Autobiografia di un viandante. Vedere infinito

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    C’è un momento clou in ogni esistenza.

    C’è un momento clou in cui la mente inizia a percepire l’infinito come l’unica grandezza possibile, come forza che aggredisce da tutte le direzioni. Pensiero non più innato e nascosto nell’organo stesso della vista, ma fuoriuscito (per rientrarvi dopo aver atterrito?) e manifesto.

    Separato dalle cose da un impercettibile intervallo di risonanza, lo spazio minimo in cui è possibile scorgere, e indagare la relazione tra figura (noi stessi) e il mondo.

    Proprio lì, in quell’intervallo, germoglia nient’altro che l’ossessione di assoluto che macerava Leopardi: la folgore squarcia l’oscurità dell’impercepito e si fa minaccia, quindi occasione, dunque desiderio, di conseguenza maschera e fuga, prima di volgere in moneta bifronte su cui campeggiano distruzione e prosperità, per transustanziarsi in volo libero e infine in prigione indefinita, scarnificando l’immaginario e infradiciando ogni pensiero precedente come la terra dopo l’inondazione.

    Con l’infinito confuso e mimetizzato in noi stessi, il nostro tutto placido ben chiaro e rassicurante, qualunque esso sia, diventa di colpo il tutto + infinito, dando vita a una poliformia di espressioni che è al contempo una, nessuna e centomila.

    Eppure non basta questa scoperta del creato e noi in dialettica misteriosa – questa sinestesia perenne – a motivare l’atto della scrittura seria: perché la scoperta del vuoto atterrisce e affascina, ma non porta necessariamente all’azione coraggiosa e disperata di affrontarlo. Porta soprattutto all’inedia e all’atrofia, o al ripiego nelle cose sicure. Ci vuole dunque qualcosa in più per agire: l’Io poderoso, forse smisurato, o nel peggiore dei casi vanaglorioso.

    Per me il primo momento clou è arrivato in adolescenza, in nave, con l’oscurità divampante intorno e il senso fiero di aver superato il tetro e falso pericolo di correre sui lunghi ponti laterali battuti dalle folate di vento, un nero pulviscolare come brina ma non così denso da impedire la rifrazione intermittente delle luci a terra, lontanissime, lucciole silenziose, sovrastate d’un tratto da tutto il peso del cosmo. Alle mie spalle, la parete di lamiera umida e gocciolante della torre di prua scombussolava il senso delle proporzioni. Il moto a luogo dello scafo si corroborava anch’esso del vento frontale, invisibile eppure caotico nei mulinelli, e le onde, quindici o venti metri sotto di me, sembravano merletti caduti senza costrutto qua e là, da una scatola fragile, ai piedi di un orizzonte tenebroso ma nitido, finalmente concepito come un approdo terreno molto più di una qualsiasi banchina d’ancoraggio al Pireo.

    Condizione necessaria ma non sufficiente, quel disorientamento estatico prodotto dal moto elastico di abbandono/spaziamento nel cosmo e nei suoi suoni, ha generato in me scrittura soltanto molti anni dopo, in un momento crepuscolare della percezione collettiva dell’autorialità, entro il quale però, (seppure per una piccolissima comunità attiva, o negli interessi personali di un numero ancora rilevante di lettori non silenti) esisteva autentico interesse per il piano contenutistico – formale di un opera letteraria. Era prima che il meccanismo editoriale mainstream cedesse pressoché in blocco alla fiducia cieca nel nutrimento da bassi intestini, spesso fatti passare per raffinatezze. Soprattutto, sembrava concepibile ritrovarsi, solo 10 anni fa, in un’idea di continuum della letteratura, entro cui, lettori, analisti ed autori cercavano ancora un territorio condiviso o campo di battaglia, affinché si esercitasse insieme una specie di “senso storico”; ovvero, per dirla alla T.S. Eliot, “la sensazione che l’intera letteratura europea a partire da Omero (e in essa tutta la letteratura del proprio paese) abbia una esistenza simultanea e componga un ordine simultaneo. Questo senso storico – che è senso dell’a-temporale come del temporale, e dell’a-temporale e del temporale insieme – è ciò che rende uno scrittore ‘tradizionale’. Ed è allo stesso tempo ciò che rende uno scrittore più acutamente consapevole della sua posizione nel tempo, della sua propria contemporaneità”.

