Adriano a Cielo Aperto durante il burian

Civic Media Art  (Lacittàintorno) è il primo progetto di arte pubblica curato e prodotto da cheFare. Per realizzarlo ci siamo confrontati con alcune questioni che riteniamo centrali per la cultura contemporanea: la narrazione centro/periferia; l’intervento artistico negli spazi pubblici; le pratiche partecipative.

Civic Media Art ha comportato 12 mesi di preparazione; 15 studio visits tra Amsterdam, Rotterdam, Eindhoven e Utrecht; un camp intensivo a Milano con 10 imprese culturali milanesi ed esperti internazionali; la costruzione di una serie editoriale su Adriano, in relazione con il dibattito più ampio sulle periferie in Italia; migliaia di ore trascorse nel quartiere e centinaia di persone incontrate; altre centinaia di persone intervistate.

E poi gli happening. Balli di gruppo e dj set drammaturgici; esibizioni di Tournée da Bar e concerti della Banda di Crescenzago; session di scrittura audiovisiva del collettivo Matita e concerti dei giovani cantautori del quartiere; cene indonesiane da 11 portate di Dini Arisandi e torte decorate della Pasticceria Rossella.

La prima opera realizzata in Civic Media Art è Adriano A Cielo Aperto, ideata dall’artista olandese Kevin van Braak: oltre quaranta famiglie ed organizzazioni del quartiere hanno adottato altrettanti striscioni di grande formato, andando a comporre un grande giornale murale che raccoglie le storie e i sogni degli abitanti raccolti da Ivan Carozzi.

Quando all’inizio del 2017 abbiamo iniziato a pensare ad un progetto di arte pubblica da inserire nel programma Lacittàintorno di Fondazione Cariplo, lo abbiamo fatto con alcune domande ed alcuni timori.

Le domande erano quelle – inevitabili – di chi prova a confrontarsi con le complessità di un quartiere popoloso ed esteso eppure poco conosciuto, cresciuto in modo un po’ disorganico lontano dai riflettori della Milano di Piazza del Duomo e di Expo: cosa vuol dire vivere ad Adriano? Qual’è il ritmo che si respira tra i grandi palazzi e i prati verdi? In cosa è diversa l’esperienza urbana rispetto a quelle dei vicini Crescenzago, Precotto, Viale Padova?

I timori – altrettanto inevitabili – erano quelli di chi si misura con un territorio che conosce poco e cerca di farlo in modo rispettoso e gentile, pensando la progettazione culturale come qualcosa di concreto, ancorato alla vita delle persone, e non come un mero esercizio retorico o estetico.

È proprio sulla scorta di questo bagaglio di domande e di cautele che abbiamo pensato di guardare all’Olanda. Conoscevamo da molto vicino le attività dei media centers olandesi, per la loro produzione di forme culturali sperimentali e per la ricerca sulla partecipazione dei pubblici e sulla cittadinanza attiva; sia quelli nati come laboratori ibridi e storicamente supportati dall’industria come la Philips di Eindhoven, sia quelli nati come squat e hacker spaces ed evoluti nei decenni successivi in spazi per la cultura riconosciuti e supportati dal governo (come il V2_ di Rotterdam).

Adriano a Cielo Aperto striscioni

Ci interessavano inoltre le esperienze a cavallo tra arte, architettura e design che ripensano la vita quotidiana, gli spazi pubblici, gli edifici storici, le istituzioni ed i monumenti politici e naturali. La messa in discussione dei confini tra prospettive e discipline è, in qualche modo, costitutiva dell’approccio olandese alla città, che negli ultimi decenni si è sviluppata mettendo in gioco i confini tra filosofia ed architettura (come nel caso dello studio di Amsterdam RAAAF), tra architettura e policy making (come nel caso dello studio di architetti ZUS – Zones Urbaines Sensibles), tra opera d’arte e intervento nella vita quotidiana (come il lavoro di Jeanne van Heeswijk e la progettazione ed avvio dell’Africanderwijk di Rotterdam).

