L’arte sociale di Kevin Van Braak all’Adriano

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    Per trovare uno dei tanti momenti in cui l’arte, le performance e la volontà di avere un impatto sociale pratico sono state un tutt’uno, si può fare un salto ad Amsterdam nel 1965. Biciclette dipinte interamente di bianco iniziano a fare la loro comparsa negli angoli della città, senza lucchetto e a disposizione di tutti, accompagnate da un pamphlet che spiegava: “Il bianco simboleggia la pulizia e l’igiene, in opposizione alla sfarzosità e alla sporcizia dell’automobile autoritaria”. L’iniziativa del collettivo anarchico noto come Provos non ottenne la risposta sperata da parte del comune, e gli appelli affinché si sfruttasse questa intuizione per cambiare una mobilità che stava rapidamente virando verso l’automobile caddero nel vuoto.

    Avanti veloce di 50 anni e la situazione è drasticamente cambiata: quella che era stata un’iniziativa controculturale è diventata la norma in gran parte delle metropoli europee. Di fatto, i Provos hanno inventato il bike sharing, dando mostra di come una provocazione quasi artistica possa avere, sul lungo termine, un forte impatto sulla società. Non solo: quelli che negli anni ‘60 erano gesti di rottura, in opposizione alle istituzioni, oggi diventano spesso processi in cui istituzioni, media, artisti e cittadinanza collaborano per la creazione di progetti culturali in grado di influenzare la vita all’interno di comunità specifiche.

    È anche merito delle esperienze olandesi dei decenni passati se per il progetto Civic Media Art del programma Lacittàintorno di Fondazione Cariplo – un processo a lungo termine di produzione artistica e culturale che coinvolge il Quartiere Adriano, periferia di Milano  – è stato chiamato a collaborare Kevin Van Braak, che Lucrezia Cippitelli, docente di Estetica e curatrice del progetto, definisce come un artista “noto per i suoi progetti a cavallo tra scultura, design, riflessione sullo spazio urbano ed attivazione di pubblici eterogenei”.

    Per trovare il filo rosso che unisce l’esperienza dei Provos con la riflessione contemporanea sugli spazi urbani di Kevin Van Braak, basta guardare a una delle sue opere più emblematiche: Caravan, il “parco istantaneo” creato nel 2004 che permette di ritagliarsi uno spazio verde in qualsiasi angolo di città, semplicemente aprendo e letteralmente dispiegando la roulotte appositamente modificata. Una provocazione, ovviamente; che però è già stata emulata (più o meno consciamente) dal progetto Park(ing), che col tempo ha preso anche la forma di un festival annuale che pone al centro la riappropriazione degli spazi urbani da parte del pubblico.

    Insomma, non bisogna avere fretta nel derubricare iniziative di questo tipo come sterili provocazioni; perché le conseguenze sul lungo termine sono difficili da prevedere (come il caso Provos insegna) e perché nel caso di Van Braak siamo alle prese con un artista il cui lavoro, recentemente, si è sempre più focalizzato sulla comprensione di un luogo e l’instaurazione di un rapporto di fiducia con gli abitanti, collaborando con loro per la creazione di un’opera d’arte che può prendere le forme più diverse.

    ”È un’arte spesso politica, che diventa relazionale”, spiega Van Braak in occasione del camp organizzato da cheFare per la preparazione del programma Civic Media Art. “Per i miei lavori ho sempre collaborato con artigiani del posto e, soprattutto in Indonesia, ho lavorato moltissimo con persone che si occupavano anche di tematiche sociali. È un lavoro che richiede tempi molto lunghi: intere settimane, ma più spesso mesi e in alcuni casi anche anni”.

    È il caso, per esempio, del lavoro che l’artista olandese ha compiuto nel sud-est asiatico, dove ha seguito le tracce del nonno – prigioniero di guerra dei giapponesi durante il secondo conflitto mondiale – sopravvissuto alle terrificanti condizioni a cui erano sottoposti i soldati australiani, inglesi, olandesi e non solo, trasformati in veri e propri schiavi per lavorare alla cosiddetta Ferrovia della Morte che doveva attraversare la Birmania e la Thailandia (vicenda raccontata nel film del 1957 “Il ponte sul fiume Kwai” e più recentemente nel durissimo romanzo di Richard Flanagan “La strada stretta verso il profondo Nord”).

    “Per completare questa ricerca ho lavorato per oltre tre anni”, prosegue Van Braak. “Anche se le idee per le opere in sé potevano anche venire all’improvviso, da un giorno all’altro”. Il risultato di questo modo di fare arte sono opere come Railway Beam (un pezzo rilavorato di quella ferrovia recuperato da Van Braak), Batik – i cui dipinti rappresentano i luoghi visitati durante questo lungo viaggio sulle tracce del nonno – o anche Too Many Shadow, installazione creata a Bali con la collaborazione di numerosi artigiani del posto.

