Cos’è la città metromontana, oltre il metropolitano e insieme alla montagna

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    1. La città metromontana

    Oggi la “questione montana” non riguarda solo la montagna, tanto che il convegno 2019 della Società dei territorialisti è stato dedicato al tema di una “nuova centralità della montagna”. Anche la città se ne è accorta, anche se in ritardo e con non pochi bias urbano-centrici. Conviene proprio partire dalle rappresentazioni urbano-centriche della montagna, per capire cosa è e quale spazio può avere l’innovazione metromontana. Per iniziare, neghiamo ciò che appare come realtà scontata: la città metropolitana non esiste. E, se esiste, è un’eccezione. Non è la regola.

    La città metropolitana non esiste. E, se esiste, è un’eccezione.

    Consideriamo la mia città, Torino. La città che si ricorda delle montagne che la circondano solo quando bruciano i boschi, o quando si affaccia all’orizzonte la candidatura per le olimpiadi invernali. “Come Torino dimentica le sue montagne”, così recitava il titolo di un bellissimo post di Fabrizio Goria pubblicato il 29 novembre 2019. Nello stesso giorno, usciva un mio analogo intervento – più “accademico” ma con il medesimo spirito – su “Dialoghi urbani” .

    Entrambi gli interventi, senza coordinamento pregresso e in verità senza che i due autori si conoscessero personalmente – sottolineavano che Torino ha dimenticato la sua vocazione di città alpina. La superficie montana della Città metropolitana di Torino è pari al 52% del territorio e prevale sia su quella collinare (21%) che sulla pianura (27%).

    Inoltre, su 315 Comuni ben 143 sono classificati come “montani” e il 36% di questi sono piccolissimi Comuni sotto i 1.000 abitanti. Il caso della città metropolitana di Torino è del tutto in linea con il dato nazionale: fatta eccezione per Milano (e Venezia), 10 su 12 città metropolitane italiane sono costituite da percentuali non residuali di Comuni classificati come montani o parzialmente montani. Su 12 città metropolitane, solo 2 (Milano e Venezia) sono, appunto, completamente composte da Comuni non montani; 6 (Genova, Roma, Reggio-Calabria, Messina, Palermo, Cagliari) hanno più del 50% di Comuni montani o parzialmente montani, mentre 4 (Catania, Bari, Napoli e Bologna) hanno meno del 50% di Comuni montani o parzialmente montani.

    Nulla di nuovo, un fatto ovvio: le città metropolitane sono state costruite sul sacrificio rituale delle Province, che per confine amministrativo si estendevano ben oltre le città in senso stretto. Del resto i nomi, come le maschere, mostrano e nascondono allo stesso tempo. La capacità di “dare nomi” è una delle dimensioni del potere politico. Il Leviatano di Thomas Hobbes possedeva il potere di naming, oltre che quello di sanzionamento.

    Nel dire “Provincia di Torino” o “Città metropolitana di Torino” si evocano immagini e aspettative molto diverse. Nel primo caso, il contenitore semantico “provincia” richiede e permette l’inclusione di piccoli paesi, colline, aree rurali, montagne e borghi, nel secondo caso no. La città metropolitana richiama l’immagine della grande conurbazione urbana, della città senza confini, magari malata di sprawl urbano come lo è Roma, dove si alternano senza soluzione di continuità caseggiati, prati, ipermercati e “compro oro”.

    I Sindaci governano come se la montagna non potesse generare ricchezza e benessere anche per la città

    La città metropolitana, però, non corrisponde a questa rappresentazione iper-urbana. Dal centro di Torino, per esempio, alle valli metro-montane si arriva in 45 minuti di auto, lo stesso tempo che si impiega dal centro città alla prima cintura. E ciò non è solo una caratteristica delle grandi agglomerazioni metropolitane. In Italia, circa 90 tra capoluoghi di Provincia e Comuni con più di 50.000 abitanti distano meno di 15 km da un’area montana, configurando di fatto un sistema nazionale metro-montano di città e montagne diverse.

    Questa dimensione territoriale, però, non è un fatto istituzionale e politico. La programmazione delle infrastrutture di connessione e, più banalmente, gli orari di treni e bus, non guardano alla metro-montanità come cifra degli interventi.

    I Sindaci governano le città con la montagna alle spalle e lo sguardo speranzoso alla pianura, come se la montagna non potesse generare ricchezza e benessere anche per la città (F. Barbera, Crisi della cittadinanza e diseguaglianze territoriali, La rivista “Il Mulino”, 1/20).

    In questa medesima prospettiva, oltre alle zone montane vanno considerati anche i contesti periurbani che si estendono attorno alle città e si fondono con il paesaggio rurale condividendo le caratteristiche di entrambi. È giusto parlare anche in questo caso di un sistema metro-rurale che vede siti periferici diventare una sorta di “città estesa”, che un tempo ha visto una crescita addirittura competitiva con la “città concentrata” ma che ora sopravvive grazie a centri che forniscono servizi come scuole di secondo livello, ospedali e ferrovie (A. Lanzani e F. Curci, Le Italie in contrazione, tra crisi e opportunità, in A. De Rossi (a cura di) in Riabilitare l’Italia, Roma, Donzelli, 2018, pp. 79-107).

    Questo fenomeno è evidente in Italia, dove la natura policentrica è molto marcata e dove ci sono centri urbani e intercomunali che offrono servizi essenziali a più aree periferiche. La “metro-ruralità” diventa però fragile nel momento in cui genera una “Italia di mezzo” in contrazione carente delle risorse necessarie per attivare processi di rigenerazione, (A. Lanzani e F. Zanfi, L’avvento dell’urbanizzazione diffusa: crescita accelerata e nuove fragilità, in A. De Rossi (a cura di) in Riabilitare l’Italia, Roma, Donzelli, 2018, pp. 123-140). Un’Italia caratterizzata da vincoli demografici, edifici abbandonati, cantieri bloccati e proprietà invendute.

