“Artista britannica bloccata a bordo di una nave in mezzo al Pacifico a causa della bancarotta della Hanjin Shipping Co.”.
L’arte all’improvviso fa capolino in un settore che è tanto lontano dai nostri occhi quanto è presente nelle nostre vite materiali: il trasporto marittimo. Nel settembre 2016 il Wall Street Journal riportava questa notizia minore e un mondo svelava un altro mondo.
Probabilmente state leggendo questo articolo su un computer o uno smartphone: avete mai pensato alle miglia marine che hanno percorso questi oggetti per arrivare tra le vostre mani? Li avete mai collegati a un capitano che dà ordini via radio per entrare in porto, ai pirati somali o a un tramonto sull’oceano?
Molti degli oggetti che ci circondano sono arrivati fino a noi percorrendo lunghi viaggi sulle navi porta container, coinvolgendo lavoratori di ogni classe sociale, equipaggi che parlano lingue diverse e che vivono per lunghi giorni in quello “spazio dimenticato” (nota: Allan Sekula e Noel Nurch, “The Forgotten Space”, 2012) che è l’oceano.
Rebecca Moss, l’artista di cui parla il Wall Street Journal si trovava su una nave da 68mila tonnellate carica di migliaia di container in rotta verso Shanghai come artista residente di “23 days at sea” progetto della Access Gallery di Vancouver.
Il progetto prevede che i giovani artisti si imbarchino a Vancouver e percorrano la rotta fino a Shanghai per poi ritornare a casa in aereo. Durante la traversata, che dura appunto 23 giorni circa, l’artista tiene un diario di bordo e la sua creatività viene messa in gioco da nuovi fenomeni di spazio e di tempo che la portano in direzioni inaspettate.
Quando, nel dicembre 2014, fu lanciata la call per questa nuova residenza, alla Access Gallery ci si aspettava di ricevere al massimo un centinaio di richieste: ne arrivarono ottocento da ogni parte del mondo, con progetti che andavano dal più profondamente politico al più meravigliosamente poetico, mostrando subito la forza dell’idea.
Non una semplice residenza ma una potente struttura da cui osservare la complessità della condizione contemporanea artistica/economica/politica usando il cargo come “contenitore” senza fondo per l’immaginazione.
Probabilmente “23 days at sea”, per la prima volta, rendeva anche concreta la possibilità di dare corpo a fascinazioni marinaresche o a desideri di languori oceanici, di avere l’occasione di immergersi tra i rumori assordanti della sala macchine o in silenziosi sconfinati orizzonti, di realizzare quelle fantasie di viaggio o quelle necessità di isolamento che da sempre attirano molti artisti.
“Mi interessano molto i luoghi che possono diventare spazi creativi” ha affermato la curatrice e ideatrice del progetto Kimberly Phillips, le cui riflessioni sono partite dalla necessità di inaugurare una residenza economicamente sostenibile per la galleria e sono arrivate a profonde considerazioni sulla contemporaneità globalizzata di cui è bene che gli artisti siano testimoni.
Da un lato, dunque, una questione pratica: come far sì che una piccola galleria potesse offrire una residenza ad artisti emergenti provenienti da tutto il mondo senza soccombere ai prezzi immobiliari inarrivabili della città? La risposta geniale è stato l’accordo con la compagnia di navigazione Hanjin che attraverso un budget ridotto, circa 3000 dollari per il viaggio di un artista a bordo del cargo, poteva ospitare arte e creatività in alto mare.
Dall’altro, una riflessione innovativa sulla relazione tra arte e mondo globalizzato che prende come punto di partenza proprio il fatto che l’immenso settore del trasporto marittimo sia tanto inscindibile dalle nostre vite quanto invisibile ai nostri occhi.
Un settore che vede per mare una flotta di più di 50.000 navi e che impiega più di un milione di persone praticamente di ogni nazionalità. Le navi che trasportano solo container raggiungono circa le 5.200 unità e i container, questi grossi mattoncini delle costruzioni che possiamo intravedere uno sull’altro sempre e solo da lontano ma che a volte capita di vedere più da vicino caricati sui treni merci, superano la cifra di circa 20 milioni (le navi più grandi sono in grado di trasportarne fino a più di 15.000 alla volta). Il commercio di beni attraverso i container raggiunge quasi i 2 miliardi di tonnellate all’anno facendo sì che circa del 90% delle merci che vediamo nei negozi e poi compriamo ha fatto un viaggio via mare.
