selvatica. Un caso emblematico è il parco di Yellowstone, dove la reintroduzione dei lupi nel 1995 ha prodotto una “cascata trofica” di rigenerazione ecologica: i lupi hanno impedito ai cervi di mangiare gli alberelli, permettendo alle piante di ricrescere, cosa che a sua volta ha riportato uccelli canterini, castori e altre creature a valle della catena alimentare.

    L’obiettivo del rewilding non è semplicemente quello di rigenerare paesaggi e prevenire la perdita di biodiversità, ma fornire una “soluzione naturale al carbonio” per l’emergenza climatica. La soluzione proposta non è un’opzione ad alta tecnologia come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, ma una tecnologia molto più antica ed efficace: gli alberi. Il potenziale del rewilding per il sequestro del carbonio è enorme: insieme all’agricoltura rigenerativa, il restauro ecologico di aree come le torbiere e le brughiere potrebbe portare entro il 2030 più di un terzo della riduzione dei gas serra necessaria per rimanere al di sotto di livelli di riscaldamento pericolosi. Ciononostante, finora ha attratto solo il 2,5% dei finanziamenti per la mitigazione. Uno studio dell’organizzazione Rewilding Britain rivela che trasferire i due terzi degli attuali sussidi agricoli a progetti di restauro ecologico sequestrerebbe 47 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, più di un decimo delle attuali emissioni del Regno Unito.

    Naturalmente, il rewilding non è l’unica soluzione: passare a diete a base vegetale, elettrificare i trasporti e isolare termicamente le nostre case darebbero un grande contributo, ma il potenziale rigenerativo degli alberi ci ricorda che l’umanità potrebbe assicurarsi un lungo futuro riscoprendo le profonde meraviglie del “tempo degli alberi”.

    Queste quattro pratiche rigenerative sono innovative e stimolanti. Ma guardiamo in faccia la realtà: i ribelli del tempo si scontrano con le radicate forze del potere economico e politico. Stanno combattendo la visione a breve termine delle aziende e della speculazione finanziaria, e devono scontrarsi con governi intransigenti legati agli obiettivi di crescita trimestrali e con una cultura iperconsumistica. Se le barriere da superare sono queste, siamo certi che tra un secolo la popolazione si guarderà indietro e vedrà gli inizi di una rivoluzione economica rigenerativa, così come ora noi possiamo guardare alla Rivoluzione industriale? Probabilmente no. Ma forse sì. Perché le pratiche rigenerative che appaiono in forma embrionale in tutto il mondo corrispondono precisamente a una trasformazione economica allo stadio iniziale. Fragile, frammentata e imprevedibile, proprio come nei primi giorni dell’industrializzazione nel XVIII secolo. Persino menti sopraffine come Adam Smith non si rendevano conto che c’era una Rivoluzione industriale in atto sotto i loro occhi.

    Le speranze di una rivoluzione rigenerativa sono sostenute da governi che stanno iniziando a pensare in modo diverso. I Paesi Bassi hanno adottato un programma innovativo per creare un’economia circolare entro il 2050, compresa una riduzione del 50% del consumo di materie prime entro il 2030. La Svezia ha un ambizioso “obiettivo generazionale”: risolvere i principali problemi ambientali del paese entro una sola generazione. La Finlandia si è impegnata a diventare carbon neutral entro il 2035. Un gruppo di governi dell’alleanza Wellbeing Economy Governments, tra cui Nuova Zelanda, Scozia e Islanda, sta cercando di sviluppare nuove metriche di sviluppo che si basano sul benessere collettivo piuttosto che sulla crescita economica. Alcuni paesi, come il Bhutan già da anni misurano la felicità interna lorda, mentre altri si stanno muovendo verso l’adozione del Green New Deal.

    La sfida più grande, tuttavia, è la questione al cuore dell’economia del XXI secolo: è possibile perseguire la crescita economica mantenendosi entro i limiti ecologici del pianeta? È un dilemma inevitabile per i governi di tutto il mondo. Un paese determinato a risolverlo è la Cina, una nazione spesso apprezzata per la sua visione a lungo termine, che ha messo gli occhi sulla creazione della prima civiltà ecologica del mondo. Quali lezioni potrebbe dare?

     

    Immagine di Ehimetalor Akhere Unuabona da Unsplash

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