La prossimità nell’innovazione urbana: 10 punti

Quando cominciammo a progettare i Laboratori di Quartiere di Bologna, “i cittadini che non partecipano” erano la priorità dell’Ufficio Immaginazione Civica. Per questo nacque “se non ci credi, partecipa”: la campagna di comunicazione che ha supportato un processo di ascolto in 70 incontri, che ha coinvolto 11 zone e 1700 cittadini del Comune di Bologna. L’obiettivo era far emergere i bisogni dei cittadini per coprogettare il bilancio partecipativo (dal 7 al 27 novembre 14.584 persone hanno votato le 27 proposte) e indirizzare parte dei fondi PON Metro per condividere nuove destinazioni d’uso per 11 edifici pubblici e le priorità su cui costruire nuovi strumenti di policy per i cittadini (si vedano i bandi Incredibol e BolognaMade).

Con la campagna volevamo comprendere le ragioni di chi non crede più alle proposte pubbliche,  ma con un forte e coraggioso invito a esserci, per toccare con mano il progetto, la serietà del percorso, la qualità degli strumenti messi a disposizione e il valore delle relazioni innescate. Ma, dopo 8 mesi di lavoro vi posso dire che una campagna, seppur ben strutturata – con incontri diffusi nei quartieri, laboratori di coprogettazione, dati, infografiche, materiale promozionale in 7 lingue, campagna social dedicata ai più giovani con simpatiche GIF e video, siti web dove informarsi, prendere contatto e condividere proposte -, non basta. Perché la partecipazione non basta, se non si ha l’obiettivo di far cambiare la pubblica amministrazione, nel tentativo di ridurre la distanza tra PA e cittadini, che ha generato buona parte della sfiducia nella politica e nelle pubbliche istituzioni.

Varie ricerche ci dicono che gli obiettivi delle politiche pubbliche, come il lavoro, la salute per tutti o una buona istruzione per permettere di migliorare la propria posizione non sono più una certezza per ampie fasce di popolazione. A livello mondiale (si veda il report di Edelman), nelle periferie delle città come nelle cittadine di poche migliaia di persone, a Nord come a Sud, l’intervento pubblico è visto troppo spesso come qualcosa che non risolve i problemi, che non è dove dovrebbe essere e non fa quello di cui ci sarebbe bisogno. E’ cronica  e diffusa la mancanza di risposte ai vecchi e nuovi bisogni, senza fiducia nel futuro. In questo report Istat del 2016, si parla di “trasmissione intergenerazionale degli svantaggi”. Le aspettative di vita dipendono dal livello di istruzione in modo crescente e mobilità sociale, reddito, istruzione e occupazione sono dipendenti sempre più nettamente dal nucleo familiare di origine. In altre parole chi nasce povero, rimane povero, come citano questi altri dati; così come l’elevata disoccupazione giovanile incide sulle scelte di vita in modo netto (vedi rapporto giovani 2017). La sfiducia è verso il futuro: la perdita del lavoro, la disoccupazione e il non avere abbastanza soldi per vivere sono le inquietudini più comuni, come indica questo rapporto Demos.

La sfiducia è il motivo per cui i cittadini non credono alle istituzioni pubbliche e ai partiti, mentre crescono come riferimenti Papa Francesco e le Forze dell’Ordine, come indica Demos nel suo annuale report sul rapporto tra italiani e Stato. Mentre è maggiore la fiducia riposta nei Comuni e nelle iniziative di quartiere e delle città, i presidi più prossimi ai cittadini.  Se lo Stato e i partiti appaiono sempre più lontani, l’avere cura della propria città e l’autorganizzazione diventano la risposta verso il territorio, la qualità sociale e i problemi dei cittadini.

A corollario di questo, possiamo vedere come nascano risposte politiche locali, autonome dal contesto nazionale: in questo articolo si parla del fenomeno delle liste civiche slegate dai partiti, con 1394 al nord (2,41 di media per Comune), 742 al centro (3 di media per Comune) e 1774 al sud (3,71 di media per Comune).

Quindi abbiamo a che fare con la sfiducia, ma anche con la necessità di aggiornare le nostre “categorie” di lettura del sociale. il rapporto Caritas ci dice che esistono nuove povertà riferite a categorie impensabili fino a pochi anni fa: la povertà è inversamente proporzionale all’età, più si è giovani, più si è a rischio povertà, e che le tipologie di famiglia con più figli, immigrate o monogenitoriali risultano essere altamente a rischio di esclusione. Save the children parla di privazione culturale e ricreativa riferendosi alla povertà educativa.

