Dall’India a Parigi, Francesca Corona inaugura il nuovo cinquantennio del Festival d’Automne

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    Francesca Corona è la nuova direttrice di uno dei più importanti festival teatrali d’Europa, il Festival d’Automne di Parigi. L’annuncio di questa designazione, avvenuto lo scorso luglio, ha destato un certo scalpore perché si tratta del primo avvicendamento alla direzione della storica manifestazione francese dopo circa quarant’anni. E perché la scelta è ricaduta su una nostra connazionale. 

    In realtà la carriera di curatrice artistica di Francesca Corona si intreccia da lungo tempo con la Francia, dove ha diretto Dansem, il festival di danza di Marsiglia, e in qualità di collaboratrice di teatri e manifestazioni artistiche dove il suo sguardo è stato prezioso per rinnovare l’interesse del pubblico francese verso il nostro teatro. Artisti come Lucia Calamaro, Mk, Deflorian/Tagliarini, oggi apprezzatissimi oltralpe, hanno beneficiato di questo lavoro di “traduzione”, nel senso etimologico del termine.

    C’è un altro aspetto, casuale ma significativo, che ha colpito molto chi segue il teatro e la danza nel nostro paese, e cioè che questa nomina così prestigiosa sia arrivata al culmine di una campagna stampa contro il Teatro di Roma, dove Corona ricopre il ruolo di consulente artistica per il Teatro India (lo ricoprirà fino alla fine del 2021, per poi lasciare), affiancando Giorgio Barberio Corsetti.

    Una premessa al ragionamento che segue: per tutto il 2020 ho collaborato continuativamente con il Teatro di Roma, cosa che rende il mio sguardo da un lato più interno di altri e dall’altro sicuramente non equidistante. Tralascerò quindi il merito delle critiche a un Teatro Nazionale che ha attraversato, senza dubbio, momenti di crisi gestionale dovuti all’assenza prolungata di un direttore generale. Posso però soffermarmi, con tutta serenità, su questioni che vanno oltre il teatro capitolino e che investono l’immaginario italiano non solo teatrale.

    Ciò che ha colpito di questa nomina è la distanza che si è venuta a disegnare tra l’immaginario europeo e quello italiano, soprattutto quando questo si condensa nella scelta dei ruoli apicali. Da un lato un paese dove la stragrande maggioranza dei direttori artistici sono uomini ultra sessantenni (tra le critiche mosse a Corona, donna e quarantenne, c’era l’inesperienza e il fatto di non appartenere a un coté di artisti blasonati, ancora una volta tutti uomini); dall’altro la libertà di pensiero di un altro paese, che non ha alcuna difficoltà ad affidarsi a generazioni più giovani e non pone questioni di territorialità per le sue istituzioni culturali (ricordate le polemiche per le nomine di cittadini europei non italiani alla direzioni di alcuni musei del Belpaese?).

    Ciò che ha colpito di questa nomina è la distanza che si è venuta a disegnare tra l’immaginario europeo e quello italiano

    Alla luce di tutto questo abbiamo chiesto a Francesca Corona di fare un bilancio delle sue esperienze italiane che si avviano alla conclusione (oltre al teatro nazionale, la condirezione del festival romano Short Theatre, con Fabrizio Arcuri, che passa da questa edizione a Piersandra Di Matteo) e un ragionamento sulle sfide future che la vedranno a Parigi per i prossimi anni.

    Come hai accolto questa notizia del tuo incarico al Festival d’Automne?

    È stata un’enorme sorpresa. È arrivata per altro in un momento denso e complesso della mia vita professionale. Due mesi prima della nomina sono stata contattata dal direttore generale del Festival d’Automne, che stava intraprendendo insieme al Cda un processo di selezione per il cambio di direzione artistica del festival, contattando una rosa ristretta di curatori e curatrici in Europa. Con questa selezione di persone hanno fatto degli incontri, attivando un percorso di confronto che ha poi portato alla scelta del Cda. Ero quindi preparata all’idea, perché ci sono state varie tappe di avvicinamento, che mi hanno fatto prendere contatto con quello che rappresenta per me un cambio radicale dal punto di vista professionale, ma anche esistenziale e personale.

