La città ci guarda: architetture dell’abitare

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    Ricordo ancora un reportage uscito su Internazionale nell’agosto 2012 in cui si parlava di Napoli. Lo ricordo perché a scriverne era un francese che, giunto nella capitale partenopea, si era lasciato avvolgere dalla sua atmosfera riuscendone a cogliere da subito gli aspetti antropologici più intimi. Parlava di faccende sociologiche ed etnografiche, del culto delle anime pezzentelle e del cimitero delle Fontanelle. C’era, però, un passaggio per me centrante che tuttora mi mette di buonumore.

    Il giornalista ipotizzava, con fare ironico ma non troppo, che a Napoli psichiatri e psicologi non facciano molta fortuna perché non vi è sentore di aggressività represse: tutto si svolge per strada, nelle piazze, nei vicoli. È lì che il popolo partenopeo si riconosce meglio e si sfoga, anzi vive. Urla e parla, gesticola e ride, piange, s’incazza, ama e uccide. Nessuna frustrazione. Napoli ti accoglie così, che ti piaccia o meno. Lo stesso Warhol affermava “amo Napoli perché mi ricorda New York (…) come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York”.

    È una città che, come New York, vive la strada. Ci ho pensato davanti al video del rapper nel suo appartamento al Bosco Verticale di Milano. In questo megalusso kitsch dove nulla è scelto con cura e gusto, lui si vanta di avere una specie di posto in paradiso, in un 21° piano, ben distaccato dal terraneo.

    Dice di non aver bisogno di andare incontro al mondo, gli basta stare lì dove c’è il cielo (un’illusione di cielo), il verde (un’illusione di verde), l’altezza (illusione di potenza) e dove accoglie amici (illusori anche loro?) per private exclusive party nel pieno centro della città. A vederlo, un degno erede di Luchino Visconti potrebbe farne un “Ritratto di rapper in un interno”.

    Al Bosco Verticale faceva cenno qualche puntata fa di Pagina3 Nicola Lagioia che segnalava una narrazione azzeccatissima firmata da Massimo Fini, La Milano disumana dei grattacieli del Qatar.

    Qui si racconta di una Milano storicamente diversa che forse non aveva l’urgenza di allinearsi alle grandi capitali europee (o addirittura con la pretesa del transeuropeo) e che, come le vere capitali, sapeva accogliere la diversità, conosceva l’umanizzazione che resiste ancora oggi in una delle zone meno chic della città, quella della Stazione Centrale, dove la barista demodé se ne frega della tua storia. Che tu sia un clochard o un cliente ti dà una possibilità: un lavoretto per comprarti un panino e sopravvivere anche a quest’altra giornata, un pacchetto di sigarette dal distributore accanto se non lo sai usare perché anche tu, cliente, possa essere contento con poco, in fondo. Una chiacchiera sincera.

    Insomma, lei se ne frega. Il rapper no. È tutto proteso in una risatina isterica quando gli mancano le parole (e accade spesso), vive in un grattacielo dorato, ha speso 15 mila euro circa moltiplicati per 200 per non vivere, non scendere dalla barista, in un quartiere, Isola, che “dicevano che era una brutta zona, prima, ma adesso l’hanno ripulita”, come sostiene il nostro.

    Allora forse per parlare di spazio privato dovremmo ricominciare a parlare di spazio pubblico, a ripensare e riformulare il processo sociale, economico e politico di gestione dei luoghi della condivisione. Dovremmo continuare a parlare di diritto alla città per parlare di diritto all’abitare.

    Uno dei tentativi più riusciti sull’argomento fu la discussione aperta in occasione della costituente dei beni comuni che si tenne a L’Aquila il 4 maggio 2013. Proprio a L’Aquila, una non-città dopo i drammatici fatti del terremoto del 6 aprile 2009, si tornava a parlare, alla presenza di studiosi, giuristi, accademici, movimenti territoriali e nazionali, antropologi, di diritto all’abitare.

