“Tijuana makes me happy” cantava Nortec nel 2005. Tijuana mi rende felice. Nortec, collettivo che combina musica elettronica e suoni della musica tipica norteña, é uno degli esempi di ibridazione culturale sorti in questa zona di frontiera. Nel 1991, nel suo celebre libro “Culturas Hibridas”, Nestor Garcia Canclini definiva Tijuana come “uno dei maggiori laboratori della post-modernità” (p. 293) come luogo di dinamiche socio-culturali complesse, multiculturali, ibride, transnazionali.
In seguito ammise di aver lasciato in ombra gli aspetti più conflittuali e problematici che fanno della città anche un “laboratorio della disintegrazione sociale e politica del Messico, conseguenza della sua ingovernabilitá intenzionale e reiterata”.
Tijuana era e rimane città di contrasti e contraddizioni, di clichés, come i burrocebra che si trovano nell’Avenida Revolución: muli pitturati come zebre e agghindati per attirare americani in città in cerca di divertimento e trasgressione. Americani che da alcuni anni in realtà arrivano col contagocce, da quando nel 2008 é scoppiata la violenza dei ‘narcos’. In questo senso Tijuana é oggi più messicana, e il suo fermento culturale, artistico e gastronomico é tutto locale, anche se in chiave fortemente hypster.
Vivere nel(la) frontiera é un’esperienza particolare perché è qui che più che in qualsiasi altro luogo si fanno concrete le sfide pressanti che la globalizzazione pone ai territori. Il periodo trascorso come ricercatrice e docente invitata presso il Colegio de la Frontera Norte di Tijuana mi ha permesso di riflettere sul ruolo che l’accademia può giocare in queste dinamiche.
Il Colef è un istituto di ricerca di eccellenza che dal 1982 studia i fenomeni regionali della frontiera Messico-Stati Uniti in una prospettiva multidisciplinare. È un’istituzione fortemente connessa al territorio, che ha 8 sedi dislocate lungo il confine fra il Messico e gli Stati Uniti. Una fetta importante del lavoro di ricerca riguarda il tema delle migrazioni e della mobilità umana in senso ampio, nelle sue accezioni politiche, sociali, culturali ed economiche.
Quella di Tijuana non é una frontiera qualsiasi: migranti, studenti, lavoratori, consumatori transfrontalieri, la rendono la più attraversata al mondo, con una media di 40.000 veicoli e 20.000 pedoni che l’attraversano quotidianamente. Una mobilità umana profondamente disuguale: al posto di frontiera ci si colloca in file differenti a seconda del visto o permesso che si possiede. E poi, ovvio, ci sono tutti quelli a cui el cruce é precluso.
Come dire, Tijuana rende felici molti, ma non tutti. Metà degli abitanti della città non possono cruzar la linea, perché privi di visto, e negli interstizi urbani si concentrano molti dei migranti, messicani e centro americani, che sono stati deportati dalle autorità nordamericane. Molti rimangono qui con la speranza di passare di nuovo all’altro lato e il più delle volte perché la loro famiglia é rimasta negli USA. Famiglie spezzate, divise da quel muro che corre per centinaia di chilometri e si tuffa nell’Oceano: così iconico, affascinante quanto drammatico. Perché il muro che Trump minaccia(va) di costruire c’è già, almeno per 1100 km, e per la maggior parte é fatto di lamiere recuperate dalla guerra del Golfo, costruito nel 1993 dal governo Clinton.
Da qualche mese Tijuana e altre città in questa regione vivono un fenomeno migratorio intenso e inaspettato che mi ha permesso di mettere in luce il ruolo che un istituto di ricerca può giocare in queste complesse dinamiche di frontiera. A partire dall’estate 2016 e nel giro di poche settimane alcune migliaia di Haitiani (ma anche di persone provenienti da alcuni paesi africani) hanno raggiunto Tijuana per cercare di entrare negli USA. Si stima che solo da ottobre ne siano arrivati più di 5000.
La maggior parte di loro proviene dal Brasile dove avevano trovato rifugio e lavoro in seguito al devastante terremoto del 2010 (quasi 50000 haitiani hanno ricevuto un visto umanitario per vivere e lavorare legalmente in Brasile). Ora stanno lasciando il Brasile perché non c’è più lavoro, la sbornia dei mondiali di calcio e delle olimpiadi é ormai finita e la crisi é pesante. Così attraversano via terra l’America Latina con la speranza di riuscire ad entrare negli USA. Le autorità statunitensi in via eccezionale stavano concedendo loro un permesso per restare, anche se il TPS, (Temporary Permit Status) che fu concesso dopo il terremoto, non é più applicabile. Questo fino al 22 settembre, quando il rubinetto é stato chiuso e le persone sono state messe in detenzione in attesa di essere deportate (se non in possesso dei requisiti per il riconoscimento dell’asilo).
