Un anno fa, esattamente in questi giorni, eravamo seduti dietro i nostri schermi. Attendevamo nervosamente l’esito della valutazione del nostro progetto candidato al Bando Luoghi Comuni di ARTI Puglia per la gestione del laboratorio urbano “Officina San Domenico” per la gestione del laboratorio urbano “Officina San Domenico”. Nel pieno della seconda ondata della pandemia, con le nostre vite in drastico mutamento, tra chi era tornato a vivere ad Andria dopo una vita fuori, chi stava cambiando lavoro e chi cercava di reinventarsi, avevamo deciso di stringerci per quel che era possibile e provare ad immaginare un progetto che potesse essere di rinascita per la nostra Città e di crescita professionale per noi.
Un anno fa è iniziato per noi di CapitalSud un percorso denso di produzione, creazione e costante messa alla prova. Nel corso del processo di co-progettazione con ARTI e il Comune di Andria abbiamo indicato alcuni dei punti cardinali a cui aspiriamo: inclusività, collaborazione tra le parti, autonomia. Ma soprattutto abbiamo manifestato la volontà di segnare una cesura e di provare a non inseguire un passato ormai impossibile da replicare e di aprirci a mani nude uno spazio in grado di rispondere alle necessità mutate della contemporaneità.
Pensavamo che l’Officina si sarebbe aperta in un’era post Covid. Così non è, siamo ancora in una crisi pandemica senza precedenti. Molte delle cose che sognavamo di poter fare, non sono ancora possibili. Anzi, molte delle cose che siamo riusciti a fare, sono state diverse da come avremmo voluto.
In particolare, quello che riguarda la nostra vita professionale. Non raccontiamo nulla di nuovo, se non la storia di tanti giovani lavoratori del mondo della cultura e dell’innovazione sociale. Spesso ci siamo scontrati con lo scetticismo di chi è più grande di noi e ritiene che questo impegno sia un gioco a cui giocare solo per un po’. Spesso ci siamo trovati a fare i conti e a decidere di risparmiare pochi euro e dedicarci noi stessi alle pulizie dello spazio, a ritirare a mano le merci per il bar o imparare da soli a far funzionare mixer, casse e subwoofer.
In questo primo anno di attività in un contesto che ha ribaltato la norma spesso abbiamo notato che noi, e tanti altri come noi, stavamo cercando di sabotare la propria attività. E non perché, come scriveva Baricco, non ce la facciamo più a sentire l’ennesima rivisitazione di un’opera di Shakespeare, ma perché abbiamo introiettato il pericolo che veniva trasmesso nella nostra attività. Abbiamo ostinatamente cercato di non fermarci mai, presi da una bulimia organizzativa, che ad un certo punto, in un’inerzia quasi inconsapevole, noi stessi facevamo in modo che andasse bene ma non benissimo. Nonostante l’ossessivo controllo all’ingresso, abbiamo vissuto ogni attività sperando che ci fosse gente, ma non tantissima. Abbiamo investito nella produzione degli spettacoli, ma un pochino meno perché viviamo l’angoscia di dover gestire la folla.
E in una città in cui non c’è una sala da ballo, un posto in cui ascoltare un concerto, uno spazio culturale diverso da Officina San Domenico, un luogo in cui frequentare un’aula studio libera, spesso la condizione di unicità non solo della città, ma di un territorio tanto esteso da poter toccare i confini di quasi tre province ci ha posto davanti all’interrogativo: facciamo una cosa bella o una sicura? Dove la sicurezza non risiedeva nel basso rischio d’impresa, bensì nella qualità media della proposta per evitare gli assembramenti.
Ma a questo si è aggiunta una consapevolezza che, forse, in modo ancor più chiaro da Tremonti in poi stiamo scoprendo: non solo con la cultura non si mangia, ma la “cultura” è una sorta misterioso mantra di cui nemmeno chi ne parla riconosce più i confini. Conte, nell’annunciare l’ennesimo rimando alla fine del primo lockdown, aveva fatto riferimento al settore usando l’infelice frase “i nostri artisti, che tanto ci fanno divertire” e la cultura, probabilmente per ingenua metonimia, si era identificata con gli artisti.