    I beni comuni non sono un’astrazione  ma sono ciò che si ricollega ai nostri diritti fondamentali, cioè all’idea che il diritto all’abitazione non può essere ricondotto esclusivamente a un luogo dove abitare, ma alla necessità di vivere in un ambiente salubre da ogni punto di vista
    Stefano Rodotà, L’Aquila, 4 maggio 2013

    Senza una pedagogia della territorialità, senza un’educazione al paesaggio, senza una rieducazione al senso comune del luogo non ci può essere diritto dell’abitare, un diritto che va costruito non solo con una consapevolezza istituzionale ma che dev’essere anche popolare.
    Antonello Ciccozzi (antropologo aquilano), L’Aquila, 4 maggio 2013

    Riappropriarsi della città, dei suoi spazi pubblici e privati, della propria dignità di cittadini, per eludere il pericolo di una grande, stratosferica new town che a Milano – con tutta l’operazione urbanistica della zona intorno a piazza Gae Aulenti e con l’architettura e l’ideologia del Bosco Verticale – si palesa con modalità apparentemente non assimilabili per questioni economiche ma equiparabili, per la volontà alienante, alle new towns aquilane che tutti concordiamo nel definire mostri estranianti.

    Dalla stessa Isola milanese emergono però altre sinergie che più si allineano con le necessità di elaborazione critica. Una è quella del collettivo Parasite 2.0 composto da tre architetti classe ’89 (Eugenio Cosentino, Stefano Colombo e Luca Marullo) che, da poco usciti dal Politecnico, hanno già pubblicato un libro, Primitive Future Office, vinto l’edizione 2016 del premio YAP del MAXXI, ovvero il più ambito d’Italia, e ora sono in partenza per la Biennale di urbanistica di Shenzhen. Ho detto Isola ma, in verità, due anni fa, in seguito alla violenta gentrificazione di questo quartiere arricchito da tirannoarchisauri, sono stati costretti a smammare per trasferire casa e studio a Corvetto, zona decisamente più decentrata.

    Parasite 2.0 si interroga sulla “depoliticizzazione” delle città e degli enti che le governano, e, conseguentemente, sulla nuova posizione dell’architetto privato oramai, come loro stessi affermano, del suo substrato teorico e ideologico. Per riprendersi il ruolo critico, politico ed estetico, scelgono di ancorarsi all’architettura informale, seguono i movimenti di controcultura, rivolgono l’attenzione all’Open Culture. Insomma sono meno interessati ai dettami della pianificazione normativa e più alle dinamiche sociali ed economiche che anche l’architettura implica.

    Lo spazio è uno dei temi cardine che Silvia Bottiroli, direttrice artistica, ha scelto per la prossima edizione di Santarcangelo dei Teatri: spazio, tempo e rito sono, come ci spiega, tre coordinate fondamentali dell’esperienza teatrale e il festival ne estenderà la portata, declinandole nel senso del rapporto (combattimento o danza) tra realtà e finzione. Lo spazio: là dove luoghi della quotidianità di Santarcangelo sono presi in conto nelle loro identità specifiche – essere una scuola, un campo da gioco, una grotta ipogea, una fabbrica abbandonata da poco… – e al contempo sovrascritti dal lavoro degli artisti che li trasformano con i loro interventi o vi fanno apparire frammenti di mondi immaginari.

    E allora ecco spiegato cosa ci farà un gruppo di architetti, Parasite 2.0 appunto, in un festival di arti performative, che è, peraltro, uno dei dodici festival più innovativi della scena europea, vincitore dell’Effe Award.

    Silvia Bottiroli li ha invitati ad avviare un workshop rivolto a studenti di architettura, ingegneria, design, scenografia e belle arti, ma anche a professionisti, apprendisti falegnami e artigiani per un massimo di dieci partecipanti. Il titolo è Architecture as fictional reality e punterà a creare architetture effimere nello spazio della piazza, luogo aggregativo e pubblico per eccellenza. Partono da una esigenza quasi ludica che però è un quesito profondamente serio: possiamo immaginare un continuo mondo composto da interni, ognuno di essi rappresentante un microcosmo, una costruzione artificiale di un pianeta alla scala personale?

