Vale la pena occuparsi della vicenda di Paolo Berdini, assessore. È una storia che ha a che fare con l’urbanistica, con la politica, con i modi in cui si interpreta la natura politica dell’urbanistica e si pensa di padroneggiarla. È istruttiva e divertente, funziona per il grande pubblico. Come nella migliore tradizione della commedia, fa riflettere senza essere pedante. Ha una morale, ma la devi capire da te. Certo, ci sono i pii, i bacchettoni (i teoreti e i preti, avrebbe aggiunto il poeta: avete presente Montanari?), che ne traggono un insegnamento; ma pure loro fanno parte del plot: la loro presenza è uno dei meccanismi classici della commedia, quello che, per contrasto, innesca l’ilarità.
La si può leggere da tanti punti di vista. C’è quello, preferito dai media tradizionali, dello scontro all’interno della giunta Raggi, o tra M5S e assessori “tecnici”. C’è quello, che ha una certa diffusione tra i social, che vi vede una contrapposizione tra “il partito del mattone” e quello della “lotta alla speculazione”, per cui il primo, a seguito delle inconsuete “dimissioni accolte con riserva” di Berdini poi divenute “irrevocabili”, non avrebbe ormai più freni all’interno della giunta Raggi (ma il M5S non è costitutivamente “contro il consumo di suolo”?). Di questo secondo punto di vista, la “variante urbanistica” (nel senso di interpretata dagli urbanisti più-a-sinistra-degli-altri) ripropone lo schema “piano contro rendita”, che narra della lotta archetipica da cui il primo esce sempre sconfitto.
Però, giorno dopo giorno, avendo letto avidamente post e articoli, interviste e commenti; avendo ascoltato con interesse antropologico audio “a sua insaputa”, nei quali commenti che si pretendevano salaci, perché avrebbero dovuto rimanere anonimi (licenziosi in quanto garantiti dall’anonimato), hanno acquistato, con l’autore in chiaro, un gusto da educande pettegole; avendo riconosciuto nella vicenda facce, temperamenti, tic (sono stati scritti sonetti e “pasquinate” sull’argomento), che ripercorrono stanchi clichés di una rappresentazione da avanspettacolo che sembra non passare mai, mi sono reso conto che qualcosa non tornava nella storia, che lo sceneggiatura non era delle migliori e la regia, incerta.
Due limiti mi sono apparsi chiari.
Il primo è relativo alla storia, che deve rassicurare gli spettatori, come in un cinepattone. Funziona nella misura in cui è sempre uguale a se stessa; per ottenere questo risultato, riduce i caratteri degli attori a caricature senza profondità. L’urbanista, ad esempio, è sempre sconfitto, perché la sconfitta è sinonimo di onestà; perdere è onorevole: l’urbanista che vince è sospetto, perché vorrà dire che avrà ceduto al negoziato, sarà stato incline al compromesso (che per i fanatici è la peggiore delle accuse). È uno schema trito ma sempre efficace, una specie di evergreen della categoria: quelli che non si piegano stanno sempre solidamente “dalla parte del torto”. L’episodio di cui stiamo parlando sarebbe l’ennesimo della saga, i cui tratti epici sono garantiti dal protagonista, che fa parte dell’album di famiglia dell’urbanistica senza compromessi, e dal luogo in cui si svolge, perché Roma è la culla della “planomachia” , il set per antonomasia dello scontro tra il “palazzinaro” e l’urbanista, l’O.K. Corral de noantri.
Il secondo limite è che ci sono dei buchi nel cast, mancano gli attori in grado di dare un senso allo sviluppo della storia, quelli cui di solito si affida il compito di spiegare il comportamento del protagonista, che ne rendono intellegibili le mosse.
Non intendo gli attori centrali della vicenda, quelli ci sono. L’assessore è il protagonista, buono e preparato e, in quanto tale, autodefinitosi “coglione”. La sindaca è irresoluta (o complice “dei poteri forti”?) ma, in quanto donna, le si può affidare il ruolo di femme fatale, tentatrice e sedotta; oppure, quello di una lady Macbeth della Borgata Ottavia, o ancora, non avendo lo spessore di una “Onorevole Angelina”, vederla ripiegata sul teatro di rivista, cercando di cavarsela sul palcoscenico (“facce la mossa!”). Il costruttore è rapace, il beniamino del pubblico è sempre il buono al di sopra delle parti (come Totti, che sollecita candidamente “famo ‘sto stadio”) e poi c’è il popolo, l’eterna plebe di Roma.
Tutti questi caratteri occupano abbondantemente la scena. Mi chiedo dove siano gli altri, quali siano i soggetti che il regista sceglie come interlocutori del protagonista, quelli che dovrebbero beneficiare dell’azione drammatica. Se i nemici sono chiari (i costruttori, i rentiers), chi sono gli amici? Suppongo che qui, interrogato da un giornalista “precario”, il protagonista risponderebbe che la sua azione è a difesa dell’interesse pubblico, ragione che per altro, ironicamente, è la stessa posta a base dell’approvazione del progetto (per “pubblico interesse”). Dunque, senza neanche scomodare la scuola di public choice, scopriamo che la nozione è vaga e il suo valore euristico spuntato, chiediamoci quali interessi concreti l’assessore intenda rappresentare. A quali gruppi, interessi diffusi, parti della società romana, si rivolge?