A seguire, con le prime timide riaperture, si erano levate le proteste dei teatri, chiusi e a capienza molto ridotta. E la cultura sono diventati i teatri. Così avanti ancora per le successive proteste: i live club, i lavoratori “dietro le quinte”, gli attori, i cantanti.
E noi, che siamo un centro culturale di una città di provincia del Sud, in cui tutto manca, dalle risorse umane a quelle economiche, ci chiediamo: siamo anche noi parte del settore culturale pur non essendo attori, artisti, cantanti, danzatori, compositori, roadie, tecnici del suono o delle luci ma progettisti culturali, manager della cultura, assistenti sociali e innovatori sociali?
A pochi giorni dalla scadenza delle nuove restrizioni imposte al settore della cultura, degli eventi e dell’intrattenimento, tutto tace.
Dal nostro piccolo osservatorio periferico abbiamo notato come, la vera criticità, risieda in una concezione del settore culturale che vale sia per chi ne fruisce, sia per chi ne parla e per chi ci lavora: quando si parla di cultura, si parla solo del suo prodotto (lo spettacolo, la performance, il concerto) e la retorica che si usa è quella del marketing. Compra il mio prodotto perchè è fatto da onesti lavoratori. Compra il mio prodotto perché è realizzato da un grande intellettuale. Compra il mio prodotto perché ti fa divertire. Il prodotto non ti serve, ma tutto fa sì che tu possa desiderarlo. E se la cultura venisse raccontata come filiera?
Con una nuova stagione di bandi che si apre, ma soprattutto con i luoghi tradizionalmente deputati alla Cultura con la C maiuscola in difficoltà e con i pubblici in ritirata, si sono fatte strada professionalità intermedie come i nuovi spazi in cui una parte delle attività culturali si stanno spostando. Una filiera che riconosce l’idea e qualifica la progettualità, valuta l’effetto o valuta la qualità nel non produrre alcun effetto, ma nell’incentivare la relazione. Che in un’epoca post pandemica sarà l’output più prezioso. Perciò ci siamo chiesti, ancora: a cosa serve la cultura, se quello che facciamo noi non è teatro, non è musica, non è performance né divertimento, eppure spesso è tutte queste cose insieme?
La nostra risposta è che la cultura non serve perché non produce. La cultura che nasce nei laboratori urbani non è alta e non siamo rappresentanti in nessuna delle categorie che in questi mesi hanno protestato. Perché la cultura che ci troviamo a fare in questo deserto di opportunità ha un carattere talmente tanto sfumato da essere scambiato per sociale. Perché questo spazio ha permesso a noi e a chi ha scelto di frequentarlo di incontrarci e di imparare. E sono cose che il distanziamento sociale, e prima ancora il lungo processo di distruzione di questi spazi, ci ha fatto dimenticare. Potrà sembrare banale retorica emotiva e magari lo è per chi vive in una grande città in cui incontrare e relazionarsi e conoscere cose nuove è talmente a portata di mano da essere scontato.
Ma in una provincia, spogliata della sua posticcia poesia, le relazioni sono cristallizzate: appartieni ad un gruppo, appartieni ad una famiglia, appartieni ad una scuola. Allontanarsi da queste appartenenze è quasi impossibile, a meno che non si decida di migrare. E se non riesci, o non puoi, allontanarti, sei costretto ad operare una forma di autocensura che ti permette di sopravvivere in un gruppo, privandoti di specificità o unicità. Per questo l’incontro con qualcosa di Altro è fondamentale per lo sviluppo di sé e della comunità.