    Nell’eccezionalità di questa nomina, tuttavia, c’è anche una certa familiarità: è una nomina straordinaria perché si tratta di un festival incredibile, ma dall’altro è un festival che conosco molto bene, che ho frequentato tanto come spettatrice ma anche come curatrice, collaborando con Marie Collin [la direttrice uscente, n.d.r.] per la presentazione di alcuni artisti italiani. L’eccezionalità è data anche dal fatto che si tratta praticamente del primo cambio di direzione artistica dalla fondazione del festival. Sono quindi anche molto curiosa di capire cosa produrrà questa prima dissociazione del festival dalla sua direttrice artistica non solo per il pubblico e per la comunità artistica, ma anche per lo staff di lavoro. Marie Collin è una figura non solo straordinaria, ma perfino un po’ mitologica, di grande coraggio e curiosità, con una grande sete di conoscere e scoprire le novità del teatro.

    Non sono spaventata, ma sento la responsabilità di un cambio simile, che inaugura un nuovo cinquantennio – questo è il modo in cui lo presenta lo stesso Cda, anche perché la prima edizione che firmerò, dopo l’edizione del cinquantennale che si svolgerà quest’anno, sarà appunto la numero cinquantuno. Sarà a suo modo uno spartiacque, che si sovrascrive allo spartiacque doloroso del Covid. C’è molto da fare.

    Quanto durerà il tuo incarico?

    Ho un contratto a tempo indeterminato. Il Festival d’Automne ha una storia particolare, fatta di grandi cicli. È un’anomalia anche in Francia, dove i ricambi nelle funzioni di direzione sono molto ben scandite. Il Festival d’Automne ha invece costruito lunghi percorsi di fedeltà e, anche se ovviamente non conto di rimanere quanto la persona che mi ha preceduto, c’è sicuramente un’aspettativa di lungo respiro.

    Hai già in testa un progetto?

    Il Festival d’Automne è una manifestazione particolare, dura più di tre mesi, presenta ottanta lavori per edizione, con la sezione dedicata alle mostre scavalla anche la temporalità della stagione. È una macchina affascinante e da parte mia non c’è intenzione di spezzare una storia, anche perché non arrivo in una fase di calo del festival, ma in un momento in cui è molto vivo. Allora quello che mi chiedo è, oltre alla voce dei singoli artisti, cosa vuole raccontare il festival? Quali mondi lascia emergere? Ogni anno il Festival d’Automne racconta un mondo, attraverso le opere che presenta. Credo sia importante domandarsi cosa ha da dire un festival in una capitale europea oggi, quali geografie vuole disegnare, anche grazie alla sua capillarità nel territorio. Come si può non essere solo vetrina? La vetrina è chiaramente un ruolo fondamentale per una città come Parigi – portare il mondo a Parigi, far vedere le opere, far incontrare gli artisti e le artiste – e una manifestazione importante come il Festival d’Automne deve svolgere questo ruolo. Ma può esserci dell’altro, in tempi complessi come i nostri.

    Ogni anno il Festival d’Automne racconta un mondo, attraverso le opere che presenta

    Ad esempio domandarsi cosa Parigi abbia da dire. Domandarsi come risuonano certe opere in quella città in questo momento. Il nostro, in fondo, è un tempo particolarmente interrogante. Vorrei lavorare sulla tessitura che è tra le cose, non presentare soltanto un elenco di spettacoli interessanti, ma esplicitare quale comunità si forma attraverso il nomadismo degli artisti e delle artiste e del festival stesso, che ha mille luoghi senza averne uno proprio, fisso. E poi vorrei indagare i travasi tra le varie discipline. La programmazione tradizionalmente è molto ben scandita in varie discipline come teatro, danza, musica, arti visive (queste ultime due hanno degli specifici consulenti). I travasi tra le discipline, ma anche le zone intermedie, saranno sicuramente ambiti di lavoro. E poi vorrei interrogare la dimensione di comunità, che forse non è stata al centro dello sguardo del festival in questi anni. Vorrei insistere sull’intersezione tra arte, politica e comunità, e capire come questi elementi dialogano tra di loro. Il festival ha strumenti straordinari per poterlo fare e Parigi è una città straordinaria per farlo, è una città-mondo. Carica di tensioni, ma anche carica di rivolte che contengono futuro. Anche rispetto al movimento Black Lives Matter, una delle ultime sollevazioni globali, Parigi ha visto momenti molto alti di riflessione rispetto alla battaglia antirazzista e anticoloniale.

