Rivoltare Napoli: Arrevuoto è teatro, adolescenza, rischio e sperimentazione

Napoli è una città impossibile. Impossibile da vivere, dice chi ci campa, e spesso a ragione. Impossibile da raccontare, anche e soprattutto per chi (come me) la guarda ormai dall’esterno, dalla posizione tutt’altro che privilegiata dell’emigrante. Anima da Capitale e stracci da slum; paradiso abitato da diavoli secondo l’ormai abusato paradosso, ma a volte inferno abitato da angeli, che sopportano tutto, santa pazienza.

È proprio in questo magma rovente e indistinto, che ogni tanto spuntano qua e là isole di senso, che provano a connettere e a connettersi. A Napoli fare qualcosa di sensato è impossibile, e quindi doveroso. Qualche tempo fa su queste pagine abbiamo parlato dell’ex Asilo Filangieri. Stavolta tocca ad Arrevuoto: che è teatro, è periferia, è creatività, è adolescenza, è connessione, è rom, è sperimentazione, è rischio.

Arrevuoto è un progetto teatrale-pedagogico di attivazione sociale dal basso. È nato a Napoli ormai 14 anni fa, nel 2005, con il supporto del Mercadante, il Teatro Stabile di Napoli, e qualche anno dopo si è costituito in Associazione Culturale. Il punto di partenza è stato Scampia, il famigerato quartiere delle Vele e della criminalità, la terra di nessuno, la periferia oltre la periferia.

Un posto impossibile, appunto. E in un momento impossibile: erano infatti quelli gli anni di una ferocissima guerra di camorra.

Il gruppo di giornalisti e intellettuali della rivista Lo straniero, quella di Goffredo Fofi, aveva pubblicato un libro inchiesta, Napoli comincia a Scampia (L’Ancora del Mediterraneo). Il libro viene notato da Roberta Carlotto del Teatro Mercadante, che si arrovella sul modo di far entrare in contatto queste realtà a compartimenti stagni: il centro con la periferia, il teatro con il disagio, l’istituzione pubblica con il territorio di Gomorra.

Con Fofi si pensa di partire da una realtà già consolidata, quella del Teatro delle Albe di Ravenna con la sua esperienza di non-scuola, e così viene coinvolto Marco Martinelli, che ricorda quando “scendevamo tutte le settimane in treno”, cominciando a esplorare il territorio. Allacciando contatti con le persone già coinvolte nel libro, ma coinvolgendo e facendosi aiutare da realtà già avviate da anni, come Chi rom… e chi no, che letteralmente metteva già insieme ragazzi della comunità rom di Scampia con altri del luogo.

Arrevotare significa letteralmente rivoltare, mettere sottosopra, ma anche fare un gran casino, scardinare i punti fermi e le riposanti convinzioni preconcette: mettere sotto il sopra, e viceversa. Rivoluzionario Arrevuoto appare da subito, e non solo perché prova a fare quel teatro proletario dei bambini che diceva Walter Benjamin: agli antipodi, come ricorda Fofi, di quell’esibizionismo da baraccone delle trasmissioni TV dove piccoli fenomeni si esibiscono per il godimento esclusivo degli adulti. Ma anche per una serie di altri motivi, di modalità: il coinvolgimento, sempre difficile, dei ragazzi di strada non è fatto calando dall’alto una carità, una pietosa concessione di cultura; e questo espone al rischio del rifiuto, ma superato questo l’adesione è sincera.

Da subito, le intenzioni sono limpide, come si vede leggendo il primo comunicato stampa del 2005: “Sia chiaro che fare teatro a Scampia non è atto di beneficenza, nulla ha a che vedere con le risistematine di coscienza o gli investimenti spirituali. Saremmo ingiusti verso quegli abitanti se presupponessimo di piantare un po’ le tende e portare un pizzico di cultura e un mannello di buone intenzioni (…) Ci auspichiamo imprevisti”.

