Si dice che ogni sessanta secondi vengano postati 3 milioni di contenuti su Facebook, realizzate 2milioni e 315mila ricerche su Google, scritte 150milioni di mail. Sessanta secondi. Un minuto, un solo minuto. Numeri da capogiro che portano alla luce uno dei nodi irrisolti di questi tempi: il tempo, per l’appunto. Viviamo tempi senza tempo.
La fretta, la velocità, il flusso continuo di una mole di informazioni sovrasta, annienta, annichilisce. Non c’è tempo, non c’è mai tempo, una fretta indiavolata come direbbe il coniglio di Alice.
Tutto deve rispondere alle regole del business: azione/reazione immediata. Ossia, banalmente osservare e subito scrivere, leggere e subito cliccare. I clic sono flusso, sono economie: più like hai, più esisti. In questo mondo, virtuale e reale, prolificano le FakeNews. È la faccenda scottante di questi anni.
Emozioni e notizie false, viralità e contagio, bufale e diffusione: le fake news non sono un fenomeno recente. Di notizie false ha vissuto il giornalismo.
La questione però non è questa: si tratta, infatti, non di inseguire quei tempi esasperati, ma di rallentare, di soffermarsi, di ritrovare ascolto e attenzione.
Il teatro è un ritardo, è prendersi un tempo diverso.
Riflettere, insomma, prima di reagire, anche semplicemente prima di mettere automaticamente il nostro “Mi piace.” E cercare un tempo diverso.
Per questo, forse, il Teatro sta vivendo una seconda giovinezza. Il Teatro è un ritardo, è prendersi un tempo diverso. Anzi meglio: è sospendere il tempo della velocità. Tornare a ritmi antichi, eterni, che spingono all’ascolto e alla riflessione. Il teatro, ogni teatro, è dunque uno spazio di resistenza alla quantità e alla velocità.
Nell’era della cosiddetta “post-verità” (per l’Oxford Dictionary la parola dell’anno 2016 era appunto “Post-truth”) il vecchio teatro riconquista spazi e afflati di sincerità. Nel luogo della massima finzione, ecco che l’incontro tra scena e platea continua ad avere senso, proprio come nell’Atene del V secolo.
Anche il teatro ha affrontato, a suo modo, il tema delle “FakeNews”. Certo, non si chiamavano così, né si parlava di “post-truth”, eppure con le false notizie la drammaturgia ha fatto i conti.
Basta fare un paio d’esempi?
Nella tragedia classica, il “messaggero” (non la testata giornalistica, ma il personaggio) era sempre creduto. Era un anghelos, un portavoce degli dei: non avrebbe mai potuto dire il falso. Era il testimone dei fatti: colui che era presente e che racconta quanto aveva vissuto (User genereted content, direbbero oggi gli esperti). Il messaggero della tragedia è l’erede di Omero, sa creare la visione, sa mostrare a chi non c’era. Narra l’inenarrabile e l’invedibile.
Veniva insomma creduto “a prescindere”, come diceva Totò, e se e quando qualcuno diffidava, non credeva, si scatenava la tragedia.
Edipo non crede a Tiresia, non lo ascolta, pensa che il vecchio indovino stia farneticando oppure stia tramando qualcosa. Le FakeNews nascono sempre da un qualche interesse, e Edipo non ha dubbi, pensa ci sia un complotto ordito da Creonte e Tiresia:
«O sete di ricchezza, o brama di signoria, o smania di superare in destrezza l’un l’altro in questo mondo di gareggiatori, quanta invidia si cova presso di voi!».
Insomma, Edipo accusa i soliti “gufi”, quasi fosse Renzi. Poi si sa come è andata a finire (sia per Edipo che per Renzi).
In seguito, quando il teatro ha smesso di avere a che fare con gli dei, e si è confrontato con il potere, ossia con la Corona, le FakeNews sono diventate strumento abituale di azione e di drammaturgia.
Ne sa qualcosa Jago, forse il più grande, il più sublime creatore di FakeNews che la storia ricordi. Le elezioni di Trump hanno sdoganato le notizie false come strumento di carriera politica. Con Jago la questione non era solo di arrivismo (sì, va bene, Otello aveva promosso a luogotenente Michele Cassio al posto suo), né legata alla diceria – fakenews nella fakenews – che il Moro si “era infilato nel suo letto”.
Il messaggero della tragedia è l’erede di Omero, sa creare la visione, sa mostrare a chi non c’era.
C’era ben altro. Jago agisce con dolo: sapientemente e scientemente produce false notizie al fine di recare il maggior danno possibile a Otello. Sa spingere sulle corde dell’emotività: in piena notte sveglia Brabanzio, gridando che
«un vecchio montone nero sta montando la (sua) candida pecorella».
Crea panico, scompiglio, interpretazioni esagerate, genera paura. E poi ordisce la sua strategia di disinformazione: il complotto della gelosia.
«Fra qualche tempo potrei, per esempio, soffiare nell’orecchio di Otello che Cassio ha troppa confidenza con sua moglie»
dice parlando con se stesso.
Ecco la bufala che inizia a circolare: “La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar”, scriveranno molto dopo Sterbini e Rossini nel Barbiere.