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    Il contemporaneo dunque, ancora una volta. Essere contemporanei. L’obiettivo a cui tendere, l’energia con la quale entrare in osmosi.

    Spiegare cosa significa essere contemporanei è riuscito meglio che a chiunque altro, a Giorgio Agamben:

    “Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. Questa non-coincidenza, questa discronia non significa, naturalmente, che contemporaneo sia colui che vive in un altro tempo, un nostalgico che si senta a casa più nell’Atene di Pericle o nella Parigi di Robespierre e del marchese di Sade che nella città e nel tempo in cui gli è stato dato di vivere. Un uomo intelligente può odiare il suo tempo, ma sa in ogni caso di appartenergli irrevocabilmente, sa di non poter sfuggire al suo tempo. La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa”.

    Dal punto di vista dell’autore tuttavia, conoscere la formula dell’essere contemporanei non basta.

    Non è sufficiente. Bisogna percepirla. Bisogna conquistarsela. Bisogna saperla applicare. E non è facile per più motivi. Di ordine soggettivo, ambientale, e stilistico.

    Ai tempi delle prime pubblicazioni, la sensazione più strisciante che ho provato durante il lavoro di scrittura, e più in generale per il lavoro culturale, era una felicità piena ed espansiva, che si indossava come una gorgiera settecentesca e irradiava frattali, singole unità di stile che come batteri o cellule sembravano poter inglobare il reale e restituirlo sottoforma di scrittura, lasciando una scia, una tensione di felicità che era tale perché proiettata al futuro, come accade sempre.

    Era una felicità privata, legata alla sensazione gloriosa di poter far parte del continuum evocato da Eliot, o comunque di sfidarlo, gioia demiurgica di godere dell’idea di determinare, e ingannare, e manipolare la realtà attraverso la lingua, immettendo in essa l’energia muta della visione perché ne scaturisse un effetto, qualunque effetto, o meglio ancora, un effetto domino di eventi caotici.

    Così, appariva congrua e comprensibile l’idea di Tolstoj e Proust secondo cui la letteratura altro non è che una configurazione, una ricerca, o al limite, un capovolgimento di felicità.

    L’incedere nella creazione dell’opera, la resistenza alla pagina, coincideva allora con il “sentimento dell’esistenza spogliato da qualsiasi altra affezione”, proprio come per Rousseau era starsene a poltrire sulle rive del lago di Bienne.

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    Si trattava della tipica felicità dell’infanzia. Di un’infanzia autoriale che non poteva che esaurire il suo momento poetico consacrato al positivo, nel quale la tenebra del mondo era soprattutto un obiettivo da bombardare e sconfiggere. Ma essere contemporanei, dicevamo, richiede il continuo rigenerarsi nell’intervallo di risonanza. Solo così si può vedere il proprio tempo. Sapendo che è l’unico possibile anche se non lo si trova appagante, cogliendone l’oscurità laddove lo sguardo sarebbe naturalmente portato a ipnotizzarsi dinanzi ai luccichii, senza inginocchiarsi a esso e senza disconoscerlo.

    Questa attitudine, questa volontà, alla prove del quotidiano risulta altamente distruttiva. È un allenamento costante, un orizzonte nervoso a cui tendere, un stadio di consapevolezza che comporta l’atto per nulla semplice di lasciar passare nel sé qualcosa di esterno, e non come stimolo da rielaborare all’interno di una retorica, ma puntando a ben altro.

    Ma a quale obiettivo?

