Città visibili e città invisibili

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    101 è il codice che nelle università americane identifica i corsi che trasmettono le conoscenze di base di ogni materia. Oggi, mentre cambiano la società, le arti, la mediasfera, l’ecosistema, dobbiamo rifondare su nuove basi anche la nostra idea di cultura. O meglio di culture, visto che la cultura da sempre si nutre di pluralità e differenze.

    A partire dalle riflessioni sviluppate in Cultura. Un patrimonio per la democrazia (Vita & Pensiero, 2023), cercherò di segnalare in questa rubrica esperienze, ricerche e processi innovativi, per esplorare e discutere con l’aiuto dei lettori di cheFare i nodi problematici di questa svolta culturale. Qui ,qui e qui le puntate precedenti

    Cultura 101. Ogni quindici giorni un intervento di Oliviero Ponte di Pino per cheFare

    Nelle scorse settimane nel corso di BookCiy Milano sono state presentate alcune ricerche che riguardano in diverso modo il rapporto tra i territori (soprattutto le città) e la cultura.

    Lettura e consumi culturali a Milano è stata realizzata da Pepe Research per AIE (l’Associazione Italiana Editori) e SIAE (l’indagine completa è disponibile alla pagina https://www.aie.it/Studieriscerche.aspx). Per questa sua terza edizione, la ricerca ha allargato il campo: non solo il settore dell’editoria, ma la cultura nel suo complesso. Già questo è un interessante cambio di prospettiva: la cultura non più come un mosaico di segmenti e target separati (il libro, la musica, lo spettacolo, il museo, i festival…), ma come ambiente organico con un impatto sulla società.

    I dati presentati dall’Ufficio Studi AIE dicono che a Milano, dove vive il 2,3% della popolazione italiana, si concentra il 12% della spesa nazionale in consumi culturali, con un alto indice di lettura: 83% contro il 71% della media nazionale, anche se secondo il rapporto ISTAT Noi Italia 2023 (https://www.istat.it/it/archivio/286033) gli italiani che leggono almeno un libro all’anno sono solo il 39,3% della popolazione (nel 2010 noi lettori secondo ISTAT eravamo il 46,8%). Molto alta anche la densità degli eventi culturali: nel 2022 Milano ha offerto una media di 113 eventi al giorno, contando solo quelli a pagamento, ma escludendo le 107.000 proiezioni nei cinema. A questi andrebbero aggiunti gli eventi gratuiti, come le oltre 1600 proposte di BookCity 2023.

    A leggere i dati, la ricerca sembra confermare le (discusse) ipotesi di Richard Floridia sulle città creative, ovvero quelle che mettono al centro del loro sviluppo le professioni creative e la cultura  (R. Florida, The Rise of the Creative Class: and How It’s Transforming Work, Leisure, Community and Everyday Life, 2002;  per una visione più problematica delle creative cities, vedi Valentina Montalto, Francesco Panella,Valentina Alberti, Pier Luigi Sacco, Are cultural cities always creative? An empirical analysis of culture-led development in 190 European cities, in “Habitat International”, 132, febbraio 2023). La frenetica partecipazione culturale sembra il segreto del recente sviluppo di Milano, della sua trasformazione da città industriale a capitale della moda, della pubblicità, della cultura, dell’architettura, del design (anche se le radici dell’eccellenza milanese risalgono al tempo degli Sforza e della loro corte).

    Le pratiche culturali, unite all’offerta formativa di alto livello da parte di università e centri di ricerca, promuovono l’incremento del capitale cognitivo e del capitale sociale (grazie anche all’eventizzazione della cultura, con occasioni d’incontro e di scambio). Da un lato queste rirorse consentono di competere nello scenario globale, ampliando il bagaglio di competenze e aspirazioni personali, affinando le capacità di problem solving, attirando talenti da tutto il mondo e stimolando contaminazioni creative. Dall’altro hanno un impatto positivo sulla qualità della vita, nel momento in cui si decide di non misurarla unicamente sul PIL (vedi gli indici BES e i ranking sulla “vivibilità” delle metropoli).

