Architettura radicale, una pratica dell’immaginario

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    Tra Aprile e Settembre 2016, il MAXXI di Roma ha ospitato una importante retrospettiva di Superstudio, in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione dello studio fiorentino di architetti che hanno scardinato l’idea di architettura interrogandosi su cosa piuttosto si dovesse fare per essere parte attiva del presente.

    Una serie di conferenze, sempre organizzate al MAXXI e curate da Domitilla Dardi ed Emilia Giorgi, ritorna sull’argomento, allargando il campo a diverse esperienze, che sempre in Italia e sempre dagli anni Sessanta, hanno rivolto la stessa attenzione alla relazione tra arte e vita attraverso la lente dell’Architettura. Incontri Radicali. La storia del movimento radicale italiano raccontato attraverso le parole dei suoi protagonisti, ha aperto la serie con una prima tavola rotonda che ha visto seduti insieme Ugo La Pietra; Adolfo Natalini, Giampiero Frassinelli e Cristiano Toraldo di Francia per Superstudio; Alberto Breschi per il gruppo Ziggurat.

    La grande ed importante retrospettiva del MAXXI, Superstudio 50, sviluppata insieme agli stessi protagonisti di Superstudio e curata dall’architetto e storico dell’Architettura Gabriele Mastrigli, ha avuto il merito di storicizzare, sotto la forma monumentale della mostra, l’importanza storica del collettivo, mescolando progetti, disegni, oggetti, fotomontaggi, installazioni ed anche video, tra cui “Il Monumento Continuo”, un lavoro del 1969, di cui esisteva soltanto lo storyboard pubblicato su Casabella n.358 del 1971, e di cui il MAXXI ha commissionato la realizzazione. Mastrigli stesso ha anche curato un volume (comprensivo di testo critico e materiali editoriali pubblicati dal gruppo tra il 1966 ed il 1978) dal titolo Superstudio e pubblicato da Quodlibet: 668 pagine e pagine di testi, progetti ed immagini di un “collettivo che ha fatto storia (ma non edifici)”, come titola il New York Times in un testo dedicato alla mostra del MAXXI.

    La storicizzazione del gruppo in Italia era necessaria e dovuta, dopo decenni durante i quali i suoi protagonisti hanno trovato diverse difficoltà di relazione con il contesto formale dell’architettura del Paese, hanno lavorato come architetti seguendo traiettorie indipendenti ed hanno trovato un iniziale sostegno solo all’estero. Da citare la mostra del MoMA di New York, del 1972, New Domestic Landscapes, che ospita Superstudio ed Archizoom nella sezione “ambienti anti-design” con due lavori:
    “Superstudio’s 6×6 foot box of polarized mirror glass with a grid in the floor through which tubes project bringing air, food, water and communications to the occupants, who can also watch a film on TV that describes the designers’ vision of the world and see pictures of clouds projected on the cell- ing; and Archizoom group s empty room containing only a microphone over which come harsh words about the destruction of objects and institutions, followed by a pleasant voice describing a Utopian world”.

    Due spazi apparentemente domestici che parlano di un futuro distopico non troppo dissimile da quello che stiamo vivendo oggi – il primo, e la chiamata alle armi per sovvertire il mondo così come stato organizzato e invocare l’Utopia – il secondo.

    Ma la narrazione della Storia passa sempre per alcune parole chiave, che talvolta semplificano ma al tempo stesso rendono evidenti nella loro interconnessione, esperienze parallele, quasi contemporanee e simili nell’atteggiamento culturale: nel caso di Superstudio, esperienze che si sono sviluppate in Italia e sempre negli anni Sessanta e che sono state storicizzate come “Radicali” da Germano Celant all’Inizio degli anni Settanta, dopo le due mostre “Superarchitettura”, a Pistoia nel 1966 ed a Modena nel 1967 (dalle quali emergono i nomi di due collettivi, Superstudio ed Archizoom).

    Dal termine “radicale” prendono avvio gli Incontri Radicali con i suoi protagonisti, che nella narrazione orale di un vissuto ovviamente molto legato ad un contesto storico incandescente (gli anni Sessanta in Italia), riescono a rendere permeabili, quasi le avessimo vissute anche noi, le rispettive singole aspettative e tensioni, gusti culturali e voglie. E qui forse troviamo il valore più immediatamente condivisibile della serie: nel racconto della storia attraverso la voce, che rende anche definizioni e parole chiave meno astratte.

    Essere radicale per noi, è una definizione storiografica: l’Architettura Radicale italiana, i suoi gruppi, i manifesti, i progetti, il design. Nel 1999 in una mostra curata da Gianni Pettena, architetto e lui stesso parte dei “radicali”, al Palazzo Fabroni di Pistoia (Archipelago. Architettura sperimentale 1959-99), il movimento radicale viene avvicinato ad alcuni esempi recenti di architettura sperimentale. Si tratta, credo, di una lettura del termine che si focalizza su una maniera di fare architettura, audace e fuori dai canoni del Moderno certo, ma certamente orientata al fare.

    Il radicalismo di cui abbiamo ascoltato discutere nella conversazione tra La Pietra, Frassinelli, Natalini, Toraldo Di Francia e Braschi è invece una attitudine, un modo di guardare il mondo e di decidere di farne parte seguendo modalità che non sono quelle segnate dall’orientamento della maggioranza (la politica, le istituzioni, i maestri, il mercato, i consumi, i committenti).