Tijuana (ma anche altre città di frontiera come Mexicali) é diventata all’improvviso il porto di arrivo di persone afro discendenti o africane la cui presenza non era comune da queste parti. Le strutture di accoglienza della città si sono mobilitate per accoglierli, ma si sono ben presto saturate; si è così delineata una emergenza, che, come spesso accade in questi casi, è in realtà più politica che umanitaria. Sebbene non siano persone arrivate in condizioni di miseria, la loro situazione si è velocemente aggravata a causa della permanenza forzata a Tijuana. Ciò come conseguenza degli accordi presi dalle autorità statunitensi e messicane in base ai quali i migranti vengono fatti entrare a piccoli gruppi, massimo 80 persone al giorno (si tratta di accordi contrari al diritto sulla protezione internazionale, giustificati in base a discutibili motivi organizzativi).
Il peso della gestione di questa presenza é così ricaduto sulle organizzazioni non governative e soprattutto religiose, con il governo per lo più latitante. Va da sé che per le autorità statunitensi non è un problema che ci siano migranti che dormono per strada a Tijuana, ma lo sarebbe eccome se ciò avvenisse a San Diego.
Una volta che la situazione che si stava delineando in città si é resa evidente, dal Colef in breve si sono messi in campo progetti di ricerca che combinano le finalità di conoscenza con l’aiuto diretto e immediato ai migranti e alle organizzazioni che le sostengono. Uno dei progetti ambisce a costruire un archivio orale raccogliendo testimonianze dei migranti Haitiani: un folto gruppo di studenti e ricercatori si reca settimanalmente nei luoghi di accoglienza per aiutare, dare supporto e raccogliere testimonianze dei migranti, per lo più fortemente frustrati dalla situazione che stanno vivendo e dalla inaspettata attenzione che hanno ricevuto dai media nazionali e non solo. Alcuni primi resoconti di questo lavoro di campo si possono leggere qui.
Un altro esempio del ruolo che questa istituzione si impegna a svolgere con e per il territorio lo offre un incontro organizzato il 28 ottobre dall’Osservatorio di Legislazione e Politica Migratoria del Colef: un dialogo bi-nazionale sul tema del controllo delle frontiere e dei diritti umani dei e delle migranti, con la partecipazione di avvocati, attivisti, istituzioni, associazioni ricercatori dai due lati della frontiera.
È stato uno di quei momenti magici in cui l’università si trasforma in un’arena di dibattito, un dibattito concreto, anche aspro nel suo intercedere, però fondamentale, che restituisce fiducia nel ruolo che l’università può giocare. La vicenda degli haitiani é stata trattata in dettaglio, anche per mettere in luce come questa situazione e la sua gestione stiano pregiudicando la possibilità che altri gruppi, messicani e centroamericani, possano avanzare le loro richieste di asilo e vedere tutelati i loro diritti.
Tutto ciò che il Colef produce viene diffuso in maniera capillare attraverso vari canali: quasi tutti gli eventi sono trasmessi in diretta sul canale ufficiale Youtube per la fruizione di un pubblico ampio, accademico o meno. Non solo migrazioni, ma tutto ciò che riguarda questa regione e la frontiera, incluse le dinamiche socio-culturali citate nell’introduzione e il tema della violenza che tristemente torna a riempire i giornali ormai da alcuni mesi, sono oggetto di ricerca e di dibattito: una connessione forte e a tutto tondo con il territorio.
Esempi come quello del Colef mostrano come sia importante che le istituzioni accademiche mantengano un attenzione focalizzata, non sporadica, su luoghi strategici come le frontiere e sulle sfide globali che qui si palesano con forza. Esperienze come quelle descritte stimolano a pensare nuove forme di fare ricerca, più radicate, coinvolte socialmente e compromesse politicamente.
In altre parole, uscire dalla torre d’avorio, o se vogliamo, tenere fede alla terza missione dell’università, è possibile. In Italia molto si è mosso in questi anni, in particolare nell’ambito dell’innovazione sociale e culturale. Esempi dal mondo, come quello illustrato in questo pezzo, offrono spunti rilevanti e un modello a cui aspirare in questo senso.