    In questa prospettiva, Milano sembra rispondere al modello di “città culturale” teorizzato da Lucio Argano, che mette la cultura alla base di un progetto di sviluppo trasformativo:

    La città culturale può essere la risposta alla definizione di futuro, alle sfide urbane, alle molteplici domande di città di persone e comunità, alle sollecitazioni rispetto ai diritti, inclusi quelli culturali, al tema della sostenibilità. La città culturale è un progetto che rimette la politica al centro ed è essa stessa un progetto politico. Utilizza anziché sfruttare tutte le risorse culturali ampiamente intese, a partire dalla forza del contesto, ricomprendendole in un ecosistema, interdisciplinare, intersettoriale, multilivello, assorbendo ed esplorando la complessità urbana anziché subirla passivamente o tentare di ridurla. Consente di passare dall’ossessione di creare meraviglie, attraverso eventi, slogan oppure oggetti costruiti stupefacenti, allo sforzo di ridestare lo spazio dell’incanto […]. Consente di generare un laboratorio permanente di trasformazione urbana che produce impatti di lungo periodo e pertanto lascia tracce che sedimentano e si moltiplicano in ulteriori effetti ed esternalità positive. La città culturale agisce con e sulle persone perché produce e diffonde conoscenza, responsabilità, inclusione e le rende protagoniste di scelte e cambiamento che le riguardano. (L. Argano, Guida alla progettazione della città culturale. Rinnovare le geografie, il design, l’azione, 2021, pp. 16-17)

    La ricchezza, il prestigio e la qualità dell’offerta culturale rendono le città più attrattive attrattive, non solo per gli studenti e professionisti, ma anche per i turisti. Milano totalizza il 27% della spesa nazionale per le mostre, il 15% per i concerti di musica pop, rock e leggera e il 25% per la lirica, grazie ovviamente alla Scala.

    Ma c’è un rovescio della medaglia, ed è quello a cui è dedicato il 57° annale della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, La città invisibile. Quello che non vediamo sa cambiando le metropoli, a cura di Alessandro Balducci (con un titolo che rimanda a Italo Calvino. Non vediamo i problemi legati al cambiamento climatico e alla salute pubblica. O meglio, li vediamo in caso di eventi catastrofici che finiscono nei telegiornali: i 5.426 alberi abbattuti a Milano dal nubifragio del 25 luglio 2023, le sparatorie tra le baby gang dei rapper nel quartiere San Siro, la strage degli anziani al Pio Albergo Trivulzio per il Covid. Gli studiosi intercettano (a volte) questi fenomeni nelle statistiche. Ma lo “stato delle cose” (e la reale dimensione dei problemi) non riverbera nelle politiche delle amministrazioni e nella trasformazione della nostra vita quotidiana.

    Ci sono fasce della popolazione che restano invisibili: l’annale si concentra sugli anziani (quanti sono quelli immobilizzati all’interno delle loro abitazioni?) e sui giovani, in particolare quelli con background migratorio, che sono invisibili come cittadini e dunque come titolari di diritti.

    Altri processi vengono lasciati volutamente nell’ombra. Per esempio, l’impatto delle piattaforme e dei big data, in particolare sull’abitare, con l’esplosione degli affitti brevi e dell’overtourism. Poco visibile anche l’espansione delle aree metropolitane che spinge verso la regionalizzazione, moltiplicando dunque anche “centri” e “periferie”: la “grande Milano” comprende ormai diverse Province (di cui due fuori Regione, Piacenza e Novara) e Lugano, che non si trova in territorio italiano. In quest’ottica, al centro dell’evoluzione delle grandi città (compresa Milano) c’è la speculazione immobiliare, che ormai attira grandi capitali da tutto il mondo: vedi i fondi sovrani che acquistano di fatto interi quartieri della città, o la riqualificazioni di spazi pubblici come Piazzale Loreto da “non luogo” arcaico a “non luogo” post-moderno, da piazza preclusa ai pedoni a centro commerciale (vedi https://www.comune.milano.it/-/reinventing-cities-piazzale-loreto). Sono processi di “valorizzazione” che godono del sostegno delle pubbliche amministrazioni cittadine,  dotate di risorse sempre più scarse e che dunque si accontentano delle briciole per “compensare” l’impatto di queste trasformazioni, dirottando una parte delle risorse su investimenti che dovrebbero andare a beneficio della cittadinanza.

    Le aree di “invisibilità” su cui punta il riflettori La città invisibile hanno ovviamente a che fare con la “perdita di senso” delle città che ha ispirato la riflessione di Bertram Niessen in Abitare il vortice (2022). In questo scenario la cultura può avere diversi ruoli e funzioni, più o meno consapevoli.

