Oggi è la giornata mondiale del teatro!

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Oggi è la giornata mondiale del teatro. La festeggiamo – se così vogliamo dire – a teatri chiusi. Un teatro senza teatro. Barricati in casa, nel silenzio rotto solo dal ticchettio delle nostre tastiere o dallo straparlare in tv di esperti e improvvisati. Afflitti, amareggiati, addolorati restiamo attoniti di fronte al dilagare del virus e all’insipienza di una classe politica impreparata a tutto.

    Gli attori, le attrici, tutta la gente di teatro ha preso posizione, ha cercato di dare un segno di vita, di tenere alta la passione antica di questa arte povera e umana. Anche in questi giorni bui, abbiamo avuto il calore delle parole di tanti artisti che aiutano a comprendere un tempo incomprensibile e violento, a partire dalle recenti, intense testimonianze di Milo Rau e Emma Dante.

    Ma tutto sembra fragile, inutile, faticoso, in questa protratta quarantena: tutto sembra passeggero di fronte all’assurdità dei lutti.

    Per quel che mi riguarda, ho passato le ultime settimane studiando il percorso artistico di un grande regista greco, un maestro come Theodoros Terzopoulos.

    Il regista, in una intervista di qualche anno fa, raccontava di aver scoperto alcune notizie “vitali” in un libro trovato per caso a Lipsia. Si trattava di un volume del 1600:

    «Vi ho letto – spiegava Terzopoulos all’intervistatrice – che in Attica, dove c’era l’ospedale di Asclepio, i pazienti dovevano seguire un certo rito. Al tramonto, dovevano camminare nudi in cerchio sulla sabbia umida, sulla terra bagnata, uno intorno all’altro. Dopo un’ora dovevano accelerare e alla terza ora andare ancora più velocemente. Alla quarta ora dovevano piegare le ginocchia proprio come nel Kabuki e nella quinta le spalle, e poco a poco avanzando e velocizzando questo movimento, con le estremità piegate, il dolore fisico se ne andava e il sangue a coagularsi. Chi aveva male alla testa, chi allo stomaco: il dolore svaniva. Pian piano, questa gente per otto ore, ripeteva le stesse cose e acquisivano energia. È quanto accade nel Kabuki, l’attore Kabuki può camminare con le ginocchia piegate per dieci ore e recitare allo stesso modo, senza dolore».

    Come è noto, quell’ospedale era prossimo, vicinissimo, al teatro di Epidauro. Asclepio e Dioniso si incontravano: cura e rito teatrale si intrecciavano.

    Ragionando su questi aspetti, non si può non fare i conti con l’idea di “tragedia” e dunque con quella, strettamente legata, di “catarsi”.

    Oggi come non mai, dovremmo ripensare al teatro ancora, di nuovo, in termini di catarsi. Catarsi non solo individuale e collettiva, ma fisica e morale.

    Nella celebre definizione della “Poetica” aristotelica di catarsi, risuona, come è noto, una terminologia medico-scientifica: «mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni». Dunque “sollevare” e “purificare” sono i termini che arrivano dal mondo di Esculapio, ovvero dalla medicina, dall’ospedale accanto al teatro.

    È il caso di ripensare questa presa menageriale e economica, questa dittatura dei numeri e dell’algoritmo sul teatro

    È dunque stretto il rapporto tra teatro e terapia. Lo ha segnalato bene, tra gli altri, anche lo storico Roberto Cuppone: un «prestito lessicale di più di due millenni fa da parte di Aristotele, quando per nominare (…) gli effetti del teatro (dunque la sua fisis, la sua natura, piuttosto che la sua techne, la sua arte) utilizzò la parola katharsis prelevandola non dal vocabolario filosofico condiviso sino ad allora con Platone (come per esempio già accadeva per l’altra parola mito del teatro, mimesis) ma dal vocabolario medico. Nel corso della storia a questo termine sono stati attribuiti molti significati di tipo morale, psicologico e sociale, rimuovendo quasi sempre il suo significato primario che è appunto molto diretto e concreto (oggi potremmo dire più ‘scientifico’ che filosofico): “purificazione” intesa come “guarigione” (…) Oggi l’entusiasmante, seppure discussa scoperta dei Neuroni Specchio e lo sviluppo parallelo degli studi di neuroscienze e teatro ci consentono forse di rileggere quella definizione e di restituire a quell’antica intuizione il suo senso più oggettivo (…) Questa nuova consapevolezza non restituisce forse a tutto il teatro la primitiva concretezza che gli riconobbe Aristotele? Non ne attesta scientificamente quella capacità, come diceva Artaud duemila anni dopo, di “rifare il corpo” di chi lo pratica, attori e spettatori?».

