Quartiere Adriano: interrogare le parole

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    Quando ci è stato chiesto di pensare un progetto artistico che fosse destinato alla comunità di un quartiere di Milano, che agisse come catalizzatore e servisse non tanto per degli spazi fisici predefiniti (una strada, una piazza, un giardino) ma piuttosto per le persone che vivono quegli spazi, ci siamo comportati come ci comportiamo tutte le volte che cheFare si trova davanti a un progetto da mettere in piedi, o un’idea da trasformare in prassi. Abbiamo cercato di smontarne tutte le parole chiave ed i confini disciplinari per ricostruire una progettualità che contemplasse dubbi ed idee piuttosto che modi di fare già codificati. E che al finale ci assomigliasse.

    E poiché cheFare è un gruppo di persone ben eterogeneo per formazione ed immaginari abbiamo dovuto iniziare prima di tutto a confrontarci sulle parole. Per iniziare a capirci.

    Monumento; Arte Pubblica; Arte Relazionale; Community-based-art; Arte e Vita. Sono alcune tra le definizioni che abbiamo interrogato e che sembravano immediatamente riportare a esempi ed immagini ben chiari. Alcuni che ci sembrano assolutamente lontani dalle nostre intenzioni, alcune altre che ci piacciono molto, altre che ci sembravano una sorta di estetiche pre-formattate che non ci accontentavano. In più, il linguaggio globale della critica d’arte non è una lente che riesca a far convergere le visioni di un gruppo eterogeneo.

    E quindi ci siamo interrogati su categorie più ampie di quelle messe in causa nell’ambito delle scienze umane e sociali in genere: comunità; community; pubblico; pubblici; spazio pubblico. Abbiamo così trovato anche un orizzonte concettuale più ampio, che facesse intravedere uno spessore umano e sociale che dia solidità e profondità alle serie di fenomenologie estetiche proprie delle arti.

    E ragionando, ci siamo anche scontrati con una serie di dubbi di carattere piuttosto etico, sulla natura di ciò che vogliamo fare e su cosa non volevamo assolutamente fare. In particolare abbiamo riaffermato il nostro punto di vista sulla cultura in genere: vogliamo che sia necessaria; che abbia un riscontro esteso nella società; che non sia un bene da gestire ma piuttosto un processo da mettere in moto; che nasca dalla necessità (quella dei soggetti che la producono di realizzarla ed anche quella del suo pubblico di viverla). E non volevamo che un’operazione di produzione culturale condotta in un quartiere periferico di una grande città europea divenisse un volano per processi di speculazione edilizia.

    Mettendo in gioco queste categorie ci siamo accorti che non solo la nostra ricerca implicava un’analisi del contesto che è propria della sociologia urbana e dell’urbanistica. Ma anche che, per formazione culturale e generazionale, alcune parole chiave ci suggerivano percorsi e pratiche creative che non avevano una sola immediata localizzazione nell’ambito dell’arte contemporanea, ma anche in quelle forme di creazione che sono vicine alla svolta digitale degli anni Novanta e primi Duemila, nelle quali si parla di Condivisione; Collettivismo; Interazione; Partecipazione; Community; DIY.

    Entrando in questo territorio ci siamo accorti che molti dei nostri referenti culturali in questo ambito erano quindi innovatori, programmatori, interaction designers, makers. E anche molti di quegli artisti che hanno operato nella così detta New Media Art nella prima decade degli anni Duemila. Si tratta di artisti che usavano gli strumenti de comunicare per aprire spazi di autocostruzione di sapere, di autorappresentazione, di cocreazione, mettendo in gioco la tecnologia ed invitando gli utenti a diventare attivi produttori di immaginari, informazione e sapere, piuttosto che utenti passivi.

    Infine abbiamo ragionato sul contesto nel quale stiamo operando. Milano, una città che sta vivendo una vorticosa accelerazione economica, sociale e culturale. Che sta proponendo modelli di coabitazione e anche trasformazione urbana inediti nel nostro paese. Una città che si interroga, guarda ad esempi di politiche che arrivano dall’estero, che è attraversata da nuove energie che hanno contribuito a costruire l’immagine di una metropoli internazionale, aperta all’Europa e sensibile alle grandi trasformazioni. Abbiamo intravisto in questi processi senza dubbio necessari e positivi anche la costruzione di una rappresentazione di città che, facendo leva sui grandi progetti di rinnovamento urbano portati a compimento di recente, rischia di diventare un’immagine di skylines suggestive popolate di grattacieli che assurgono al ruolo di nuovi monumenti del marketing urbano.

