Valore intrinseco e valore strumentale dell’arte e della cultura: dialogo con Bertram Niessen e Daniele Gasparinetti
Se dobbiamo pensare al più grande timore che abbiamo avuto – e che continuiamo ad avere – nel condurre progetti di pianificazione e valutazione d’impatto nel mondo dell’arte e della cultura, potremmo riassumere così: ingabbiare l’arte e la cultura come strumento di qualcosa. L’arte che serve a qualcosa. E, di conseguenza, l’arte finanziata proprio perché serve a qualcosa. E che viene valutata se ottiene un determinato risultato. La dialettica tra arte come strumento e arte per l’arte non è certo una novità. Potrebbe anzi sembrare paradossale porsi il tema dentro un approccio (la pianificazione e valutazione d’impatto) che, alla luce di un cambiamento desiderabile, cerca di trovare strumenti di valutazione per capire se si sta andando nella direzione sperata.
Quale può dunque essere lo spazio del cosiddetto valore intrinseco (all’interno di una dicotomia imperfetta che vede il valore strumentale nell’altra polarità) dell’arte e della cultura nella pianificazione e valutazione d’impatto? Ne abbiamo parlato con due addetti ai lavori, in questo terzo e ultimo dialogo in cui affrontiamo alcune posture che il nostro approccio all’impatto dell’arte e della cultura ha preso in questi anni di lavoro. Nel primo dialogo, con il semiotico Francesco Marsciani, abbiamo affrontato e problematizzato la parola valutazione. L’abbiamo calata nelle politiche pubbliche e nello sguardo del policy maker, grazie al confronto con l’economista della cultura Paola Dubini. In entrambi gli scambi, ciò che ci è rimasto di più prezioso in mano è il luccichio dell’inatteso, dell’imponderabile, dell’imprevedibile in un percorso di cambiamento intenzionale.
Ci sembra oltremodo interessante ripartire da qui anche con Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare e membro del comitato scientifico del percorso di pianificazione e valutazione d’impatto che abbiamo condotto per il Settore cultura del Comune di Bologna; e con Daniele Gasparinetti, art director e situation maker di Xing, organizzazione che si occupa da venticinque anni di arti performative, mutando di continuo struttura, forme, modalità di avvicinamento e frequentazione alle proprie produzioni.
Abbiamo capito che valutare significa comprendere un sistema di differenze in cui far emergere figure dallo sfondo, ma anche in cui le figure che emergono possono anche avere forme inedite e soprattutto avere una permanenza, uno “stare” che anche dal punto di vista temporale può non essere prevedibile. Abbiamo capito che servono “caselle vuote”, cioè spazi di agio lasciati all’imponderabile. Ci chiediamo però: in una prospettiva ideale, in cui non si rendiconta ma si valuta, cioè si cerca di capire e non di giustificarsi, quali apprendimenti occorsi negli ultimi tempi hanno fatto la differenza?
BN: «Credo ci siano due tensioni, quando ci si occupa di cultura. Da una parte c’è l’attività costante di cesellatura: si ha una traiettoria e di conseguenza lavoro continuo di affinamento. Un procedere asintotico a partire da una o più domande. Questa è una dimensione costitutiva e propria della produzione culturale: i dettagli, che in altri processi produttivi non possono essere centrali, perché costosi – costituiscono la base stessa della costruzione estetica. Dall’altra parte c’è una tensione relativa a ricerca, sperimentazione, apprendimento: porta in tantissime direzioni diverse, facendo anche degli errori che sono programmatici. L’errore, in questa tensione, è unelemento costitutivo, laddove la sperimentazione si porta dietro inevitabilmente questi “costi”. Il tema quindi è che quando si guarda agli aspetti più sperimentali, ciò che si costruisce è un impianto che possa permettere il lusso di fare spreco, “dispendio improduttivo”. La razionalità economica classica non può prevedere il dispendio improduttivo; la cultura, invece, sì.