    Cos’è, e cosa dovrebbe essere la scrittura per lo scrittore che cerca la continua distruzione/rigenerazione del sé e del mondo nell’opera d’arte, lo dice straordinariamente Andrea Gentile, nel suo saggio “La scrittura e la morte. Letteratura come giudizio universale” pubblicato su Nuovi Argomenti: Scrivere, spiega Gentile indagando Agamben, Pascoli, Leopardi, Wittgenstein, Heidegger, Zanzotto De Lillo e altri ancora, è molte cose. È meravigliarsi dell’esistenza del mondo: e così si scrive per diverse ragioni.

    Scrivere per saltare nel vuoto. Scrivere per provare la possibilità di Dio, scrivere per avvicinarsi alla morte. E ancora, scrivere per ricercare l’oscurità da eccesso che ci offre la realtà man mano che si prova a indagarla e si scopre sempre più enorme e ambigua, scrivere per essere esperienza e non limitarsi a farla o a fingere di possederla, scrivere per combattere anche il contemporaneo, scrivere per essere metafisici, perché l’artista, questo è evidente, non può che essere metafisico.

    Scrivere per perpetuare, come diceva ancora T.S. Eliot, “una continua desistenza del sé, del suo essere in questo momento, verso qualcosa che ha più valore. L’evoluzione di un artista è un continuo auto-sacrificio, una continua estinzione della personalità. Ci resta allora da definire questo processo di depersonalizzazione e il suo rapporto con la percezione di tradizione. È in questa depersonalizzazione, si può dire, che l’arte si avvicina a una condizione di scienza”.

    Interpretare la scrittura in tutte queste chiavi, significa essere compiutamente contemporanei.

    Ma così come il contemporaneo deve lottare per non confondersi con l’attualità, allo stesso modo, chi vuole o deve o ambisce o è imprigionato dalla condizione di contemporaneo, si trova a dover dialogare con l’industria culturale, che per sue ragioni specifiche e ben note si muove nella direzione opposta: ovvero, per forza di cose, ha come necessità intrinseca la rimozione di quell’intervallo di risonanza in cui si crea lo spazio di osservazione e di ricreazione. Il consumo culturale non necessita di quello sguardo. Di quell’energia che porta a scorgere la tenebra nel cortocircuito tra il sé e il mondo. Necessita semmai di simulacri.

    Dice Canetti in La provincia dell’uomo. “Un’idea penosa: che la storia, a partire da un dato momento, non sia più stata reale. Senza accorgersene, l’umanità tutta intera avrebbe d’improvviso abbandonato la realtà; tutto ciò che accadde da quel momento in poi non sarebbe affatto reale; noi però non potremmo accorgercene”.

    Sono gli effetti della tecnologia. Ogni cambiamento tecnologico, intensifica qualche aspetto di una cultura e ne rende obsoleto qualche altro. Con l’arrivo dell’elettronica e della realtà virtuale, diviene obsoleto il principio di realtà risultante da millenni di cultura condivisa (e con esso tutti i suoi strumenti analitici o retorici) e si intensifica la velocità dello scambio d’informazioni, che giocoforza deve districarsi più rapido, e deve funzionare sulla base di unità minime di senso, come storytelling, frame, memi e algoritmi.

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    La realtà virtuale, diviene così, prodromica della realtà integrale, lo status attuale, entro cui si assiste alla perpetrazione collettiva sul mondo di un processo operazionale senza limiti, in cui si vuole tutto trasparente, visibile, chiaro nei suoi rapporti causa-effetto (Italo Svevo: “La ricerca delle cause è un immenso equivoco, una superstizione tenace che impedisce alle cose, agli eventi, di prodursi come sono”), con il risultato visibilmente meccanico, e integralmente simulato, di una ri-produzione del mondo, un artefatto tecnico del mondo in cui sparisce ogni illusione, ogni seduzione, ogni apparenza, ogni dubbio, ogni difficoltà. E se fino a qualche tempo fa, era il principio di rappresentazione a dare un senso alla realtà in quanto era possibile misurarsi in un immaginario condiviso, nel tempo attuale l’unico immaginario ancora condiviso ma liquido, fugace e stolido, acustico e distratto, alienato e legato anch’esso più di ogni altro al principio della simulazione semplicistica del mondo, è quello pubblicitario.