Jago improvvisa, sa cambiare tattica per dar coronamento alla sua strategia: si appiglia alla verosimiglianza («Che Cassio sia innamorato di lei è certo; che essa lo ami è possibile, anzi molto credibile»), e distillando informazioni, suggestioni, invenzioni, coglie l’attenzione già predisposta e credulona di Otello.
«Muterò la virtù in peccato» afferma l’onesto Jago a un certo punto: sembra proprio la famosa “macchina del fango”, no?
Alla fine, ecco il suo capolavoro di disinformazione: la bufala colossale del fazzoletto.
«Oggi ho visto Cassio che si asciugava la barba con un fazzoletto simile, e sono certo che era di vostra moglie. Se fosse quello….».
Nessuna verifica, nessuno ha la pazienza per farlo: i fatti precipitano, non c’è tempo per riflettere. La tragedia si compie. Bastano i falsi indizi per depistare, bastano delle sollecitazioni emotive per scatenare il peggio. Allora si tratta di rallentare, di fermarsi, di pensare.
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Poco tempo fa, alla presentazione del nuovo numero de L’Espresso, Roberto Saviano ha citato il libro di Thomas L. Friedman “Grazie per essere arrivato tardi” (Mondadori). L’autore aspettava un amico, ma questi tardava, così si è liberato un tempo, un tempo vuoto, sospeso, da dedicare semplicemente a pensare.
Ecco, il teatro è un amico che arriva tardi, che ci costringe a fare tardi, a fermarci a pensare. A uscire di casa, prendere la macchina o un mezzo pubblico e andare con altri in un luogo. Si tratta allora di prendere posto, ossia di prendere posizione, e di fermarsi: ad ascoltare, a guardare, a capire. Lasciarsi andare a un tempo diverso, lungo e lento, anticommerciale, antiproduttivo: in quel tempo altro, dunque, si interrompe il flusso continuo di informazioni.
Anche per questo danno noia mortale i cellulari accesi in sala. Non solo per le suonerie scostumate, per le luci invadenti, ma anche perché è un tempo che si insinua in un altro tempo, è “l’informazione” che mina la comunicazione. Il trillo di un tweet durante un monologo di un attore è la “breaking news”, magari fake, che distrae, che riporta a quello che Zizek definisce “il deserto del reale”. Non solo. Nella dicotomia tra teatro e fake news ci sono altri aspetti da verificare.
La prima regola del giornalismo dice: dubitare sempre, su tutto, e verificare le fonti. A teatro siamo naturalmente increduli: come dar retta a un signore in calzamaglia nera con un teschio in mano che si spaccia per il principe di Danimarca? Nemmeno la nipote di Mubarak sarebbe arrivata a tanto. E invece, lentamente, “sospendiamo la nostra incredulità”, come sosteneva Coleridge, e ci lasciamo andare alla finzione: ma solo perché in quel mondo posticcio, in quella falsità, c’è lo strazio di una verità umana, semplice e diretta.
Chi naviga in rete ha a disposizione una serie ampia di strumenti utili per decrittare una notizia, per capire se è falsa o vera: da Google a Facebook non mancano i “tools” per attivare quella “fact checking” in grado di svelare le bufale. Per capire cosa è propaganda, cosa dolosa diffamazione di qualcuno o cosa semplice e lampante profitto.
Bastano i falsi indizi per depistare, bastano delle sollecitazioni emotive per scatenare il peggio. Allora si tratta di rallentare, di fermarsi, di pensare.
Eppure, ci dicono i bravi giornalisti, la prassi del buon giornalismo impone, come prima verifica, il contatto diretto: alza il telefono e chiama la persona interessata. Parlare. Ecco una via antica per superare il vizio del falso. Parlarsi.
Allora il teatro, quell’antico gioco in cui le persone si parlano, risuona come un motore di ricerca per delle verità. Non la Verità assoluta, per carità: non ci sono maiuscole, semmai dubbi, domande, dialoghi. Così, a teatro, ogni singolo spettatore ha il tempo per riflettere, analizzare, capire, magari indignarsi e rifiutare, però solo dopo aver dedicato la propria attenzione alla argomentazione altrui (in questo caso, quella che proviene dal palcoscenico).
Per questo suona ormai passatissimo il famoso manifesto con cui il regista tedesco Thomas Ostermeier si insediò alla direzione dello Schaübhüne di Berlino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso: parlava di teatro “accelerato”, di un teatro cioè che aveva ridotto al minimo tutti i suoi tempi – di allestimento, di fruizione, di visione, etc. (prospettiva che peraltro lo stesso Ostermeier, da ottimo regista qual è ha poi superato seguendo altre suggestioni).
E altrettanto sembrano passati quegli spettacoli che ancora si soffermano sulla “distrazione” del contemporaneo, come il recentissimo, premiato e applaudito, Overload della compagnia Teatro Sotterraneo. A parodiare il ritmo delle fake news, della fruizione superficiale e ultrarapida delle notizie, si rischia di far perdere al Teatro l’unica forza che ha. Quella di essere, ancora e sempre, in ritardo.