    I progetti di riqualificazione che fanno parte di questo enorme processo di rifondazione urbana possono portare con se un processo di narrazione così forte da escludere gran parte delle altre narrazioni che sono spesso piccole, specifiche, marginali, che non entrano nel quadro più ampio della nuova immagine di Milano.

    Abbiamo quindi capito che il nostro operare avrebbe navigato in questo mare, pieno di scoperte e anche di rischi, e che avremmo puntato a progettare e far realizzare un’esperienza che coinvolgesse degli spettatori non specializzati dell’arte, e che l’oggetto culturale finale sarebbe stato non una esperienza estetica verticale (dall’autore allo spettatore, che sia uno spettatore di addetti al contesto dell’arte a un passante in uno spazio urbano monumentalizzato), ma piuttosto un processo biunivoco di comprensione, cocreazione, autonarazione, mediazione tra le necessità dell’individuo e le istituzioni, costruzione di spazi di socialità, informazione e comunicazione.

    Trovare un nome a questo processo è stato relativamente semplice, date tutte le premesse: Civic Media Art: media civici d’artista nel quartiere Adriano di Milano comprende tutta questa catena di ragionamenti, idee, voglie, timori, intuizioni, osservazioni.

    Volevamo un progetto che fosse inserito in un contesto preciso ed abbiamo trovato una sponda solida in “La città Intorno” che la Fondazione Cariplo sta portando avanti nel quartiere.
Volevamo infine mettere in gioco l’esperienza di un paese europeo che per anni è stato per noi singoli individui di cheFare (per motivi molto diversi) una specie di laboratorio di passaggio e di approdo, dove si è condotta una ricerca sull’arte pubblica, si è prodotta arte pubblica, si è aperta una riflessione profonda sull’argomento, sulla sua prassi e sui suoi risultati.

    Siamo così arrivati in Olanda grazie al sostegno dell’ambasciata olandese in Italia, ed abbiamo visitato architetti visionari che ridisegnano il paesaggio urbano e non, scavandone le fondamenta; interaction designers che usano materiali sperimentali per cambiare la vita di tutti i giorni; curatori che invitano gli artisti a lavorare nei parchi pubblici; case di quartiere costruite come cooperative sociali da artisti rinomati ed internazionali; studi di artisti che assomigliano a fucine medievali e producono opere folli e visionarie; media artisti che fanno enormi installazioni interattive che esplorano le città; progetti di quartiere che trasformano la vita quotidiana dei suoi abitanti attraverso micro-interventi specifici e puntuali. Ed anche curatori di grandi istituzioni mussali che cercano di rinnovare il contenitore in cui lavorano dal suo interno; architetti che spingono le istituzioni della città ad adattarsi alle esigenze degli abitanti di un quartiere usando escamotages legali; professori che ragionano su tutte queste cose con uno sguardo obiettivo, partecipante, solido culturalmente ed anche critico.

    L’Olanda vanta una lunga tradizione riguardo al rapporto tra media, arte e cittadinanza, coltivata in media lab di rilievo internazionale disseminati per il paese, in dipartimenti universitari e accademie dedicate, in una pluralità di spazi espositivi. La mappatura che abbiamo fatto ci ha portato a scegliere un artista con cui lavorare, tra tutti quelli con i quali vorremo continuare a cooperare negli anni prossimi: Kevin Van Braak, noto per i suoi progetti a cavallo tra scultura, design, riflessione sullo spazio urbano ed attivazione di pubblici eterogenei e differenti attraverso la messa in opera di situazioni, dispositivi ambientali, attività pubbliche.

    Abbiamo infine voluto che il processo di produzione finale fosse il prodotto anche di una ricerca, di un confronto con attori e partner che operano a Milano e che sono animati dalle stesse tensioni. Il lavoro che Kevin metterà a punto per Adriano verterà quindi sul suo incontro con il quartiere e con le realtà associative che lo abitano, ma anche con un percorso di riflessione che durerà tre giorni. Lì l’artista, i creativi e individui o gruppi di residenti nel quartiere ed una serie partner che operano nei settori dell’innovazione culturale a Milano ed una serie di esperti invitati da Italia e Olanda metteranno sul tavolo domande, criticità, dubbi, idee e le dissezioneranno, per arrivare a una serie di proposte pragmatiche fondate sulla messa in dubbio delle certezze e sulla costruzione collettiva di proposte. Abbiamo chiamato questa fase Camp (da mercoledì 18 ottobre a venerdì 20) ed è il primo passo dell’avventura.

    Note