Cosa dice l’arte su noi stessi? Strani strumenti di Alva Noë

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    Negli ultimi anni la ricerca su arte e cervello è cresciuta enormemente. Il frutto di questo incontro è stata la creazione di una nuova disciplina: la neuroestetica. Come qualsiasi cosa legata all’imperialismo culturale delle scienze cognitive anche questa discussione sulle opere visive e sonore ha conosciuto un grande successo.

    In direzione opposta a qualsiasi tentativo di ridurre l’arte spiegandola nei termini della neurobiologia o della biologia evolutiva (come è il caso, ad esempio, di G. Gabrielle Starr, Feeling Beauty: The Neuroscience of Aesthetic Experience, MIT Press 2015 e di Gregory F. Tague, Art and Adaptation, Bibliotekos, 2015), il filosofo americano Alva Noë, professore all’Università della California, Berkeley, studioso di teoria della percezione e della cognizione, presenta in Strani strumenti. L’arte e la natura umana, trad. di V. Santarcangelo, Torino, Einaudi, 2022, la propria visione della nostra esperienza estetica incentrata sull’idea che se l’arte ha qualcosa da dire è perché essa è parte della nostra natura nel senso più ampio. La domanda centrale del libro è: cosa ci dice l’arte su noi stessi?

    In Strani strumenti, Noë continua ed estende la propria ricerca sulla mente e la nostra natura iniziato con Action in Perception e Noi non siamo il nostro cervello applicando all’esperienza estetica la tesi centrale della sua filosofia secondo cui la percezione del mondo è legata all’azione. Questo perché, secondo la teoria enattiva della percezione di Noë, noi non siamo semplici animali ma animali attivi. “Come tutto ciò che facciamo, la visione può aver luogo sullo sfondo delle nostre competenze”. In questo senso, noi non vediamo con il cervello ma con tutto il nostro corpo il quale è situato in un ambiente e in una cultura. Ne consegue che pensare è un’attività organizzata: “vedere è più simile ad arrampicarsi ad un albero che a digerire ciò che si è mangiato”.

    Se volessimo riassumere in poche righe Strani strumenti diremmo che è il caso di un libro sull’arte scritto da un filosofo di tradizione analitica che non vuole spiegare l’arte attraverso la nostra cognizione di essa; al contrario, senza abbandonare la scienza difende una visione antiriduzionista dell’esperienza estetica. Secondo Noë, infatti, poiché i nostri concetti non sono dentro le nostre teste, il significato delle opere d’arte non andrebbe cercato esplorando i nostri cervelli ma, piuttosto, la nostra vita. Cosa l’arte ha da dire su di noi?

    Il libro è costruito su tre idee guida. Innanzitutto, l’arte non è una pratica tecnologica ma qualcosa che la presuppone senza ridursi a essa. Ciò significa che un oggetto d’arte non è solo il frutto della conoscenza tecnica impiegata per realizzarlo ma, piuttosto, una riflessione su cosa sia tale oggetto e perché lo usiamo. Per questo le opere d’arte sono strani strumenti. La tecnologia non è solo, per Noë, qualcosa che usiamo per raggiungere uno scopo; la conoscenza tecnica organizza la nostra vita in modo tale che sarebbe impossibile concepirla in sua assenza.

    Un oggetto d’arte non è solo il frutto della conoscenza tecnica impiegata per realizzarlo ma, piuttosto, una riflessione su cosa sia tale oggetto e perché lo usiamo