    Alla pianificazione normativa invece sono stati necessariamente legati i tre architetti vincitori del concorso di architettura innovativa AAA architetticercasi: Pietro Colonna, Francesco Ferrante e Davide Vulpio. Il bando, lanciato da Federabitazione Confcooperative e promosso da Fondosviluppo spa, è alla sua quarta edizione ed è rivolto a giovani professionisti under 32, investe sulle nuove generazioni e la sua parola d’ordine è cooperazione, come strumento di lavoro e come principio base di interventi residenziali nei contesti urbani.

    Il progetto vincitore di cui parliamo ha un titolo, M21_CIVILTÀ CONTADINA MODERNIZZATA, dove M21 sta ad indicare il nome della maglia urbana interessata dall’intervento.

    In questo caso la stretta aderenza a un piano particolareggiato preesistente è stata fortemente limitante e ha imposto volumi e servizi definiti da un precedente piano urbanistico nell’aperta campagna barese.

    Basta dare uno sguardo distratto alle tavole per capire che si tratta di un contesto rurale costretto, però, ad ospitare un complesso abitativo imponente. Un piano che, non solo distrugge la campagna arrivando con volumi e quantità dettati da indifferenza verso il tessuto pregresso fatto di strade, di linee, di vegetazione, ma impone anche uno stile di vita residenziale e ghettizzante tipica dei mega condomini.

    Dunque qui si tratta di uno scontro titanico tra una burocrazia stringente e la volontà umanizzante di questo gruppo di architetti che hanno progettato partendo dalla teoria di Yona Friedman espressa nel suo Alternative energetiche. Pietro ne viene folgorato durante la mostra veneziana Paesaggi d’aria, in cui l’autore-architetto-urbanista-designer era felicemente accostato alle immagini della campagna modenese fermate dalla poesia di Luigi Ghirri. Dal recupero della complessa teoria utopica di Friedman che immaginava una società slegata da dettami consumistici e da un eccessivo e controproducente consumo energetico, dalla sua idea di città come un nucleo che si autosostiene producendo ma facendolo nella misura utile al reale sostentamento e bisogno, i tre architetti traggono un “atteggiamento”.

    Con una poetica e una politica totalmente contrapposta alle teorie di smart city che stanno interessando molti centri, Pietro sottolinea che uno, forse il primo, dei compiti dell’architettura è quello di prendersi carico dei problemi della società e provare a dargli una soluzione concreta.

    Ecco allora che diventa sostanziale l’apporto di Francesco e della sua esperienza professionale in Germania, dove gli orti urbani ormai sono talmente entrati nello stile di vita quotidiano da non essere neanche più oggetto di discussione: sono le persone che esprimono spontaneamente l’esigenza di avere terra coltivabile intorno a sé.

    Per quanto incredibile possa apparire, l’idea di orto urbano non è nuova oggi e forse non lo era neanche all’epoca di Friedman: nelle cittadine del sud Italia erano assolutamente popolari e diffuse in epoche precedenti al boom economico.

    Davide mi spiega, invece, gli aspetti più pragmatici del progetto: come recuperare la dimensione umana e comunitaria in questo contesto pieno di cavilli e paletti burocratici e tecnici? Questo interrogativo li ha condotti alla creazione di quanti più spazi possibile per la socialità.