Serve un nuova fase di politiche pubbliche per tornare ad aspirare di risolvere i problemi delle persone, piuttosto che porsi come mediatori eterni. Dice il maestro di strada Cesare Moreno: “Diamo parola al lato oscuro della democrazia non per agitarlo contro essa stessa ma per portarlo nella zona di condivisione e partecipazione”.

Grazie al lavoro sul campo che sto sperimentando a Bologna da 8 mesi (qui trovate tutte le informazioni sul processo) e un Piano per l’Innovazione Urbana che mette insieme risorse e processi, emergono forti indicazioni per tornare a farsi prossimi e utili, accanto alle comunità civiche. Oltre ad un forte sforzo dedicato alla trasparenza e alla rendicontazione, con dati e strumenti tipici della democrazia partecipativa a supporto dei processi, per la prima volta c’è un gruppo di lavoro dedicato alla costruzione di relazioni, al coinvolgimento, all’ascolto dei bisogni, alla coprogettazione e allo stimolo delle risposte pubbliche, soprattutto verso chi è solitamente escluso. Ma, oltre al metodo, il cambiamento necessita di risultati.

Qui di seguito 10 punti di lavoro che posso estrarre dalla mia esperienza:

  1. La prossimità è uno strumento di lavoro: vanno costruite relazioni vicine ai cittadini perché solo colmando la distanza fisica possiamo avviare un processo di ricostruzione con essi. La fiducia è prossima, vicina e continua, altrimenti non è. Non serve il coraggio di un’azione limitata nel tempo perché è necessaria una consapevolezza duratura. Il più grande lavoro da fare è creare figure professionali, il più possibile stabili, che curino i processi relazionali per aiutare comunità a diventare più autonome e che contribuiscano al cambiamento della pubblica amministrazione. Per capire i nuovi problemi e le nuove situazioni di marginalità, c’è un forte lavoro relazionale da mettere in campo con strutture stabili e azioni persistenti. Dobbiamo innescare processi relazionali per presidiare città, quartieri, cittadine, territori con continuità. Dobbiamo costruire ponti emozionali con le comunità di cittadini, parlare, incontrare ascoltare, collegare, rispondere e risolvere. Tenendo la politica fuori dalla porta, la pubblica amministrazione deve tornare a trovare modi per risolvere i problemi che i cittadini considerano come prioritari. In merito, consiglio di leggere le conclusioni del Rapporto 2017 sulle politiche contro la povertà in Italia della Croce Rossa Italiana.
  2. Dobbiamo aprire processi di apprendimento e imparare a saper cambiare orari, luoghi e modalità di incontro, strumenti di comunicazione e linguaggio da usare con i cittadini. Per rispondere ai bisogni, serve innovare modi e grammatiche per inquadrare le nuove funzioni. Dobbiamo riscoprire la funzione sociale e pubblica di chi lavora per risolvere i problemi dei cittadini. Al tempo della complessità, della globalizzazione, delle nuove povertà, delle tecnologie, chi governa le città deve imparare a cambiare, così come avviene in ogni organizzazione. Troppo spesso abbiamo messo i processi davanti ai risultati mentre dobbiamo risolvere i problemi dei cittadini, non trovare nuove modalità di gestione. Certamente è importante cambiare approcci, ne ho parlato qui auspicando un approccio ispirato ai prinicipi open source, ma siamo in ritardo e dobbiamo invertire la rotta rivolti a dare impatto.
  3. Non bastano bandi per avviare i cambiamenti. Seppur utili per creare condizioni e trasmettere coraggio a nuovi soggetti, i bandi sono limitati nel tempo e troppo spesso non delineano un lavoro continuo sul campo. Inoltre, spesso, sono appannaggio dei professionisti, cioè di organizzazioni esperte in progettazione e rendicontazione. Di fronte alle sfide e ai rischi di esclusione sociale, non bastano processi di mobilitazione a corto respiro, serve cura e manutenzione. I cambiamenti devono coinvolgere le comunità territoriali con costanza. Allo stesso tempo è fondamentale il ruolo attivo del terzo settore e delle imprese nello spazio pubblico e nei processi culturali inclusivi. Ma è necessario distinguere quale debba essere il ruolo del pubblico: oltre a visioni, regole e direzioni, servono bandi diffusi, a bassa soglia e aperti ai meno esperti, o bandi di grossa taglia, correndo però alti rischi di fallimento e concentrando in pochi attori tutte le possibilità? Redistribuzione o accentramento?