    Ecco evocato lo spettro irriverente di Antonin Artaud, il folle, il ricoverato, il visionario: il suo teatro della peste, la sua “crudeltà”, non erano altro che una profonda, apocalittica idea di teatro a venire. Scrive Antonio Attisani che occorre pensare a una teatralità «intesa non come illustrazione delle idee che si vogliono trasfondere nel pubblico, bensì come ricerca, lavoro su se stessi all’insegna della “Crudeltà” e della sincerità, e soprattutto incontro non superficiale tra individui».

    Qui si gioca la questione del teatro in tempo di Coronavirus: tornare ad Artaud non per banali evocazioni “pestilenziali”, ma per dire basta a tanto teatro fatto di pur pregevoli “illustrazioni” e finalmente ritrovare sincerità, incontro tra individui, tra comunità.

    Agli inizi del secolo, Antonio Gramsci, con l’approccio ideologico, partigiano e militante, che sempre lo ha contraddistinto, scriveva di teatro. Faceva il critico a Torino, e combatteva la sua battaglia culturale. Tra i tanti articoli, ebbe modo di affermare: «è un preconcetto che il teatro sia uno dei tanti luoghi di divertimento più o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza non deve ritenersi un danno».

    Oggi come allora è un danno la mancanza di teatro.

    Per questo, superato il necessario blocco dovuto all’emergenza sanitaria, occorrerà attrezzarsi al meglio affinché i teatri ritrovino il loro ruolo, la propria presenza “catartica”, sociale e individuale, all’interno della società.

    Un teatro accessibile, condivisibile, diffuso, politico, di qualità, dove gli individui si possano incontrare

    Come ammoniva Gramsci, non pensiamo che i teatri siano un elemento marginale della collettività. Certo, le industrie, la sanità – ah quanto abbiamo difeso la sanità pubblica, rispetto ai fanatici delle privatizzazioni – la scuola, l’università: se c’è una cosa che questa situazione ha aspramente ricordato a tutti noi è il valore dei “beni pubblici”. Ma tra queste dobbiamo, tutti noi teatranti, rivendicare con forza la presenza del teatro. Per me è chiaro: il teatro è un fatto pubblico, rilevante, nel contesto sociale, e come tale va sostenuto. Un tempo si diceva: “Paga Pantalone”. Ecco sì, paga Pantalone ed è giusto e necessario che sia così.

    Un teatro accessibile, condivisibile, diffuso, politico, di qualità, dove gli individui si possano incontrare. Servono finanziamenti adeguati e servono persone qualificate. Servono impegno e lotta, dedizione e determinazione per riaprire i teatri e per rifondare questa società. Questa lunga, dolorosa, pausa ci fa pensare non solo al presente – è nostro dovere essere nel presente, profondamente calati nel presente, checché ne possano pensare alcuni – ma anche di ipotizzare uno straccio di futuro.

    “Azzerare tutto” diceva Leo De Berardinis. Ogni tanto bisogna azzerare tutto e ricominciare da capo: senza le rendite di posizione, senza le abitudini incancrenite, senza le certezze e le gratificazioni. Ricominciare da zero per trovare altre strade, diverse modalità, nuovi obiettivi. Così dovrebbe fare tutto il teatro italiano.

    Nel chiuso della mia stanzetta non ho notizie, ma sono certo che i nostri dinamici direttori dei Teatri Nazionali, le associazioni di categoria a partire dall’Agis, da Federvivo, da Platea, da Cresco, dal Sindacato, e certamente il Ministro Dario Franceschini, e gli uffici del Ministero, stiano pensando seriamente, stiano elaborando un modello finalmente diverso di teatro pubblico, che tenga conto non solo delle Istituzioni storiche e consolidate, ma anche di quella marea di artisti costretti a lavorare con contratti capestro, con formule spartane di Partite Iva, rimettendoci anche di tasca propria pur di andare in scena.

    E forse è il caso di ripensare un po’ questa vocazione aziendale, questa presa menageriale e economica, questa dittatura dei numeri e dell’algoritmo sul teatro. Sono sicuro che il teatro italiano e europeo possa uscire più forte da questa impossibile situazione. Paradossalmente, possiamo seguire le parole sferzanti di Slavoj Zizek, pubblicate su Internazionale, che invoca solidarietà e collaborazione globale. E in questa nuova società il teatro può ritrovare davvero la sua antica forza, la catarsi. Ecco perché festeggiare il teatro: per ridare forza alla società. Troppo ingenuo? Troppo buono? Ma è l’utopia, l’unica forza che ci resta.


    Immagine di copertina: Il teatro Garibaldi di Palermo, allestito per lo spettacolo Insanamente Riccardo III, regia di Roberta Torre (2013)

    Note