“La residenza offre l’opportunità di porre una serie di questioni importanti a partire dalle coordinate socio-politiche che abbiamo noi stessi in una città portuale del Pacifico come Vancouver. Il trasporto marittimo ha un fortissimo impatto su ogni aspetto della vita contemporanea ma qui, come del resto in ogni altro luogo, è praticamente invisibile. Molti porti storici – un tempo luoghi inscindibili dalla vita cittadina – oggi sono stati sostituiti da vastissimi terminal per il trasporto dei container e sono lontani dai centri urbani. Questo fenomeno ha nascosto alla vista (e all’olfatto) il chiasso delle merci trasportate via mare. Facendo entrare gli artisti nel sistema del trasporto globale delle merci, e offrendo loro l’opportunità di studiarla e reagire ad essa, ci si propone di fornire mezzi efficaci per rendere quel sistema, e i suoi spazi, visibili” afferma Kimberly Phillips.
Finora gli artisti che hanno partecipato alla residenza sono stati sette, e forse sarebbe più corretto dire le artiste perché la maggior parte sono donne: Elisa Ferrari (Italia) Nour Bishouty (Giordania), Christopher Boyne (Canada), Amara Raheemm (Sri Lanka/Australia), Lili Huston-Herterich (Canada), Michael Drebert (Canada) e Rebecca Moss (Gran Bretagna).
La prima a imbarcarsi, nel 2015 è stata proprio Elisa Ferrari, artista multimediale italiana da sempre affascinata dal mondo dei container e delle merci, che in un’intervista ha raccontato come prima di partire fosse preoccupata di non avere accesso a internet a bordo della nave per poi, una volta in viaggio, trovarla una cosa del tutto irrilevante. Rimasta colpita dalle mansioni quotidiane dei marinai e la vita scandita da orari, l’artista nel suo lavoro ha emulato le loro rigide tabelle di marcia e stretto un legame con gli ufficiali tedeschi e l’equipaggio filippino della nave Hanjin Ottawa. “I marinai sono una categoria di persone completamente sconosciuta. Ci sono migliaia di storie e idee romantiche su di loro e sul viaggiare per mare, ma nella realtà non è così romantico.”
Come racconta Rose George nel suo magnifico reportage sul commercio marittimo e sulla vita a bordo di una porta container (Ninety Percent of Everything, Picador 2014) “la vita a bordo ha bisogno di gerarchie per fornire dei confini in un spazio limitato e in un tempo infinito” e la vita e il lavoro degli ufficiali e dell’equipaggio, rigidamente divisi, sono per entrambi scandite dal momento collettivo dei pasti, non esiste internet e le sale collettive sono fornite di lettori di dvd e tavoli da ping pong.
Si può passeggiare lungo i ponti osservando il panorama di colori dei container che nessuno sa, né i marinai e né gli ufficiali cosa contengano: scarpe di lusso, biciclette, computer, vestiti o criminali in fuga? Un’altra artista, Nour Bishouty, riporta in un’intervista “Ci sono stati momenti in cui senti che l’unica cosa con cui devi davvero confrontarti è la tua stessa presenza fisica”: spazio, tempo e la presenza fisica del proprio corpo nel mezzo della presenza fisica di milioni di oggetti che si celano allo sguardo ma che forse ritroveremo nella nostra boutique in centro. Se ci arriveranno.
Ed ecco che si ritorna alla notizia del Wall Street Journal perché un anno dopo l’imbarco della prima artista, un’altra giovane donna, Rebecca Moss, si ritrova sulla stessa rotta ma si scontra con la precarietà del capitalismo globalizzato: la Hanjin Shipping Co., azienda Sud Coreana, dichiara la bancarotta e le navi non possono rientrare in porto.
L’invisibile diventa visibile e tangibile, quelle rotte dimenticate diventano persone che non possono tornare a casa, salari in pericolo, merci che non saranno consegnate, negozi con qualche prodotto in meno. L’artista rimane in mezzo al mare mentre si cerca di capire come e dove far approdare la nave, perché la compagnia non è materialmente in grado di coprire i costi di un attracco al porto né lo scarico delle merci. Dopo alcuni giorni finalmente la nave viene accettata nel porto di Tokyo e l’artista ritorna sulla terraferma.
Ironia della sorte, Rebecca Moss è una filmaker che lavora con l’assurdo e la situazione, definita da lei stessa, “straordinariamente assurda” ha ispirato ancor più il suo lavoro che, verrà presentato dopodomani 9 settembre 2017 presso la Access Gallery insieme ad altri due artisti che hanno partecipato dopo di lei alla residenza tra il 2016 e il 2017.
Così, navigando sulla superficie dell’oceano per fare emergere la propria creatività si consente all’arte di portare visibilità a sistemi in cui noi siamo coinvolti ma che non vediamo né comprendiamo completamente.
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