    Passaggio chiave, questo, che investe anche la produzione letteraria. Tutte le opere, e sono la maggioranza, che riproducono senza alcun intervallo di risonanza questa stolida positività del mondo, tutte le opere che consapevolmente o no riproducono le forme stereotipate del mondo, o rispecchiano il mondo e la realtà replicando le forme di riproduzione tecnologica dei media, tutte le opere derivative dai media linguisticamente e strutturalmente, tutte le opere in cui la presenza soggettiva dell’io non è una tensione di distruzione e rigenerazione del sé e del mondo in dialettica tra loro ma una riproduzione del sé come soggetto mondo e come appiglio di verità esperienziale (sineddoche parossistica della falsificazione, nemmeno più la parte per il tutto, ma la micro-particella del proprio campo visivo) non sono artisticamente rilevanti. Non sono nel continuum. Sono solo esercizi retorici, di maggiore o minor qualità, ma partecipano solo al grande simulacro operazionale senza coglierlo. Esprimersi sul mondo rimuovendo il prismatico centuplicante, la proliferazione, l’anamorfosi perenne, la simulazione dell’algoritmo, la metamorfosi dell’uomo da uomo a uomo macchina delle proprie macchine, a macchinazione delle proprie macchinazioni, a meccanismo dei propri meccanismi, equivale a nient’altro che al discettare dell’invenzione della ruota mentre già si può volare nello spazio.

    E poiché la tecnologia, così come l’espressione e la comunicazione sono fatti espressamente linguistici, la differenza, la possibilità tutto sommato oggettiva di svelare e riconoscere un’opera davvero contemporanea, è basata essenzialmente sulla lingua, che non mente mai e non può che essere, in modi potenzialmente infiniti, nient’altro che poetica. Non comunicativa, non televisiva, non codificata, non ratificata. Poetica. Non può, cioè, puntare ad altro se non al processo di disgregazione e rigenerazione del senso, al sovraccarico di significati, alla smembratura dei processi operazionali che ingabbiano la realtà, a re-immergere nei retromondi, a squadernare le copie, i doppi identici, a dilaniare le semplificazioni, ad annientare a pieno il processo di sostituzione tecnica del mondo in atto, a destrutturare e ristrutturare le proprie abreazioni, a destituire il proprio sé, a essiccare il tempo reale restituendo il tempo come temporalità, a dileguare i trompe l’oeil e a ridipingerli in infinite dimensioni, a evocare l’illusione radicale del mondo che, così com’è, nudo e crudo, svuotato dagli investimenti retorici di senso, è senza spiegazione causale e senza rappresentazione possibile. (Il patto di lucidità o l’intelligenza del Male, Jean Baudrillard, 2006, Milano, Raffaello Cortina)

    Impresa smisurata? Senza dubbio. Mortifera e al tempo stesso salvifica.

    E intanto, qualcosa è cambiato.
    Il lavoro sul linguaggio è divenuto appieno, nella fase matura del lavoro culturale, il momento clou della mia seconda esistenza, quella dell’autore che diventa autoimmune al contesto e se ne distanzia, perseguendo solo lo scopo rigoroso e assoluto dello scrivere, la ragione ultima dell’atto creativo, che è ripensare il mondo attraverso la lingua, in ordalia con il continuo fallimento.
    Non più piacere demiurgico di convogliare un senso, o di svolgere una trama. Piuttosto, predisposizione metafisica a morire, e a rivivere, a distruggere se stessi e il mondo nell’illusione futura dell’opera, attitudine fiera a non vedere che infinito in tutte le direzioni, ambizione di dare un nome a tutto ciò che gioca a nascondere non la verità, ma l’assenza di verità. Senza lasciarsi sopraffare da altre speranze, o da altre più evanescenti vanità.


    Immagini da opere di Lino Mannocci – Courtesy Galleria Ceribelli

     

    Note