    Inquadrata in questo modo, si tratta di una visione dello stare al mondo, e non la definizione di una formalizzazione estetica (nel loro caso propria del far parte del mondo dell’Architettura).

    “Noi non ci siamo mai chiamati Radicali”, dice Toraldo Di Francia, che ricorda (facendo svanire ogni tentativo di trovare una data precisa di inizio del movimento legato a fatti specifici: l’alluvione di Firenze del 1966 per esempio), che loro invece erano parte dell’occupazione dell’Università di Firenze nel 1963, che agli esami costringevano i professori a sorbirsi le loro performances e non i loro compiti, che se si guardavano intorno pensavano ai Pink Floyd ed alla ricerca sperimentale tra suono e immagine di Giuseppe Chiari. E Frassinelli che partendo da Marx ci dice che essere radicali significa “prendere i problemi alla radice”.

    Un gruppo di visionari che invece di lasciarsi distrarre dalla meta-narrazione e dal meta-linguaggio del loro campo professionale specifico, hanno preferito guardarsi intorno. Invece di produrre (edifici od oggetti di design) hanno piuttosto progettato immaginari che scioccassero e ci mettessero in guardia su quello che stava succedendo. E l’immagine del Condominium di Ballard non può che venirmi in mente. L’Utopia positiva del Modernismo che tutto progetta, incluse le minime abitudini quotidiane degli esseri umani, nulla può di fronte al vissuto, all’istinto, alle paure, all’esistenza reale. E così progettare spazi razionali, l’Utopia positiva (dal Bauhaus ai progetti urbanistici per Parigi, mai realizzati, di Le Corbousier, fatti di autostrade ed enormi unita’ abitative), si scontrano contro le utopie negative di cui parla invece Toraldo, che “raccontavano il male e lo portavano ai limiti”.

    “A Milano facevamo squadra contro la Pop Art”, dice Ugo La Pietra. Architetto, designer, artista visivo, scrittore. Sulla carta, un po’ tutto o niente, se uno registra solo le le etichette metodologiche ed i campi disciplinari della storiografia. E invece dalla sua narrazione si evince una tensione che va ben oltre i confini delle discipline e delle professioni, e che punta invece ad abbracciare la vita, il presente, ed esserne parte in maniera significante. “Radicale è una attitudine” dice ancora, “di chi ha un atteggiamento critico”. O ancora “di chi cerca gli strumenti da dare alla società per capire”. Le esperienze degli artisti dei gruppi di arte Cinetica e Programmata (e le loro modalità collettive di operare) entrano in gioco nel suo discorso, insieme a quelle dell’Internazionale Situazionista.

    Il che ha immediatamente fatto tornare alla memoria due episodi della mia formazione culturale ed umana. Seconda metà degli anni Novanta, studentessa nel Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università “La Sapienza” di Roma, faccio la fila per una revisione in vista dell’esame di Arte Moderna. Code senza fine alle quali si sopravvive solo leggendo. Io ho in mano Isole nella Rete di Sterling. Il mio vicino, studente modello che ho sempre invidiato per puntualità, totale controllo degli istinti e precisione nelle descrizioni e nelle citazioni delle fonti, legge Gombrich. Si gira verso di me, viso impassibile, osserva la copertina un po’ accartocciata e la sua grafica pop, e mi dice con una voce tendente al disprezzo “Ma tu ancora perdi tempo con la letteratura? Siamo storici dell’Arte, prova con la critica d’arte”.

    Pochi anni dopo, Forte Prenestino, Roma, terzo Hackmeeting, mi trovo davanti al Manifesto, dove leggo che l’hacking è una attitudine, non una competenza specificamente legata al computer, che si manifesta con la curiosità di entrare dentro le cose, vederne i meccanismi, metterci le mani, controllarne i funzionamenti, in visione di un’etica di condivisione, creazione e volontà di stare al mondo capendone regole e limiti.

    Oggi ho trovato una maniera di avere una professione nel mondo dell’arte e nello stesso tempo di condividere le attitudini utopiche di un gruppo di persone che ancora girano per il mondo, sistemano spazi e condividono con una comunità molto varia esperienze e capacità (gli hackers). Ecco, andando oltre l’enumerazione di linguaggi artistici, le estetiche, le definizioni, le date, le citazioni. Superando quello che ho imparato su come sistematizzare un discorso accademico e dagli un quadro di riferimento. Ripensare il radicalismo delle esperienze oramai storicizzate, mi ha portata a sentirmi in totale assonanza anche con questi visionari degli anni Sessanta, piuttosto lontani da me, per genere, età, esperienze, possibilità e che ha tuttavia un modo di stare al mondo più che aggiornato, nonostante, a fine tavola rotonda, i dubbi di Toraldo, che con una boutade, ci dice che in cinquant’anni il mondo è talmente e profondamente diverso, che difficilmente chi si sta formando oggi potrebbe capire le aspettative della sua generazione.

    Io credo invece che contesti diversi generano di sicuro emergenze non del tutto simili, ma che possono essere osservate, capite ed agite con una attitudine che corrisponde invece nella sua modalità: curiosità, rischio, apertura, “avere presente la Storia” come ricorda bene Braschi, critica. Non come attitudine speculativa ma pratica immaginaria.

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