    Per te si tratta di un ritorno in Francia. È da lì che venivi quando hai accettato la consulenza artistica al Teatro di Roma. Una nomina importante, perché apriva a una donna quarantenne un ruolo che è quasi interamente maschile e spesso gestito da persone di generazioni precedenti. Allo stesso tempo questa innovazione è stata molto attaccata sui giornali, con toni che sembravano rimarcare proprio questa tua diversità come elemento di non competenza. Qual è il tuo bilancio?

    Qui a Roma si sta concludendo un’esperienza piena di aspettative. Quando è arrivata la mia nomina al Teatro di Roma ero Marsiglia, dove vivevo e lavoravo. Potrei dire che il Teatro India era l’unica cosa per cui avrei lasciato la Francia. Lo dico non per raccontare solo un fatto privato, ma per far capire quanto la comunità artistica di cui sento di far parte ha investito in termini di immaginazione su quel luogo.

    Il Teatro India, da quando faccio questo lavoro – cosa che più o meno coincide con la sua fondazione – è sempre stato un termine di paragone e di immaginazione. Quello che avrebbe dovuto essere India, quello che potrebbe diventare, sono stati dei punti fermi del ragionamento della mia generazione artistica a Roma. Quella nomina è stata per me una fonte di grande felicità.

    Oggi, a tre anni di distanza, è arrivata una nomina persino più importante, ma devo dire che l’emozione di tornare a Roma, nella mia città, con un ruolo che sembrava impensabile poco prima, è stata all’epoca forse un’emozione perfino più grande. Non c’era solo l’apertura a una generazione, ma anche l’idea che finalmente il Teatro di Roma avesse deciso di investire sull’idea di una figura curatoriale, dedicata espressamente a uno spazio, a quello spazio. Significava dare un segno politico della volontà di ricucire la frattura tra quel teatro e il suo territorio, tra quel teatro e un sistema nazionale e internazionale. È stata una bella intuizione della politica, delle amministrazioni che siedono nel Cda del Teatro di Roma, questo va detto. Oggi, a distanza di pochissimi anni, sembra tutto molto lontano.

    Si sono verificate, ovviamente, condizioni eccezionali in questo frangente, come la pandemia. È stato quindi un mandato davvero “speciale” per molti motivi. L’esperienza, posso affermarlo in modo netto, è stata ricca di soddisfazione, una soddisfazione artistica, politica e sociale. Una soddisfazione che non è smentita dalle problematicità (di cui parleremo). Perché i risultati ottenuti nelle mille difficoltà hanno di fatto confermato quella intuizione iniziale.

    A India, quando si spalancano tutte le porte, le cose risuonano in modo impensato. E posso confermare che la cittadinanza, gli abitanti del territorio, hanno desiderio – a volte espresso, a volte inespresso – di attraversare quel luogo e di abitarlo, così come ovviamente ce l’ha la comunità artistica. Posso confermare che la qualità artistica della creazione contemporanea è oggi altissima.

    E la sua capacità immaginativa, se sono date le condizioni per l’agibilità del pensiero, è anche una capacità trasformativa. È sorprendete quanto gli artisti e le artiste siano capaci di riconnettersi, di creare occasioni per stare insieme, di non isolarsi in un fare teatro che esclude gli altri e le altre. Si nutrono della relazione tra artisti/e, chi vivono a Roma e chi ci passa per un periodo; ma si nutrono anche della relazione col pubblico. E così cresce anche la relazione tra India e Argentina, che è anche la relazione tra due possibilità diverse, anche a livello architettonico, di immaginare teatro. In questo senso chiudo il mio impegno qui con grande soddisfazione, perché i risultati ottenuti mi confermano che non era un sogno, ma che questa carica artistica e politica di altissimo livello esiste davvero ed è in grado di produrre un pensiero molto avanzato.

    Questa soddisfazione convive però con una grande delusione, quella di non avere avuto degli occhi attenti su tutto questo. Quando parlo di attenzione non parlo di sguardo indulgente, ma di sguardo serio, che racconti a partire da ciò che effettivamente si è verificato tra India e Argentina, a prescindere dai giudizi estetici. Perché in fondo si tratta del nostro Teatro nazionale, che ha un peso non solo a livello cittadino. È un vero peccato che tutto questo non sia stato raccontato, che non ci sia stato uno sguardo su quello che accadeva al di là del singolo spettacolo – in una stagione, per altro, funestata dal covid.

