A settembre faremo i conti con il disincanto. L’innovazione culturale e sociale sta segnando il passo?
Sarà che il tempo passa, sia per me che per le organizzazioni che mi capita più spesso di incontrare, ma nel grande e variegato “campo del sociale”, monopolizzato dal terzo settore e arricchito da un sottobosco sempre più folto di altri attori che emergono dall’informale ma che scaturiscono anche dalla sfera pubblica e dall’economia capitalistica, mi sembra di notare un crescente disincanto rispetto all’innovazione e alla dimensione più radicale del cambiamento. È una situazione un po’ paradossale perché invece la narrazione dominante, non a caso spesso sostenuta da soggetti periferici o esterni, spinge molto sulla capacità di questi attori di contribuire a cambiamenti strutturali, sistemici, profondi. Io stesso, è giusto ammetterlo, contribuisco a questa narrazione che effettivamente funziona in contesti “engagé” dove pullulano innovatori e change-maker seriali spalleggiati da ecosistemi a trazione filantropico-finanziaria e attrezzati con infrastrutture di accompagnamento riviste e corrette in chiave impact e che i “disincantati” di cui sopra si trovano, a volte ob torto collo, a frequentare.
Non ho cambiato idea rispetto a questo movimento. Anzi penso vada ulteriormente rafforzato e, per certi versi, controbilanciato ri-portando dentro anche quella componente disincatata che, tanto per essere chiari, è composta in gran parte di organizzazioni di terzo settore, di medie dimensioni, di natura imprenditoriale e di solito aggregate in reti locali e nazionali. Sì proprio lei, quella che fino a qualche anno fa era l’avanguardia che dettava l’agenda dell’innovazione sociale. Che cosa è successo verrebbe da chiedersi? Quali sono stati i mutamenti di scenario che hanno contribuito a spiazzare, almeno in parte, un segmento di soggettività “terze” proprio nel momento in cui cercava di fare scaling rispetto al duopolio Stato-mercato nell’infrastrutturare la società? E quali sono i principali “limiti dello sviluppo” interni emersi lungo una parabola evolutiva ormai pluridecennale che pur non essendo “in recessione” lancia ormai da qualche tempo più di un segnale di perdita di vitalità?
Rispondere non è facile, e personalmente è anche un po’ doloroso, per cui preferisco farlo attraverso un elenco parziale e disordinato che va dalla sottovalutazione dell’impatto dell’innovazione tecnologica in alcuni importanti ambiti d’intervento (il welfare su tutti) all’appiattimento delle reti sociali sugli schemi tradizionali della rappresentanza d’interessi, passando per modelli di organizzazione delle attività che hanno via via ridimensionato apporti di coproduzione non riconducibili allo schema produzione – consumo e per approcci all’innovazione istituzionale basati più sulla compliance rispetto all’esistente (vedi riforma del terzo settore) piuttosto che sulla forzatura e dilatazione dei modelli. Per non parlare poi di una narrazione interna focalizzata soprattutto su elementi identitari che appare ormai esausta dopo aver contribuito soprattutto nella fase istituente del settore che si sta portando a compimento all’interno però di un contesto sociale nel frattempo radicalmente mutato.