Supportati dall’Ambasciata Olandese in Italia e da Mondriaan Fund, abbiamo visitato nei Paesi Bassi studi di artisti ed architetti, musei e fondazioni, progetti dal basso di attivismo culturale nelle periferie e curatori di arte partecipativa. Un universo di produttori culturali che ci hanno aiutato a ripensare le parole chiave degli interventi culturali negli spazi urbani, e farci domande etiche, politiche, estetiche e di metodo.

Da questa visita è nata l’idea di invitare Kevin van Braak a lavorare con noi, ed anche a ripensare in maniera profonda la formalizzazione dell’arte pubblica, in chiave di esigenza di un territorio formalizzata in maniera visionaria, piuttosto che estetica predefinita e imposta da fuori. Il percorso di Kevin si è sviluppato nell’ultimo decennio tra progetti di scultura site-specific in spazi pubblici a percorsi di produzione di opere d’arte condivise e collettive insieme a comunità specifiche, in Europa ed anche nel resto del mondo, con una forte attenzione alla formalizzazione finale. Partecipazione e chiara identità estetica sono i due fattori che ci hanno maggiormente colpiti.

Un passaggio fondamentale è stato il coinvolgimento di Ivan Carozzi. Conosciamo Ivan da anni per i suoi libri, per il suo lavoro come giornalista e anche perché è una di quelle figure che incontri spesso in contesti lontani da quelli che ti aspetteresti e che però non è mai fuori posto. Quando abbiamo iniziato a pensare alla linea editoriale sul Quartiere Adriano, Ivan è stato uno dei primi nomi che ci sono venuti in mente, perché nei grandi spazi del quartiere si legge in filigrana una poesia strana e quasi sospesa che si sposa con il suo modo di guardare le cose. Non è stata una sorpresa scoprire che Ivan conosceva ed amava il quartiere già da tempo. E quando Kevin ci ha proposto di lavorare su dei testi e ci ha chiesto di identificare uno scrittore milanese che passasse tanto tempo con gli abitanti, non abbiamo avuto dubbi.

La metodologia che abbiamo sviluppato nel Quartiere Adriano può essere considerata un esperimento instabile ed in continua evoluzione, vissuto in prima persona per un periodo continuativo (nove mesi); un metodo basato su visite, confronti, scoperte, delusioni ed esaltazioni, avvicinamenti, sintonie. Abbiamo lavorato come ricercatori per conoscere il quartiere e come progettisti culturali per costruire proposte che fossero significative non solo per noi ma soprattutto per chi nel quartiere ci vive. Abbiamo cercato di costruire reti tra i nostri referenti a Milano, in Italia e nel mondo e gli interlocutori del quartiere. Reti di conoscenza, di relazioni e soprattutto di fiducia.

Potremmo riassumere l’esperienza di Civic Media Art in un percorso non predeterminabile di avvicinamento, approssimazione, allontanamento, aggiustamento, mediazione. Abbiamo capito che l’espressione “centralità del processo” non è un termine astratto ma una prassi concreta e necessaria per la realizzazione di qualsiasi opera d’arte inscritta in un territorio o in una comunità. Una parte integrante del percorso di produzione dell’opera d’arte prevede di investire il tempo in maniera non immediatamente funzionale. Senza le passeggiate senza meta; senza le ore passate a parlare con adolescenti e anziani, operatori culturali commercianti, passanti ed avventori dei bar; senza le feste organizzate nei centri di cultura popolare; senza tutte le cose “non utili” che abbiamo fatto per mesi, gli striscioni di Kevin van Braak non sarebbero appesi a 47 balconi del quartiere, non ci sarebbero state le discussioni ed il sostegno al progetto degli abitanti, non ci saremmo sentiti dire che il lavoro è bello e che ora dobbiamo ragionare assieme su come proseguire il lavoro iniziato.