Abbiamo osservato, però, che questi due lunghi anni non hanno portato ad un dibattito serio sul settore a cui sentiamo di appartenere, piuttosto si è percorsa la strada della chiusura, da una parte, e delle recriminazioni, dall’altra. Il risultato è stato solo quello di incentivare la percezione di un settore chiuso, elitario, che vuole essere riaperto e libero per fare altre cose riservate solo all’elite che già prima della pandemia capiva e poteva permettersi di spendere i soldi di un biglietto o di una tessera. Questo dibattito, in cui non si capisce più cosa sia questo settore, ha privato lo stesso delle proprie criticità interne al fine di mantenere una minima compattezza per interloquire con la pubblica amministrazione che andrà a beneficiare solo ed esclusivamente quelli che riconosce come interlocutori: musei, teatri e pochi altri spazi situati per lo più in grandi città.
In questi mesi siamo stati sempre esposti e sempre in ascolto dei nostri fruitori. Non di rado abbiamo dovuto rispondere alle perplessità, comprensibili, di chi chiedeva perché tesserarsi a Capital Sud, perché pagare per entrare in uno spazio pubblico.
La risposta, difficile, risiede nella grande contraddizione del nostro tempo: la politica degli ultimi trent’anni ha spostato sempre più il settore pubblico della cultura verso un concetto di imprenditorialità, riducendo drasticamente le risorse pubbliche e incentivando gli operatori ad abbandonare la logica della gratuità e sposare quella della competitività economica. E non solo: la gratuità è un’esclusiva di chi ha grandi investitori. E chi ha grandi investitori in una città del Sud italia?
CapitalSud è un’associazione di promozione sociale e in quanto tale si barcamena tra i principi etici in cui crediamo e la necessità di dover pagare le bollette. Per questo, ringraziamo gli oltre mille tesserati che con entusiasmo hanno deciso di sostenerci e di credere nelle nostre capacità, aiutandoci a garantire l’apertura di questo spazio, il Comune di Andria per lo sforzo iniziale di credere nel rilancio a scopo culturale di questo luogo e ARTI Puglia per il finanziamento che ci ha permesso lo start-up del nostro progetto di gestione. Ma è anche arrivato il momento di ammettere che la possibilità di sperimentazione, la possibilità di pagare per partecipare alle attività e la possibilità di lavorare in un centro culturale si riduce tanto più ci si allontana dalle metropoli. E ancor più se ci si sposta in una periferia, in cui il tema della mobilità e dell’accessibilità è inesistente.
Officina San Domenico è situata in una grande periferia interna: nel cuore del centro storico di Andria, al centro di un dedalo inestricabile di stradine e in cima ad una scalinata.
Ad un certo punto, abbiamo preso consapevolezza che in questo dibattito sul settore culturale e sui centri culturali e le capacità di fare cose meravigliose con poco, noi ci sentiamo ai margini. Perché per fare cose meravigliose, bisogna disporre di risorse e pagare le persone. Si può fare molto con poco, ma questa condizione non deve compromettere la democraticità, l’accessibilità e la dignità dello spazio e di chi ci lavora.
Osservando la realtà ci siamo resi conto che non abbiamo nulla a che vedere non solo con la cultura di cui leggiamo sui giornali, ma che pur condividendo percorsi e aspirazioni simili e mantenendo viva la nostra attitudine alla contaminazione, non avremo mai gli stessi problemi o le stesse criticità di un centro culturale romano o milanese.
Non siamo, e difficilmente saremo mai, un centro culturale. Officina San Domenico, per le sue caratteristiche per quelle di CapitalSud sarà piuttosto una Periferia Culturale. E questo ci permette continuamente di guardare oltre, di puntare dritti al nostro futuro, pur sviluppando una chiara visione periferica che è ciò che finora ci ha permesso di continuare a organizzare, immaginare, sperimentare attività coinvolgendo realtà del sociale e del privato che apprezziamo, senza perdere di vista quelle minute ed impercettibili dinamiche che accadono qui e solo qui.
Visioni periferiche vuole essere il nostro primo ciclo di incontri sul futuro della cultura e sul ruolo dei nuovi centri culturali nella ripresa sociale e psicologica delle “nostre” comunità e in quanto tale vorremmo che ci permettesse di raccontarci anche fuori da questa periferia dell’impero proprio perché siamo così, e non perché rappresentiamo una categoria, recuperando una voce che finora è stata ad esclusivo appannaggio di pochi e ben connotati spazi.