    2. Lo spazio simbolico del riconoscimento metromontano

    Per essere colto, l’innovazione metromontana richiede una inversione dello sguardo (A. De Rossi, (a cura di), Riabitare l’Italia, Roma, Donzelli, 2018). Ne scrive Paolo Manfredi, in un pezzo lucidissimo quando sostiene che il rapporto sinergico città-montagna si deve giocare anzitutto sul ripensamento delle catene del valore territoriale nell’ambito di un possibile ripensamento delle catene del valore economico e dell’organizzazione sociale e del lavoro.

    La montagna non costituisce oggi un “soggetto morale”, degno di eguaglianza

    Tematiche, queste, solitamente riservate alla città (G. Carrosio, I margini al centro, Roma, Donzelli 2019). Occorre, per questa inversione dello sguardo, un nuovo tipo di riconoscimento e una nuova alterità. La montagna deve conservare una differenza specifica rispetto alla città, ma questa differenza non può e non deve essere la proiezione delle frustrazioni, desideri e bisogni della borghesia urbana, che concepisce la montagna come deserto verde, commodity o amenity.

    Le montagne hanno anzitutto necessità del riconoscimento pubblico che ne fanno un soggetto dotato di capacità “morale”. Riconoscimento, questo, che implica da parte dei soggetti “forti” (es. le città) un passo indietro che dia ai soggetti “deboli” (es. le montagne) lo spazio per esercitare la propria autonomia o la propria “volontà libera”, rinunciando a un agire puramente autoreferenziale o città-centrico.

    Il riconoscimento, in questi termini, configura sostanzialmente l’attribuzione di una autorità morale a un soggetto-altro che obbliga il soggetto attributore ad autolimitare il proprio campo di azione. La montagna, da questo punto di vista, non costituisce oggi un “soggetto morale”, degno di eguaglianza di rispetto. Non è coautore paritario delle norme e delle regole che è chiamata a seguire, e non è titolare della loro interpretazione. Non è riconosciuta, ma misconosciuta. Di conseguenza, la sua capacità di innovazione è mortificata. Il riconoscimento di cui gode la montagna è quello asimmetrico, quando va bene, della “buona condotta” rilasciato come dono dal riconoscente.

    3. Gli innovatori metromontani

    La centralità della città come luogo dell’innovazione, non soltanto sociale, è nota e, in effetti, la popolazione degli innovatori sociali è ancora tipicamente urbana. I grandi conglomerati urbani, grazie alla contemporanea presenza di servizi e di spazi di scambio informale, facilitano la contaminazione dei saperi e l’ibridazione delle pratiche attraverso forme di scambio anche casuale – il cosiddetto buzzing – che sono alla base dei processi innovativi.

    Esiste tuttavia uno spazio importante per l’innovazione sociale rivolta alle aree interne, lontane dai servizi, nonché alle piccole e medie città: citiamo per esempio le green communities, i modelli innovativi nei servizi socio-sanitari e nella scuola, la mobilità condivisa e le soluzioni di housing sociale, la valorizzazione delle filiere agro-alimentari e dei lavori connessi alla ricerca di stili di vita low profit.

    In modo sempre meno sporadico, anche le aree interne possono essere luoghi in cui realizzare forme di innovazione sociale ai margini – ma non marginali – affiancate e sostenute da politiche dedicate. Il riferimento è alle varie forme di sviluppo territoriale in cui il “fare impresa” è connesso a processi di costruzione comunitaria, a partire dalla creazione e dalla distribuzione di valore economico a impatto sociale.

    Le aree interne possono essere luoghi in cui realizzare forme di innovazione sociale ai margini

    Del resto, la popolazione degli innovatori sociali non è concentrata solo nelle grandi città e, soprattutto, gli innovatori sono dei broker tra territori. Per esempio, nel nostro lavoro (F. Barbera – T. Parisi, Innovatori sociali. La sindrome di Prometeo nell’Italia che cambia, il Mulino, Bologna, 2019) abbiamo notato che oltre il 40% degli innovatori sociali intervistati risiede in centri con meno di 20.000 abitanti. Inoltre, anche se la new wave dell’innovazione sociale in Italia tende a concentrarsi nelle regioni del Centro-nord, gli innovatori sociali come popolazione sono presenti in tutto il paese, da Nord a Sud.

    Gli innovatori sociali sono connessi da reti che, in alcuni casi, attraversano il territorio nazionale. Gli innovatori sociali di Calabria e Sicilia generano legami ad ampio raggio, che li connettono alle regioni settentrionali come il Piemonte, la Lombardia, il Trentino e il Veneto.

    La dimensione locale delle pratiche di innovazione sociale, quindi, si può accompagnare al superamento delle distanze geografiche, specie quando il territorio non offre le risorse sperate. Inoltre, il profilo tipico degli innovatori sociali è quello di persone molto propense a muoversi sul territorio, anche se l’area locale è considerata come un luogo ricco di opportunità, almeno per chi è in grado di coglierle.

    Inoltre, molti si dichiarano legati al territorio dove stanno svolgendo la propria attività, pur non escludendo un trasferimento futuro. Quest’ultimo dato deve far riflettere sulle capacità (o l’incapacità) di dare spazio alle progettualità degli innovatori sociali come broker tra territori, capaci di dare corpo all’innovazione metromontana.

     

    Immagine di copertina: ph. Massimiliano Morosinotto da Unsplash

    Note