    Il piano terra è poroso, nel senso che consente il passaggio di individui. Non vi sono recinzioni. Puoi andare a visitare gli orti altrui ed è tutto dotato di spazi sociali, laboratoriali, spazi collettivi per la riparazione di biciclette, spazi G.A.S. (Gruppo di Acquisto Solidale) per la vendita di prodotti a chilometro zero, la lavanderia comune, spazi di coworking, il terrazzo coltivato e a terra, appunto, gli orti. Il nostro atto tecnico è stato quello di liberare il condominio da una mera funzione residenziale. (…) Una progettazione esclusivamente funzionale è proprio anti-sociale. È anti-tutto! – esclama con fervore – Non è solo anti-sociale. È anti-economica, è anti-estetica, è anti-tutto. Quindi è stato molto difficile mandare giù questo rospo. Ma ce l’abbiamo fatta nel senso che abbiamo cercato di trasformare tutti questi aspetti negativi in positivi.

    città

    Insomma la città è viva, la città pulsa. Calvino scriveva “d’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

    E il collettivo Lele Marcojanni, in qualche modo, di farsi delle domande sulla città l’ha chiesto agli abitanti di una città in particolare: Bologna.

    In verità non l’hanno chiesto ad abitanti generici ma solo a fumettisti. Il progetto si chiama Le città hanno gli occhi ed è nato dalla collaborazione con il festival internazionale del fumetto Bilbolbul, quest’anno alla sua decima edizione. Dobbiamo aspettare quindi novembre per vederne i risultati ma intanto vogliamo raccontarne gli intenti.

    Lele Marcojanni – ovvero Elena Mattioli, Flavio Perazzini e Roberto Mezzano – esiste dal 2010 ed è innamorato delle narrazioni.

    Quello di cui stiamo parlando è un lavoro ancora in fieri che parte dalla raccolta di testimonianze di fumettisti che hanno operato a Bologna (alcuni nomi sono quelli di Francesca Ghermandi, Davide Toffolo, Vanna Vinci, Igort, Alessandro Tota, Tuono Pettinato e altri anche giovani come Giulia Sagramola e Silvia Rocchi) perché, dice Elena, Bologna è il minimo comune denominatore di tutto ciò che è fumetto d’autore in Italia e, quindi, ci siamo chiesti come funzionasse per loro, che ruolo avesse avuto la città nella loro formazione. Stiamo scoprendo che ha aggregato e reso possibile una serie di fusioni ed esplosioni che hanno animato innumerevoli iniziative spontanee, odi, attriti, amori, collaborazioni, scintille che altrove non esistono.

    Perché le città gli occhi ce l’hanno, e hanno anche cuore, mente, polmoni, ossa. Per poterli vedere, leggere e usare è però necessaria una condizione: la predisposizione d’animo. Se manca quella la città può apparire vuota, come cantava Mina, ovvero caotica e vociante come la sentiva quel Gianni Morandi sorpreso a intonare Ha gli occhi chiusi la città, traduzione italiana dell’Everybody’s talkin’ di Harry Nilsson.

    Inferno e paradiso sono le due facce della città. Lei la protagonista. E Lele Marcojanni ha questo intento, quello di parlare della città come protagonista muta di una storia. E ogni individualità ne racconterà un capitolo intimo, creativo, personalissimo, irripetibile. Con alcuni vorremmo ragionare sulla corrispondenza tra gli spazi disegnati e la città perché si prestano molto, con altri invece sul ruolo di quello spazio, quello urbano intendo, nell’aggregazione e creazione di dinamiche.

    Quella che abbiamo attraversato è un’Italia in gigantografia, affrontata scrutandone l’architettura, l’attualità sociologica e politica, gli slanci tesi verso le nuove ricerche performative, le riflessioni accolte dalle arti visive. Lo abbiamo fatto scarrozzandoci su e giù, tra nord, centro e sud, tra centri urbani grandi e piccoli, centrali e periferici di questo stivale (Napoli, Milano, L’Aquila, Santarcangelo di Romagna, Bari, Bologna), tra teoria e prassi.

    La sensazione confortante è che siamo non pochi a concordare ancora sul fatto che, nell’eterogeneità di linguaggi, tecniche, approcci, necessità, fare architettura e pensare di urbanistica hanno senso solo se se lo si fa in termini di riappropriazione degli spazi, delle relazioni, del tempo, delle identità.

    In conclusione, l’architettura e l’urbanistica ci riguardano tanto, ci riguardano tutti e ci dovrebbero guardare di più.

     

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