DG: «Io preferisco parlare di arte e non di cultura. L’arte fondamentalmente è inutile, tutta sbilanciata sul polo che in termini valoriali abbiamo definito intrinseco. Il processo curatoriale lavora in continuazione sullo staccare una figura dello sfondo, dove lo sfondo è un costante appiattimento, e l’emergere è singolarità. Ogni scelta è regolata da un’intuizione e da un potenziale (singolarità). Il ruolo curatoriale è accudire il processo e portarlo a una forma di manifestazione migliore possibile rispetto al suo potenziale. Inoltre, impariamo di più dalle situazioni negative. Pensiamo alla riflessione sulla chiusura degli spazi pubblici, soprattutto a partire dal covid. A quanto sia necessario oggi costruire tutta un’altra economia dell’attenzione, che punta sullo stupore e sulla meraviglia».
A questo proposito, una figura che ultimamente seguiamo molto, Yves Citton, ha scritto un libro bellissimo intitolato Pour une écologie de l’attention, dove parla proprio dall’economia dell’attenzione e da un’argomentazione molto lineare: viviamo in un sistema economico in cui cediamo la nostra attenzione in cambio di servizi gratuiti e in cui chi ci dà questi servizi rivende a caro prezzo la nostra attenzione. Un modello economico in cui, per riassumere, la merce più preziosa è la nostra attenzione e dunque essa deve essere massimizzata attraverso un lavoro di omologazione e standardizzazione sistematico: YouTube non mi proporrà mai l’inatteso, perché rischia di perdere la mia attenzione.
In questo quadro, a proposito di dispendio improduttivo, a partire proprio da Il limite dell’utile di Bataille, ci sembra di poter dire una cosa: oggi ci sembra che ci sia stato un appiattimento del significato di inutile e improduttivo. Ciò che non produce, è inutile. Il contrario del lavoro di accudimento di cui si parlava prima. Come possiamo, invece, difendere l’utilità dell’improduttivo?
BN: «L’inquadramento della produzione artistica che ci ha fatto Daniele prima è un ottimo punto di partenza. Poi, sempre come si diceva: la cultura è una cosa infinitamente ampia. Pensiamo alla definizione di “settore culturale” della Comunità Europea: tutto il frame delle ICC, iniziato in UK negli anni novanta, ha portato al problema dell’iper-economicizzazione, dove il non produttivo viene strutturalmente scartato. Pensiamo anche a un’altra cosa: il nostro Paese investe in cultura la metà di altri Paesi a noi vicini. E dobbiamo fare con ciò che abbiamo. L’impatto può essere uno strumento politico solo se viene maneggiato da persone che hanno fortissima consapevolezza della dimensione estetica, politica e artistica che gestiscono. E mai come oggi, a proposito di economia dell’attenzione (si veda anche il libro recente di Tiziano Bonini) abbiamo bisogno di ri-soggettivarci, di creare spazi di autonomia dell’attenzione».
DG: «Una prima specifica. Il mondo del dispendio improduttivo produce, ma non profittabilità. È questa la discriminante. Tornando a quanto diceva Bertram, c’è anche il tema della burocratizzazione del sistema culturale: una sindrome sottile, che avviene nei percorsi di studio ma anche nella gestione delle carriere. Anche questo produce omologazione, appiattimento di contenuti e di capacità inventive. Un pensatore contemporaneo viene riconosciuto se riesce a inventare uno hashtag.
Per quello che riguarda la ragione non economica, dal punto di vista filologico del pensiero greco la parola che corrisponde al bello (kalòs) era intesa come quella cosa che non è ripartibile perché inesauribile. Quando accedi a un’esperienza estetica, essa non si consuma».