E da subito, Arrevuoto non ha coinvolto solo scuola e quartieri di Scampia, ma anche ragazzi e istituti del centro, per esempio il rinomato liceo classico Genovesi. Ma abbattere i muri non vuol dire rimanere schiacciati dalle macerie che cadono, per cui all’inizio il lavoro viene sempre fatto in laboratori separati. E miracolo, si trova subito anche un posto: l’Auditorium di Scampia, una delle tante opere inconcluse che affliggono in particolare il sud, il quale per l’occasione viene aperto e trova una sua funzione.

Ma cosa fa Arrevuoto? In sostanza, produce uno spettacolo all’anno – ogni anno un Movimento – partendo da un testo classico (Aristofane, Jarry, Molière…) e attualizzandolo durante e tramite i laboratori. Dopo i 3 anni sotto la supervisione di Martinelli, sono state formate delle guide locali, che oggi agiscono con il coordinamento di Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore (da Gomorra a Martin Eden di Pietro Marcello).

Uno strumento veramente rivoluzionario e innovativo è l’uso del dialetto: perché se è vero che, come diceva don Milani, le parole sono potere e solo appropriandosi di forme adeguate di comunicazione le classi subalterne possono spezzare certe catene, d’altra parte la lingua del popolo, a Napoli in particolare, è identità, radice, casa. E quindi intervenire imponendo un linguaggio artificioso renderebbe artificiosa tutta l’operazione, e insensata.

Scrive sempre Martinelli: “Sono venuto nella terra di un mio mito fondatore: Totò. E ritrovarlo non nelle imitazioni maldestre (impossibile imitarlo, il Principe). Ma nei gesti e nei tempi comici dei ragazzini di Scampia, apparentemente “naturali”. Di cosa stiamo parlando? Di un dna teatrale. Una discendenza d’attore innervata in un popolo, di una “sapienza” che a sua volta Totò aveva ereditato dai vicoli? È un mistero legato al mestiere”. Mentre, a proposito degli incomprensibili ragazzi di periferia, e del necessario lavoro maieutico che fa il teatro: “Le ultime acquisizioni, presenti nei gesti e nelle improvvisazioni degli adolescenti napoletani (i discorsi e gli atteggiamenti ascoltati e visti alla televisione, i reality, i versi dei neo-melodici) sono la superficie: sotto, in un infero antico, vivono ancora, e si manifestano, le posture e le voci delle maschere di un sottoproletariato eterno.

Fame, guerra, amore, morte. Miope pensare che Pulcinella sia scomparso: si è solo trasformato. Non è la statuetta innocua delle bancarelle per i turisti. È un demone che ci parla ancora, dal sottosuolo delle periferie”.

Il 15esimo movimento, cioè lo spettacolo a cui stanno lavorando adesso, già programmato per il 23 e 24 maggio 2020 al Teatro San Ferdinando, è La pazza dei Decumani, adattamento de La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux, una commedia satirica del 1945 che mette al centro il tema dell’ambiente e della salvaguardia della natura dalle speculazioni finanziarie e dalle tendenze autodistruttive. Attualità strettissima quindi, come sempre.

Per capire un po’ meglio il funzionamento, l’evoluzione degli ultimi anni e le prospettive di questo progetto, ho sentito Maurizio Braucci, lo scrittore napoletano dietro ad alcune delle cose più interessanti che sono state fatte attorno alla città (oltre ai film citati sopra, per esempio Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara, o La paranza dei bambini, con Saviano e il regista Giovannesi). E direttore artistico di Arrevuoto. Che ha, come ennesima caratteristica rivoluzionaria e in controtendenza, la parola collettività.

Numerosissimi, dai 150 ai 200, sono i ragazzi coinvolti di anno in anno. E collettiva è la regia, affidata a 12 persone, 10 teatrali e 2 musicali. “Scommettiamo sul fare insieme”, dice Braucci, “impostiamo tutto sull’insegnare in lavoro di gruppo, e quindi sarebbe assurdo non metterlo in pratica noi per primi. Io scherzando ma non troppo dico sempre che questo è un progetto di recupero per teatranti, oltre che per ragazzi”.