Con Civic Media Art abbiamo cercato di fare quello che cheFare sa fare bene, mescolando informalità nella costruzione delle relazioni e rigore progettuale, cultura alta e cultura bassa, ascolto e organizzazione di proposte culturali ed hoc. La finalizzazione della prima fase del progetto, Adriano a Cielo Aperto, durante il quale siamo entrati nelle case private degli abitanti del quartiere, non sarebbe avvenuta se cheFare non avesse insistito sulla costruzione di relazioni umane, individuali e collettive, basate sulla mutua confidenza. Abbiamo dialogato con il quartiere su diversi livelli, concentradoci sull’ascolto.

Le opere di arte pubblica che utilizzano striscioni, manifesti e altri dispositivi simili co-prodotti da artisti e abitanti non sono certo una novità. Vale però la pena evidenziare alcune specificità molto forti di Adriano a Cielo Aperto. La scelta artistica di Kevin che ha dato un indirizzo estetico molto rigoroso all’opera; il processo di raccolta e selezione dei testi seguito da Ivan; la costruzione dei rapporti con gli abitanti delegata a cheFare.

L’indirizzo formale di Kevin ha dato luogo a striscioni che interagiscono in modo straniante con gli edifici ed i grandi spazi del Quartiere Adriano: sembra quasi di osservare dei livelli grafici digitali di un bianco e nero molto minimale, sovraimposti in qualche modo al mondo “reale”. Un’impressione consolidata dalla cura quasi maniacale che Kevin ha dedicato all’allestimento, facendo in modo che gli striscioni “assomigliassero ad un rendering”. Un effetto che si è mantenuto anche durante e dopo il maltempo del Burian che ha salutato l’inaugurazione, al prezzo di un lavoro costante di manutenzione extra-ordinaria.

La ricerca portata avanti da Ivan, invece, ha sintetizzato visioni del quartiere diverse tra loro in una polifonia che evita alcune retoriche che spesso affaticano il palato quando si parla del rapporto tra memoria e luoghi. Sarebbe stato troppo facile concentrarsi sui due landmark iconici del Quartiere: un rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale e una torre dell’acqua. Ivan ha invece scelto di lavorare con leggerezza quasi trasognata. E così nel mix sono finiti “Vorrei sentire la tromba di Miles Davis alla fermata dell’autobus” e “lo sapevi che qui vicino hanno inventato la Simmenthal”; “se non ti sporchi non ti puoi pulire” e “il quartiere deve essere più unito. punto”; “Olaf di Frozen sindaco” e “sto da Dio”.

La cura della dimensione relazionale, infine, ha fatto sì che si siano sviluppati dei rapporti fortunati ed imprevedibili tra gli abitanti, i visitatori ed il progetto. Gruppi di studenti universitari e di operatori della cultura milanese hanno visitato per la prima volta un quartiere così lontano dal centro. Inquilini con singoli balconi troppo piccoli per ospitare gli striscioni hanno chiesto l’intervento dei vicini con cui spesso non avevano relazione. Chi non si era inizialmente accorto del progetto ci ha cercati per sapere se ci fossero altri striscioni disponibili ed è venuto comunque agli incontri successivi per conoscere gli altri abitanti. Sui gruppi Facebook dei quartieri limitrofi si è scatenata una caccia fotografica agli striscioni, in auto sotto la pioggia battente. C’è chi si fa i selfie con alle spalle lo striscione “sto da Dio”.