    Un capitale cognitivo e un capitale sociale elevati e condivisi sono indispensabile motore di sviluppo, anche in un’ottica neocapitalista. Sono la condizione di sviluppo del mercato del lavoro nel settore, a cominciare dal quello intellettuale e culturale (ma su questo vedi https://che-fare.com/almanacco/cultura/i-lavoratori-della-cultura-sfruttati-ma-felici-ma-fino-a-quando/). L’offerta culturale aumenta l’attrattività dei territori. La partecipazione culturale ha un impatto positivo sul benessere dei cittadini (magari con efficaci forme di intrattenimento e “distrazione di massa”). Tutto questo riguarda però le città “visibili”. Anzi, in questa prospettiva la cultura è uno straordinario elemento di visibilità, riconoscibilità, prestigio, soprattutto con le grandi istituzioni culturali, radicate in genere al centro delle aree metropolitane e propagandate nelle guide turistiche.

    Tuttavia in una società complessa e dinamica – e soprattutto democratica – non è questa la funzione primaria della cultura. La cultura non coincide con il mercato, e con i rapporti di forza e le disuguaglianze che produce nel corpo sociale. La cultura riguarda piuttosto le differenze, e dunque le fratture e i potenziali conflitti che si generano nella città.

    Per la sua ricaduta sociale e politica, la cultura e l’arte hanno sempre contribuito a rendere visibile l’invisibile, a consentire l’incontro con il diverso, con l’Altro. Gli esempi sono fin troppo numerosi. Nella tragedia più antica giunta fino a noi, il greco Eschilo racconta la guerra dal punto di vista del nemico sconfitto, i Persiani. François Villon e Jean Genet danno voce – e profondità umana e poetica – ai criminali, ai reietti, ai diversi. Per dare un volto a santi e madonne, Caravaggio ritrae ladri e prostitute. Via col vento e Casa di bambola sono stati a lungo tra i testi più rappresentati nel mondo perché danno voce alle istanze dei neri e delle donne. Negli anni Settanta il teatro e le altre arti hanno dato volto e voce a soggetti fino a quel momento marginali, e dunque invisibili: le donne, gli omosessuali, i lavoratori immigrati… Negli ultimi decenni l’arte pubblica e il teatro sociale e di comunità hanno attivato chi vive nelle fasce del disagio: i “matti” e i malati rinchiusi negli ospedali, i carcerati, gli immigrati e i richiedenti asilo, i giovani a rischio…
    Se la conciliazione tra i diversi interessi è confinata alla contrattazione tra associazioni di categoria e lobby, all’interno del Palazzo, chi non ha accesso alle sue stanze resta escluso. Non ha voce. Non può far valere i propri diritti. Non esiste.

    Quello che la società attuale rende invisibile è il conflitto, con un’aggravante digitale. Oggi gli algoritmi predittivi rendono possibile individuare il disagio quando ancora non è emerso e visibile, e dunque reprimerlo o addomesticarlo prima che si manifesti.

    Nel momento in cui la cultura rende visibile l’invisibile (con uno spettacolo, un libro, un film…), i nuovi soggetti che entrano nello spazio pubblico acquisiscono consapevolezza di sé e rendono la loro identità evidente all’intero corpo sociale. Pongono immediatamente un problema politico. Quando la cultura dà visibilità agli invisibili (e all’invisibile, o al rimosso), innesca consapevolezza e processi di trasformazione.

    Con qualche trappola. Da un lato i nuovi soggetti che riescono ad avere accesso al sistema rischiano di accrescere l’elenco dei portatori di interesse, a prendere la forma e gli atteggiamenti di una lobby (e, sul versante del mercato, si offrono come nuovo target). Dall’altro la patina del “culturale” rischia di costituire un diversivo rispetto ai problemi reali. La bella festa che ricrea comunità nel fine settimana in periferia (o nel piccolo borgo delizioso ma dimenticato), il quartetto di Mozart nella banlieue, il murale con il soggetto scelto in un processo partecipativo con gli abitanti, lasciano la situazione (e i problemi inalterati): sono un cosmetico, ma i pubblici amministratori (e la politica) possono affermare di aver investito risorse in un’area di disagio. Si ripuliscono la coscienza perché portano “la cultura nelle periferie”. La cultura può (e deve) innescare il processo ma non deve diventare un comodo alibi.

     

    Immagine di copertina da Unsplash, ph. Pat Whelen

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