BN: «Il problema è anche che, incontestabilmente, la cornice estetica e ideologica (e politica) in cui sono state prodotte le politiche culturali di oggi romanda a un’idea molto chiara di cosa sia la cultura, ossia oggetto da esposizione. Se andiamo a vedere come vengono costruiti i sistemi di indicatori per politiche, c’è sempre l’idea di “centro tavola”: qualcosa di inoffensivo, che sta in mezzo a una discussione garbata, un pretesto. E che – al limite – può essere valorizzato dal punto di vista economico. C’è bisogno di costruire un discorso pubblico che ha a che fare con la relazione tra la cultura e l’emancipazione individuale e collettiva».
DG: «Hegel diceva che l’arte è morta, perché ha a che fare con il sacro, che oggi è morto, nel contesto borghese. Storicamente, l’arte è stata utilizzata nelle culture tradizionali come cura. Per questo, abbiamo smesso di organizzare festival e abbiamo deciso di organizzare feste. Poi, c’è un senso di catastrofe, di fine, dove le nuove generazioni sono completamente immerse. Se n’era accorto anche Ernesto De Martino, già in La fine del mondo. Abbiamo bisogno di forme artistiche e culturali di cura (iniziatiche, rituali?), che abbiano come effetto la trasformazione percettiva della posizione dell’individuo nel mondo. E che, come in tutte le cure, abbiano un effetto trasformativo».
Correvano i primi giorni 2020 quando iniziava un percorso che poi sarebbe durato almeno un paio d’anni, ma forse, con il senno di poi, non si è mai interrotto davvero. Stavamo iniziando un complesso progetto di pianificazione e valutazione d’impatto delle politiche culturali del Settore Cultura del Comune di Bologna, allora (e anche oggi) unica amministrazione ad aver usato la metodologia dell’impatto in direzione strategica partendo dalla cultura e dal suo specifico. Si possono vedere gli esiti di quel progetto qui.
Ma, anche, come ne sono germinate altre occasioni progettuali. Quella analoga che ha portato alla definizione della Teoria del cambiamento del Settore biblioteche, sempre del Comune di Bologna. Di nuovo, prima e oggi unico sistema bibliotecario che se n’è dotato. Proprio in questi giorni ha visto la luce uno degli esiti, il questionario qualitativo distribuito nelle biblioteche comunali della città; poco meno di un anno fa presentavamo invece un’indagine sulla lettura molto speciale, nata in seno a quel progetto e grazie alla definizione di un impatto intenzionale del Settore.
O quella con l’Ufficio politiche giovanili della Provincia autonoma di Bolzano e Alto Adige.
Con le amiche e gli amici di cheFare si è pensato, già da tempo, di provare a tener traccia di alcuni apprendimenti che abbiamo maturato con queste esperienze. Abbiamo deciso di farlo in maniera non troppo lineare e convenzionale: attraverso alcuni dialoghi, da un lato, e attorno ad alcune parole chiave, dall’altro.
Ne sono nate alcune conversazioni (frutto delle riflessioni fatte da Gaspare Caliri insieme a Francesca Calzolari, Cecilia Colombo, Anna Romani). Con il semiologo Francesco Marsciani abbiamo affrontato la parola valutazione. Con l’economista della cultura Paola Dubini (che ha condiviso con noi il percorso con il Settore cultura del Comune di Bologna, all’interno del Comitato Scientifico di progetto) abbiamo dialogato attorno alla relazione tra la parola impatto e la parola cultura. Con Bertram Niessen (direttore scientifico di cheFare e, anche lui, membro del Comitato Scientifico del percorso con il Settore cultura del Comune di Bologna) e Daniele Gasparinetti (di Xing) abbiamo invece discusso attorno ai concetti di valore intrinseco e strumentale della cultura. Ognuna di queste conversazioni (più un piccolo bilancio conclusivo) è diventato un articolo. Insieme compongono una piccola rassegna qui su cheFare, che sarà pubblicato nelle prossime settimane. Sapendo che, come si dice in questi casi, ci sono punti fermi ma anche punti di domanda ancora aperti.
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