    Prendiamo una maniglia, per esempio. Noi tutti usiamo le maniglie per aprire e chiudere le porte; sappiamo cosa è una maniglia. Ma immaginiamo che la nostra civiltà scomparisse e un giorno nel futuro degli alieni ritrovassero sul nostro pianeta una maniglia abbandonata. Sarebbe certamente un oggetto molto curioso, per capire il significato di questo oggetto non basterebbe solo studiarne il meccanismo ma gli alieni dovrebbe capire un’intera cultura fatta di persone che hanno dei corpi, delle mani, che abitano in spazi dove si entra e si esce, e ci sono porte che si devono chiudere; devono intendere perché sia necessario costruire spazi chiusi, il nostro bisogno di proteggerci, di mettere al sicuro i nostri beni e insieme la nostra paura che qualcuno possa irrompere, la possibile violenza e, infine, il concetto stesso di abitare uno spazio che diventa una proprietà. Certo, non pensiamo a tutto questo quando usiamo una maniglia. Ma se un artista isolasse questo oggetto come un’opera d’arte saremmo costretti a riflettere su tutto ciò che l’uso di una maniglia significa per noi. E, necessariamente, riflettere sulla pratica di entrare e uscire da una stanza, di aprire e di chiudere porte, su come questa pratica tanto quotidiana organizzi la nostra vita in un certo modo.

    Tutti gli strumenti che noi creiamo, secondo Noë, ci rendono ciò che siamo in una continua organizzazione e riorganizzazione. L’arte illumina il modo in cui noi ci impegniamo con le nostre pratiche e tecnologie per organizzare al meglio le nostre vite. È il modo più profondo per comprendere tale organizzazione e, una volta compresa, mutarla per riorganizzarci. Questo perché, per Noë, come il pensiero – è questa la vera tesi centrale del libro – l’arte è un’attività organizzata il cui fine è mostrarci le nostre pratiche: mostrandoci una maniglia l’artista ci fa vedere tutto ciò che normalmente nascondiamo dietro l’uso di questo manufatto. “L’arte rimuove gli strumenti dai loro contesti e li rende strani. Rendendoli strani è come se li mostrasse per la prima volta”.

    Tutti gli strumenti che noi creiamo, secondo Noë, ci rendono ciò che siamo in una continua organizzazione e riorganizzazione

    Il lavoro dell’arte, il suo vero lavoro, è filosofico. Questa è la seconda idea guida del libro. Per la sua capacità di riflessione sulla tecnica e su come concepiamo e modifichiamo il mondo che ci circonda l’arte è essa stessa una pratica filosofica. E, secondo Noë, la filosofia, per quanto questo possa sorprendere alcuni filosofi, è una pratica artistica. Questo perché sia l’arte che la filosofia, apparentemente così diverse, sono in realtà specie di un genere comune che si occupa dei modi in cui diamo regole e organizziamo le nostre vite attraverso gli strumenti e la tecnologia. L’arte ci indica la possibilità di trasformarle sovvertendo tali regole per organizzarle nuovamente con nuovi strumenti, così come la filosofia dovrebbe modificare ciò che pensiamo per trasformare non i nostri concetti ma le nostre vite.

    La terza e ultima idea guida è che l’arte e la filosofia sono pratiche speciali votate all’invenzione della scrittura. Per Noë, “le arti e la filosofia si relazionano alla loro materia prima come la scrittura si relaziona al parlato”. Anche se questa ultima tesi è la più debole e che presenta argomenti meno convincenti, nella sua piacevole disorganizzazione Strani strumenti è un libro ricco di intuizioni e idee intriganti benché non fortemente originali. Sulla scia di Varela e Gibson, Noë recupera Heidegger, Dewey, Merleau-Ponty, applicando alcune loro idee al dibattito contemporaneo sulla natura della percezione nell’arte e l’embodiment, ossia l’idea secondo cui non si percepisce con il cervello ma con l’intero corpo situato in un contesto.

    Nonostante frequenti ripetizioni delle medesime idee che a volte affaticano la lettura, ciò che va conservato e discusso di Strani strumenti è lo sforzo del suo autore per non eliminare la biologia dall’arte perché, in ultima analisi, fare arte è parte della natura umana. Ma, del resto, per non ridurre l’arte al cervello come vuole la neuroestetica bisogna riformare la scienza della vita. Noë vuole, in realtà, pensare in modo diverso la biologia applicata alla mente, e per far questo ci mostra come l’arte possa aiutare le scienze biologiche a capire meglio il loro oggetto, non il contrario. Strani strumenti è l’ultimo capitolo di questo suggestivo programma la cui ambizione è di riformare radicalmente lo studio della cognizione umana.

     

    Immagine di copertina: ph. Aaina Sharma da Unsplash

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