Sulla sostenibilità economica, che è aspetto da non dimenticare, Arrevuoto è finanziato prevalentemente dal Mercadante, con un piccolo contributo da parte della Chiesa Luterana, mentre la partecipazione per le scuole è totalmente gratuita. Il gruppo di lavoro fisso, una ventina di persone tra registi, tecnici e amministrativi, lavora per una paga minima, e il budget del progetto è di 80mila euro all’anno: certo più di quelli che richiede un classico progettino teatrale in una scuola, ma che rispetto all’impatto sociale e personale di Arrevuoto sembra una cifra ridicola.

Il rapporto con le istituzioni invece è un po’ così: “All’inizio abbiamo avuto grandi riscontri, è venuto il presidente della Repubblica, Dario Fo… Ma se dovessi dire che attualmente Comune e Regione colgono il valore di questa operazione di formazione giovanile che va dai campi rom a Posillipo, e ci sostiene, ecco questo non posso dirlo. Dispiace, ma fino a un certo punto: siamo anarchici, liberi e orgogliosi di esserlo”. Questa mancanza di riscontro ha portato anche a dei passi indietro, come la perdita dello spazio dell’Auditorium, che “è stato prima intitolato a De André e poi sottratto dalla municipalità”, racconta Braucci. Un peccato perché quel posto era nato morto e poi aveva trovato un senso proprio con Arrevuoto, che ci faceva le prove oltre che lo spettacolo finale.

Al di la di questo piccolo/non piccolo particolare, Arrevuoto è animato sempre dallo stesso spirito, e anzi costruisce cose nuove.

Il metodo dei laboratori separati (“tante piccole tribù”, dice il direttore) che poi piano piano convergono. Il successo di massa con richieste di partecipazione che arrivano da tutta la città – educatori, professori – l’entusiasmo di quelli che hanno concluso il percorso e vogliono ripeterlo, la voglia di farsi avanti dei nuovi: “Potremmo fare 4 o 5 arrevuoti, se guardassimo solo ai numeri”. Quindici anni dopo, si può già provare a storicizzare un minimo l’esperienza, e quello che ha comportato nella vita delle singole persone. Voglio dire, il 15enne che ha partecipato al primo movimento, nel 2005, ora va per i trenta: che effetto ha avuto questo nella sua storia?

Lo chiedo a Maurizio Braucci, che mi risponde: “A volte dirompente: alcuni ragazzi sono diventati registi, sono rimasti in Arrevuoto e partecipano alla formazione. Mi trovo quotidianamente ad affrontare quello che è un problema, anche se nasce da un fatto positivo: alcuni di questi ragazzi hanno talento. Ma provengono da famiglie disagiate, che non sono in grado di sostenere un percorso nel teatro, innanzitutto economicamente. Allora ho provato a creare dei piccoli arrevuoti, con ragazzi scelti. Per esempio abbiamo fatto Casting, uno spettacolo che prova a ragionare sul cliché dell’attore di strada, sul fatto che ora va di moda che una produzione arriva in una zona degradata e pensa di reclutare attori non professionisti perché solo quelli sono più veri”.

Braucci conclude sottolineando ancora una volta le difficoltà del contesto e l’irriducibile alterità di Arrevuoto: “Napoli è una città molto classista. Le classi convivono nelle stesse strade, negli stessi palazzi, perché sono costrette, in un certo senso. A molti non piace il nostro approccio di teatro non borghese, il fatto che non caliamo un sapere dall’alto. Ma la nostra essenza è proprio quella: basarci sulla cooperazione, su un approccio orizzontale. Ed è un discorso politico, perché il lavoro di gruppo di cui parlavo prima va contro il divide et impera, che è il modo in cui viene esercitato il dominio. A fianco poi dell’anima politica c’è quella teatrale, ma anche qui il discorso ritorna, perché il nostro approccio è basato sulle farse, è sempre alla farsa che si torna, e quindi al teatro popolare”.