Per cheFare, Civic Media Art si inscrive in un percorso più ampio di riflessione sul rapporto tra cultura e spazi urbani; un argomento che indaghiamo fin dalla nostra nascita osservando questioni anche molto diverse tra loro. L’insieme dei grandi processi trasformativi urbani degli ultimi trent’anni è un coagulo di pratiche architettoniche, economiche, sociali e culturali che recentemente ha preso il nome di “rigenerazione urbana“: un termine che suggerisce una connotazione intimamente positiva, a metà tra la rinascita e il riscatto. Eppure, inevitabilmente, la riconversione di singoli edifici e quartieri nelle città post-industriali è il risultato dinamico di una serie di campi di forza – talvolta collaborativi, molto più spesso conflittuali – che determinano la forma e soprattutto il senso della vita urbana. Sono grandi operazioni che si sviluppano su tempi molto lunghi, coinvolgono operatori pubblici e privati che muovono grandi masse di denaro e in alcuni casi sono sul filo (o oltre il crinale) della speculazione edilizia. Per questi motivi, simili operazioni dovrebbero essere al centro del dibattito pubblico, così come di quello culturale. E l’arte è un innesco fantastico per porre delle domande.

A che cosa “serve” un progetto di arte pubblica in periferia? Ha senso farsi una domanda di questo tipo solo in un’ottica site-specific: un progetto di arte pubblica ha senso in quel luogo perché lo interroga e fa emergere qualcosa di peculiare; è una pratica la cui estetica non è esportabile di per sé: è la metodologia alle sue spalle che è se mai replicabile; da luogo ad esiti che solo apparentemente assomigliano ad altri.

Quello che ha senso – guardando a questo preciso momento in Italia – è far emergere le relazioni, i dibattiti, i piani di senso che abitano le periferie al di là delle retoriche dell’emergenza e del “qui non succede mai niente”.

Di fronte al flusso costante di immagini delle città per un city-marketing omogeneizzante che si nutre solo del centro, delle architetture iconiche e dei quartieri gentrificati, l’arte pubblica può proporre ispazi di discorso alternativi, polifonici, contraddittori che consentano di guardare ai tessuti urbani nel loro complesso e nella loro diversità. È un modo per rimescolare le carte. Se si parla di periferie spesso la cosa viene affrontata appunto come una “questione”, un tema per inchieste, indagini, campagne elettorali. Ma sembra che nessuno abbia mai voglia di chiedersi davvero cosa sono, in cosa sono diverse l’una dall’altra e soprattutto come ci si vive.

Ecco, in Italia nel 2018 più che altro le periferie sono un oggetto, non un soggetto, e chi vive in centro non sa nemmeno come sono fatte. Quello che ci auguriamo è che progetti come Civic Media Art aiutino a cambiare questo stato di cose.

Adriano a Cielo Aperto è visibile dal 23 Febbraio al 20 Marzo. La seconda opera di Kevin van Braak sarà realizzata durante un grande happening collaborativo il 14 Aprile. Se sei interessato a partecipare, scrivici!


Civic Media Art è un percorso internazionale di arte pubblica che si inscrive nel programma Lacittàintorno di Fondazione Cariplo, realizzato con il sostegno di quest’ultima, dell’Ambasciata e Consolato del Regno dei Paesi Bassi in Italia e del Mondriaan Fonds oltre a quello delle case editrici Bao Publishing, Il Saggiatore, Iperborea, Minimum Fax, NN Editore; del marchio di agricoltori biologici Alce Nero e dell’Istituto Italiano di Fotografia.

Il gruppo di lavoro di Civic Media Art è composto da Lucrezia Cippitelli (curatrice), Bertram Niessen (curatore), Marilù Manta (project manager) ed Erika Sartori (responsabile di produzione).

Al camp di Civic Media Art hanno partecipato Betwyll, ABCittà, Bepart, Kunstverein Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Super (il Festival delle Periferie di Milano), Stream Colors, Pop Up Management, Tournée da Bar, Annet van Otterloo (Studio Jeanne Van Heeswijk e Afrikaanwijk Rotterdam), Maurizio Cilli, Giorgio Gianotto, Alberto Cossu, il Console Generale dei Paesi Bassi a Milano Johan O. Verboom.

Ma più di tutto Civic Media Art non potrebbe esistere senza gli abitanti di Quartiere Adriano. Grazie, quindi, soprattutto a loro.