Il precedente assessore all’urbanistica Caudo ha scritto che la scelta a favore dello stadio, compiuta dall’Amministrazione Marino, si collocava dentro una prospettiva di modernizzazione del mercato urbano, perché avrebbe comportato uno scambio vantaggioso per il Comune (in opere e oneri). Per questa ragione, Caudo legge nell’operato di Berdini, più che insipienza, oggettiva connivenza con gli interessi che intendono impedire l’affermarsi di prassi favorevoli al pubblico nel rapporto con i promotori immobiliari.
La posizione di Caudo è sostenuta da evidenze e la sua interpretazione mi pare pertinente. Però, siccome io non sono informato come lui, scelgo un altro terreno. Sostengo che i limiti dell’azione di Berdini sono soprattutto culturali. La posizione che egli rappresenta (la pianificazione urbanistica è consustanziale all’interesse pubblico) comporta l’eliminazione degli attori dalla scena, perché essi renderebbero sfaccettato un gioco che è bene rimanga a due, l’eroe (l’urbanista) contro le forze del male. La rappresentazione semplificata del conflitto urbano (il piano vs la rendita) permette di reificare i soggetti: da un lato, il Comune (che deve essere per il piano e contro la rendita) e dall’altra la barbarie della rendita, che forse, nella visione riduzionista di Berdini, coincide con il mercato tout court. Nel suo mondo, il mercato urbano non è contemplato e dunque non ne esistono gli interpreti. Di fronte ad una smaccata banalizzazione, le analisi che furono di Valentino Parlato sul “blocco edilizio” risultano ancora oggi straordinariamente più articolate.
Il limite sta nel fatto che la sinistra romana (meglio, quegli esponenti o quei gruppi che si autodichiarano “di sinistra” a Roma) non è riuscita ad articolare una analisi dei poteri nella città più aggiornata di quelle degli anni Settanta. L’unico che mi sembra vi abbia tentato con coraggio e profondità di pensiero è Walter Tocci, ma non mi pare con grande ascolto.
Dunque, i comprimari, quei caratteri che hanno fatto grande la commedia all’italiana e che sono il sale di qualunque prodotto hollywoodiano ben riuscito, non ci sono perché, nello schema dualista del film cui stiamo assistendo, semplicemente non sono contemplati. Infatti, lo scontro è restituito in modo molto semplificato, da puro B-movie, essendo ingaggiato da forze sempre uguali a se stesse, in una narrazione che pensa di funzionare perché fondata sul canone de “i buoni contro i cattivi”.
Ma in assenza di attori, non ci sono le politiche. La scelta di non realizzare lo stadio (ma pure quella di realizzarlo, se sarà così) è un pezzo di una qualche agenda urbana? Che interpretazione dà, la giunta Raggi, dei temi dello sviluppo? E quelli dell’inclusione sociale? Se e in che modo ritiene praticabile la loro interazione?
Io penso che Roma sia oggi una città mortificata dall’incapacità di far emergere altre storie. Eppure, basterebbe dotarsi di un’altra cornice, scegliere un altro terreno, che non sia quello unitarista del conflitto piano-rendita, per cogliere una pluralità di pratiche, di innovazioni dal basso, che esprimono “segnali di futuro” e attendono (credo) un segnale da parte dell’Amministrazione. Ci sono persone valenti, che hanno progetti sofisticati. Gente che si dà da fare con competenza: riusano spazi dismessi, erogano servizi con la comunità, intraprendono, lavorano con i migranti, trasformano parti neglette della città in posti dove i turisti diventano abitanti, costituiscono ecomusei orientati al futuro senza nessun approccio nostalgico verso “il bel tempo andato quando eravamo una comunità”.
Abbiamo preso a chiamarli city makers. Questi attori scrivono per sé altri soggetti, preferiscono plot più complessi. Rifuggono dai generi, li mischiano, praticano il feuilleton e il circo, ma sanno anche allestire l’avanguardia. Sanno che la recita è un fatto corale: si può anche scrivere un monologo, ma dietro c’è un collettivo a sostenerlo. Per questo, penso guardino con sospetto allo schema “uno contro tutti”, perché sanno che nasconde la fregatura. Il pubblico per loro è l’insieme di quelli che si mobilitano: fanno teatro totale e pensano che tutti siamo “il pubblico”, non solo gli spettatori (che in tal caso chiamerebbero correttamente audience). Il pubblico è un nome, non un aggettivo da associare a qualche nome astratto (sia esso l’“interesse”, o il “bene”), come invece avviene nelle pratiche discorsive dei decisori pubblici o degli adepti del culto pubblico della soluzioni facili.
Frequentano i teatri off, ma a volte sollecitano le istituzioni. Auguro loro la fortuna che meritano, ma ci vogliono sceneggiatori acuti, registi di coraggio, tecnici della fotografia che li facciano emergere dal buio, montatori sperimentali, per allestire un set agli attori dell’innovazione e metterli in grado di recitare la loro parte.
PS: Al momento di chiudere questo contributo ho saputo che nella vicenda dello stadio è intervenuta la Sovrintendenza all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. In effetti, poteva mancare?