    È un peccato a livello politico, soprattutto: perché al di là del nostro lavoro, quello mio e Giorgio Barberio Corsetti, ciò che costituisce un patrimonio per la città sono i  ragionamenti innescati dalla comunità artistica, che ha lavorato enormemente in questi anni, e che può essere alla base per costruire il futuro artistico di Roma.

    La stampa, la critica, ha anche questo ruolo: fotografare delle esperienze che hanno una potenza gigantesca ma che sono anche effimere, come tutta l’arte dal vivo

    India la conosce chi c’è stato. Io so che tutte le persone che l’hanno attraversata, che sono venute a vedere gli spettacoli o a fare laboratori, così come la comunità artistica molteplice che ci ha lavorato dentro in modo straordinario, conosce il percorso prezioso che è stato fatto: le esperienze del coro cittadino, della scuola serale, della formazione retribuita, delle residenze sono stati momenti incredibili, alcuni dei quali hanno consentito di usufruire in modo gratuito e in prima persona, non solo da osservatori, degli spazi del teatro pubblico cittadino. Ma i media principali non hanno voluto raccontare tutto questo percorso, che esprime delle possibilità fondative importanti al di là dei percorsi personali.

    La stampa, la critica, ha anche questo ruolo: fotografare delle esperienze che hanno una potenza gigantesca ma che sono anche effimere, come tutta l’arte dal vivo. Abbiamo però ancora un’altra stagione per lavorare e spero che questa occasione non venga sprecata. Le visioni artistiche, più che le singole direzioni, sono in grado di emancipare Roma da tutta una serie di problemi storici che questa città ha sul fronte dell’arte e dello spettacolo dal vivo: raccontare quelle, ragionarci sopra, è un’occasione importante per costruire una città accessibile, aperta, connessa con la scena internazionale.

    Mi pare che sulla stampa sia prevalso un racconto strumentale, per attaccare la gestione del teatro, cavalcando un’opposizione tra tradizione e contemporaneo che Roma, in realtà, aveva già abbondantemente superato: negli anni Novanta e nei primi anni Zero c’è stata un’osmosi fortissima tra questi due mondi artistici. Riproporre questa opposizione artatamente, quando intere fette di pubblico sono cresciute, in realtà, in un contesto fortemente ibrido e contaminato, sembra un’azione volta a circoscrivere degli ambiti di competenza – forse di interesse, di gestione del potere – che non corrispondono a quanto avviene concretamente nella città già oggi, e non da oggi. È paradossale perché parole come residenza, formazione, coinvolgimento del pubblico – che sono stati i cardini del vostro intervento – sono questioni poste con forza anche dal Ministero. Come ti spieghi questo racconto parziale?

    Mi sono data molte risposte, che in qualche caso si contraddicono tra loro. Da una parte credo che si tratti effettivamente di un racconto strumentale. Perché nel pubblico questa dicotomia non esiste. Il pubblico è desideroso e pone interrogativi molto più avanzati di questi. Nel lavoro assolutamente non oppositivo che abbiamo fatto io e Giorgio Barberio Corsetti non saprei proprio dove mettere questa dicotomia. Non fa parte dei nostri pensieri, dei nostri discorsi, delle stagioni che abbiamo disegnato. Nel teatro in cui credo, ma forse direi nel mondo in cui credo, questa cultura della controparte cui opporsi ha il solo risultato di sfiancare, di tagliare le gambe al futuro. Mi sembra persino banale doverlo dire, ma contemporaneo e tradizione sono forme estetiche alleate. A volte arrivano ad essere la stessa cosa. Polarizzarle significa mistificare. Nella mia generazione, e ancora di più nelle generazioni più giovani, tutto questo non esiste. Sono anni che parliamo di alleanze, di sponde, di compenetrazioni, la nostra cultura teatrale è questa.

    A fine giugno 2021, ad esempio, abbiamo trasformato il Teatro Argentina per ospitare la meravigliosa performance-opera “Sun & Sea”: il teatro è diventato una spiaggia. La platea è stata svuotata e riempita di sabbia, dall’alto si poteva osservare questa bellissima composizione che, in modo volutamente distratto, parlava di una terra che crolla. Tutto questo lavoro estremamente contemporaneo – parliamo di una performance che ha vinto il Leone d’Oro alla Biennale Arte, che viene da un altro campo disciplinare – è stato la sponda generosa per lanciare subito dopo uno spettacolo intimamente teatrale che è l’Ubu Re diretto da Fabio Cherstich, che ha usato quello stesso ambiente pieno di sabbia come scena, abitandolo in modo completamente diverso, costruendo un lavoro straordinario. Per la prima volta abbiamo aperto l’Argentina a fine luglio, proprio sull’onda di quella istallazione, e abbiamo registrato un successo straordinario, perché era pieno tutte le sere.