Una parabola evolutiva ormai pluridecennale che pur non essendo “in recessione” lancia ormai da qualche tempo più di un segnale di perdita di vitalità
Ma al di là dell’elenco dei limiti è forse più importante capire se è possibile recuperare capacità di proposta anche in un contesto caratterizzato da una generatività decrescente. Trovare cioè nelle ragioni di questo progressivo disincanto verso tutto quello che “taggato” come innovazione e cambiamento un elemento che risulta particolarmente cruciale in questa fase ovvero la “messa a terra” di molte istanze allo stato di advocacy e di altrettante progettualità in forma di prototipi. Tutto ciò a fronte di una domanda di cambiamento che da aspirazione rischia di trasformarsi in sindrome. Perché da una parte sembra davvero arduo riuscire a incidere su cambiamenti sistemici e di medio / lungo periodo come dimostrano, ad esempio, le consistenti fatiche nel realizzare gli obiettivi dell’Agenda 2030. Mentre dall’altra il florilegio di innovazioni dal basso degli ultimi anni tende progressivamente a sfuggire a quell’approccio legato alla nuova normalità del quotidiano che ben si presta ad essere “contrattualizzata” attraverso patti e accordi tra cittadinanza e istituzioni per manifestarsi invece attraverso eventi dove il carattere di rottura deriva non tanto da deficit di misurazione ma da limiti di consapevolezza rispetto alla magnitudine dei problemi da affrontare. Si tratta infatti di un’energia che scaturisce da bisogni sempre più estremi perché caratterizzati da simultanee esigenze di sopravvivenza e di auto realizzazione e da capacità interpretative e di azione rispetto non solo a quel che sta succedendo ma a quel che si vuol far succedere che se non viene sbloccata e accompagnata al di fuori di contesti “da club” rischia di spazzar via l’infrastruttura di innovazione sociale costruita negli ultimi anni. Altro che impatto sociale, sarebbe piuttosto una disruption cieca che potrebbe assumere la veste di un “ritorno all’ordine” magari rappresentato da una combinazione mortifera tra “realismo capitalista” e leviatano tecnocratico rispetto alla quale altro non resterebbe da fare se non riconsegnare in via definitiva le chiavi dei sistemi sociali da parte dei soggetti comunitari.
Il disincanto cosa ci insegna quindi guardando alla sua origine e al suo progressivo diffondersi? E in particolare come può essere utile per inaugurare una stagione di innovazione sociale che possa trovare la sua effettiva realizzazione attraverso una più marcata dimensione di execution?
Come inaugurare una stagione di innovazione sociale che possa trovare la sua realizzazione con una più marcata dimensione di execution?
Ecco alcune possibili declinazioni di un “cambiamento per disincantati”. Una prima modalità riguarda la rilevanza assegnata alla gerarchia anche all’interno di sistemi di governance aperti e cooperativi al fine di meglio definire gli elementi di investimento e i ritorni attesi. Un orientamento ben visibile guardando alla progressiva diffusione di imprese sociali costituite in veste di società di capitali dove l’assunzione di rischio è commisurata a quote di potere (e di responsabilità) rese più esplicite. Una seconda declinazione consiste nella capacità costruire e intermediare sistemi di offerta di beni e di servizi nei quali prevale la componente di scambio di mercato (da qualificare e rendere accessibile) rispetto al meccanismo di abilitazione alla condivisione e al prosuming tipico delle piattaforme. Le infrastrutture phygital di welfare sono, da questo punto di vista, un fenomeno da tenere sotto osservazione perché pur non essendo così “cool” rispetto all’advocacy del platform cooperativism rappresentano un tentativo pragmatico di riappropriarsi di uno dei principali mezzi di produzione del capitalismo digitale da parte dell’imprenditoria sociale. Infine una terza leva è quella della con-correnza tra proposte di intervento e visioni di società che potrebbe rappresentare un antidoto rispetto a un’impostazione della coprogettazione multi-attoriale tra attori sociali ed enti pubblici basata sul mero coordinamento dell’esistente e sulla suddivisione di risorse predefinite che ha molto di procedurale e ben poco di innovativo.
In sintesi una visione disincantata dell’innovazione passa attraverso la capacità di inoculare il giusto dosaggio di elementi di gerarchia, mercato e concorrenza che forse sono stati troppo sbrigativamente espulsi dal campo del sociale come reazione alla loro esasperata declinazione neoliberista. Eppure se si vuole favorire una nuova convergenza tra sociale ed economico per ridefinirne in modo realistisco i tratti “fondamentali” del contratto sociale è pressoché inevitabile confrontarsi con una nuova declinazione e narrazione anche di questi attributi che, nel bene e nel male, hanno esercitato un importante ruolo come driver dello sviluppo.
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