    Un modus operandi che l’artista olandese porterà anche nel Quartiere Adriano, vivendo a stretto contatto per circa tre settimane con gli abitanti del quartiere, relazionandosi con la loro vita quotidiana per creare un progetto site specific, in cui il concetto di arte pubblica abbatta i confini tra arte e spettatore e in cui, soprattutto, ci sia una stretta relazione con la vita quotidiana degli abitanti della zona.

    “In verità, parlare di arte pubblica non mi piace molto, fa troppo XX secolo”, mi spiega Lucrezia Cippitelli. “Noi vogliamo fare cose all’aperto assieme alla gente. Non sappiamo ancora quali forme prenderanno, ma non dovrà per forza essere qualcosa di fisico o di permanente. Potrebbe anche essere solo un’idea, un processo, che da un piccolo gruppo di persone si espande in tutto il quartiere”.

    E un processo iniziato con queste intenzioni può prendere anche pieghe inaspettate. Basti guardare lo sviluppo avuto, sempre in Olanda, dal lavoro della Freehouse Foundation: il cui obiettivo iniziale – utilizzare l’arte per rafforzare dall’interno un quartiere multietnico della zona sud di Rotterdam – si è col tempo trasformato in una vera e propria cooperativa, la Afrikaanderwijk Coöperatief, che ha dato nuova vita al mercato locale (rinominato Tomorrow Market) e ha realizzato da zero una cucina, una sartoria e altre imprese cooperative gestite dagli abitanti del quartiere, contribuendo a far girare l’economia locale di una zona non facile. Popolata da 9.400 persone, l’85% degli abitanti del quartiere ha origini nell’Africa occidentale, nel sudest asiatico e nei paesi arabi; con un 35% di giovanissimi sotto i 23 anni e un 37% di famiglie sotto la soglia di povertà.

    “La nostra attività, col tempo, si è trasformata da fondazione artistica a cooperativa, diventando un motore culturale e sociale che non perde mai di vista l’aspetto economico”, spiega Annet van Otterloo, una delle fondatrici, presente a Milano durante il camp cheFare. “Molte delle persone che lavoravano con noi si occupavano già di cucina o di sartoria; noi li abbiamo aiutati a riunirsi in cooperative che, oggi, dopo aver goduto inizialmente di fondi pubblici, si sono trasformati in veri e propri business che non solo danno lavoro al quartiere, ma permettono di condividere e trasmettere conoscenze e abilità”.

    Un esempio di successo viene dalla sartoria che, recentemente, ha creato un abito per Jean Paul Gautier. “La cosa che mi preme sottolineare è che Gautier non sapeva assolutamente chi fossimo. L’abito è stato scelto solo ed esclusivamente per la sua qualità; un’esperienza che ci ha permesso anche di portare a Parigi persone che non erano mai uscite da Rotterdam”.

    Esperienze che, tra l’altro, incidono fortemente sulla stima e sull’opinione che un intero quartiere ha di se stesso: “L’80% delle persone che lavorano nella cooperativa non aveva mai avuto un vero e proprio impiego”, prosegue Annet. “E questo è un aspetto che incide fortemente sulla propria autostima e che il più delle volte permette anche di superare i problemi di convivenza, per esempio tra uomini e donne che lavorano assieme, che in un contesto come questo inevitabilmente si vengono a creare”.

    Ma per ottenere un risultato di questo tipo, ci sono due elementi essenziali da coltivare: il tempo e la fiducia. “Non è stato certo un processo veloce: ci abbiamo messo 8/9 anni; un grosso investimento di tempo speso a parlare con gli abitanti del quartiere, per farci conoscere e conoscere loro”, spiega Annet. “Non siamo mai stati visti come i gentrificatori; magari all’inizio – quando abbiamo iniziato a organizzare performance artistiche nel mercato, anche facendo opera di disobbedienza civile – venivamo visti come degli alieni; ma quando poi si comincia a lavorare assieme tutto questo passa decisamente in secondo piano”.

    Da Kevin van Braak alla cooperativa del South Bank di Rotterdam. Due modi di approcciarsi alla società completamente diversi: il primo mosso dall’interesse nei luoghi e nella loro storia; la seconda più concentrata sulla creazione di opportunità socio-economiche all’interno del quartiere. Ma entrambi legati dalla necessità di lavorare con la comunità e per la comunità, nonostante gli obiettivi differenti.

    E poi, ovviamente, c’è l’aspetto artistico e autoriale, evidente nei lavori di van Braak, ma presente anche nell’esperienza della Afrikaanderwijk Coöperatief, come ci tiene a sottolineare Annet: “La questione autoriale, nei nostri progetti, è più difficile da vedere, ma sullo sfondo è sempre presente. Anche perché i nostri lavori nascono comunque dall’arte, ed è proprio questo a renderci diversi da altri progetti simili”.

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