    Il teatro è l’arte della relazione per eccellenza. Polarizzare contemporaneo e tradizione serve solo a perseverare in un’idea arroccata del teatro, dunque contraddittoria rispetto alla sua intima natura. Colpevolizzarlo di entrare in connessione col mondo, di contaminarsi, significa criticarne l’aspetto più vitale e carico di futuro.

    C’è una generazione di direttori artistici sui quarant’anni, in Europa, molto interessante. Alcuni sono italiani, come te che ora vai a Parigi e Daniel Blanga Gubbay, che lavora in Belgio al Kunstenfestivaldesarts, ma anche Tiago Rodrigues, che passa adesso dal Teatro Nazionale di Lisbona alla direzione di Avignone. L’Italia invece nei ruoli apicali presenta quasi sempre persone più grandi d’età, quasi sempre maschi. Come te lo spieghi?

    Non conosco tutte le realtà in Europa, ma è chiaro che non può non stupire l’incapacità italiana rispetto al rinnovamento generazionale. Ma non è una semplice questione di età. È un’incapacità di condividere il potere, di allargare la visione. Spesso in Italia il criterio che permette di avere un potere decisionale è averlo già. A volte questo si nasconde dietro il criterio dell’esperienza, a volte dietro quello dell’età. È sicuramente una questione che va di pari passo con il maschilismo, per quanto riguarda il genere delle persone nei ruoli apicali, e con il patriarcato, inteso come sistema di potere.

    Lo sguardo (non solo) italiano è retrogrado su molte questioni oggi centrali e ineludibili, come la questione del razzismo. C’è un’incapacità di guardare, perfino di ammettere che esiste un problema, e questa incapacità è intimamente connessa all’incapacità di condividere il potere. Il blocco del ricambio generazionale credo nasca anche da qui. Sono tutti elementi interconnessi. È una questione che mi addolora e che continua a sorprendermi, perché ciclicamente si presentano dei momenti in cui sembra che questo avvicendamento si possa verificare, ma sempre seguiti da delle battute d’arresto. È un tema che investe molto la mia generazione, che è quella nata negli anni Settanta del Novecento, una generazione che a ben guardare a sua volta, e tra non molto, dovrà “passare il microfono” alle generazioni successive affinché prendano parola.

    Dovremmo vivere in un rimbalzo continuo tra le generazioni, invece si vive in una situazione di perenne blocco. Si dice che in Italia la scarsa mobilità nasce dalla carenza di posti, nel settore teatrale, ma non credo affatto che sia la risposta vera, o almeno non l’unica. La stasi del mercato non giustifica la ratio per cui il grosso dei ruoli apicali sono ricoperti da uomini prossimi all’età pensionabile. Nel mio caso specifico molte volte i giornali hanno insistito sull’inesperienza, sul fatto che non si sapeva chi io fossi – ovviamente applicando una logica tutta interna alla gestione del potere nel teatro pubblico. A che titolo ero stata chiamata alla direzione di India, in quanto non artista, donna, quarantenne.

    Anche lo scetticismo verso la figura della curatrice, che io incarno, è una cosa molto legata agli sclerotismi italiani, dove solo l’artista, o meglio il grande regista, può essere pervaso dalla luce della visione su quelle che sono o dovrebbero essere le linee verso cui indirizzare un teatro pubblico. Si tratta di un pregiudizio che appartiene solo all’Italia e, in Italia, al solo settore teatrale. Che un curatore o una curatrice possa dirigere un museo o un’altra istituzione artistica non è un problema, fuori da questo settore. Ad ogni modo e anche oltre questo ultimo esempio, lo schema di pensiero reiterato è quello dell’uomo solo al comando. È un pensiero pervasivo e soffocante per tutta una larga fetta di mondo teatrale. L’Italia finisce così per confermare uno dei suoi peggiori cliché: finisce per essere il posto in cui tutti/e noi vogliamo vivere ma nessuno/a di noi riesce a lavorare.

    Il teatro è l’arte della relazione per eccellenza

    Voglio però aggiungere una riflessione in maniera molto chiara: io non credo nella retorica dello scontro tra generazioni, nella dialettica binaria dei padri contro i figli, dei rottamatori. È una cosa lontanissima da me, politicamente parlando. Credo piuttosto nel passaggio tra le generazioni in cui si tiene vivo il filo di un discorso, in cui ci sono alleanze tra generazioni diverse, in una trasmigrazione continua di esperienze. Il nuovo contro il vecchio non è la questione, è un modello di consumo di matrice capitalistica che non fa che mistificare il problema. La mia esperienza al Teatro di Roma, per altro, si fonda su un’esperienza preziosissima che è quella tra me e Giorgio Barberio Corsetti, che è stato ed è il mio primo alleato. Abbiamo attraversato periodi storici diversi, ma questo può nutrire i nostri sguardi vicendevolmente, perché crediamo entrambi di voler costruire un certo tipo di mondo, un altro tipo di mondo.

    La stessa dimensione istituzionale, che spesso da fuori viene criticata in modo netto e senza scendere nei dettagli, riserva in questo senso delle sorprese. Al Teatro di Roma ho trovato colleghe molto competenti e pronte a farsi coinvolgere in modo sorprendente in un progetto artistico di rinnovamento, anzi, con un profondo desiderio di interloquire e farne parte.

    L’interlocuzione tra tradizione e innovazione è una realtà molto più radicata di quello che si racconta, anche dal punto di vista di chi lavora dentro un’istituzione. Per me lavorare con le responsabili dei settori che si occupano dell’attività all’interno del Teatro di Roma è stata un’esperienza straordinaria.

    Parliamo della crisi gestionale che ha attraversato il Teatro di Roma, con gli scioperi prolungati del comparto tecnico che sembravano criticare nei loro comunicati le scelte artistiche. Di tutto questo, che rappresenta uno dei momenti di maggiore difficoltà della vostra gestione, è arrivato eco in Francia? In che modo? E che ne pensano?

    Sì, se ne è parlato. Perché i legami sia miei che di Corsetti a livello internazionale sono molto saldi, e perché le artiste e gli artisti che hanno attraversato l’esperienza del Teatro di Roma sono molto connesse/i alla scena internazionale. Gli attacchi di matrice più culturale – l’accusa di aver trasformato India in un centro sociale, il giudizio nei miei confronti di mancanza di esperienza – hanno molto colpito i colleghi francesi.

    L’interlocuzione tra tradizione e innovazione è una realtà molto più radicata di quello che si racconta

    La reazione è stata di grande stupore per l’arretratezza del discorso. Come se la socialità attorno all’evento teatrale diminuisse l’aura dello spettacolo. L’altra cosa che li ha colpiti molto è il fatto che hanno appreso, chiedendo spiegazioni, che i giornalisti e i politici che hanno scritto e dichiarato queste cose non sono praticamente mai venuti al Teatro India.

    Dalla prospettiva parigina come guardano alla scena italiana? È considerata interessante, innovativa, bizzarra, non connessa o connessa solo parzialmente a quanto sta avvenendo in Europa?

    Posso parlarti della mia esperienza precedente al Teatro di Roma, quando lavoravo in Francia. Proprio al Festival d’Automne ho lavorato per presentare tutti i lavori di Deflorian/Tagliarini e alcuni di Lucia Calamaro, per citare alcune cose. Ho quindi partecipato a immettere nel sistema francese nuovi/e artisti/e italiani/e dopo quelli delle generazioni di Romeo Castelluci, Pippo Delbono, Emma Dante – che sono tra i nomi più amati in Francia. E devo dire che la potenza della scena artistica che abbiamo portato è tale che c’è stato un ritorno di interesse, al quale sono felice di aver contribuito anche in minima parte.

    All’epoca l’accento si posava sul fatto che dalla Francia era impossibile capire cosa stesse davvero avvenendo in Italia, perché le stagioni ufficiali non intercettavano quei nomi che, a conti fatti, finivano per risultare invisibili all’estero. Spesso per capire cosa si muovesse in Italia, occorreva rivolgersi soprattutto ai festival, e di frequente a quelli più indipendenti. Oggi le cose stanno pian piano migliorando: mi auguro che la tendenza prosegua.

    Note