  4. Per mettere in moto il cambio è centrale fare spazio ai più giovani che portano nuove competenze, visioni e modalità di lavoro: guardando i dati della distribuzione per classi di età del personale della Pubblica Amministrazione, la situazione è allarmante. Solo se daremo leadership a chi ha nuove visioni, potremo dire di aver provato a cambiare il clima culturale e organizzativo: solo se diamo spazi a disposizione per i giovani, possiamo dire che crediamo in un progresso collettivo. E’ urgente che gli under 30 di questo paese possano riprogettare servizi, spazi, organizzazioni. Basta chiedere a chi lavora con i più giovani per avere conferma che creatività, diversità culturali, dedizione, uso delle tecnologie sono caratteristiche comuni da tutti i ragazzi e ragazze del nostro paese. Personalmente e professionalmente sto imparando moltissimo dal team dell’Ufficio Immaginazione Civica principalmente formato da under 30, o dal LabUnder, il lab di ragazzi tra i 18 e i 23 anni.  Molto stimolante in proposito questo progetto francesce che indica senza mezze misure un nuovo approccio. Dobbiamo abilitare, dare strumenti e spazi, libertà e leadership, per cambiare come si fanno le cose. Solo chi ha nuove visioni, può avere nuove soluzioni.
  5. Non servono piani strutturali statici ma è necessario progettare in modo più flessibile. Con flessibilità rigorosa, direbbe Ilda Curti, dobbiamo ripensare gli strumenti urbanistici perché – Maurizio Carta è illuminante per la sua visione – progettare le città e i territori è ripensare lo sviluppo con apertura e collaborazione, riconnettendo diverse identità culturali con il recupero del patrimonio e la riqualificazione di aree ed edifici, con la tecnologia e nuova sostenibilità economica. Non possiamo progettare in modo obsoleto al tempo del cambiamento veloce, ma servono dispositivi progettuali vivi, come indicano Lanfrey e Solda, serve non imbrigliare i processi. Servono visione e forti capacità progettuali con apertura, non un progetto statico né scelte immobili nel tempo.
  6. La partecipazione è un nuovo attore pubblico. Oltre ai politici, ai partiti e ai mass media, esiste un processo di corresponsabilizzazione dei cittadini, che di fatto irrompono nella scena pubblica. Dobbiamo far emergere dati così da indirizzare le politiche (si veda la mappa della fragilità, “una mappa per orientarsi nelle nuove “periferie”, nelle fragilità e nelle opportunità del territorio, e per indirizzare le scelte politiche e amministrative” a Bologna), attivare mobilitazioni spontanee, come le petizioni, o formalizzate, affinché l’opinione pubblica faccia i conti con un nuovo giocatore che quando entra nel campo di gioco è dirompente perché sposta gli equilibri. Nonostante I giornalisti non parlino di processi, di prossimità, di cura delle relazioni perché cercano le storie d’impatto, la narrazione, questo processo è al centro del dibattito. I cittadini rivendicano leadership mentre i dati indicano chiaramente che sono esclusi. Se accettiamo la sfida di essere prossimi, dobbiamo dirci che solo con nuovi alleati popolari, nel senso di rappresentativi, potremmo affrontare criticità e evitare banali fallimenti. Allo stesso tempo è necessario riorganizzare la partecipazione: serve investire tempo e risorse nella costruzione di spazi di rappresentanza, con nuovi ruoli, geometrie ed intermediari. Dobbiamo coinvolgere in modo strutturato le comunità che ora partecipano sempre meno ai processi strutturati (si veda lo studio dell’Istituto Catteneo sul calo della partecipazione elettorale nelle regione “rosse”).
  7. Dobbiamo lavorare per prodotti e per processi: il cambiamento passa anche dalla capacità di trovare quali sono gli impatti tangibili sul miglioramento della vita dei cittadini. Qualità dello spazio pubblico e senso di appartenenza, tempi di vita con spazi e tempi per le famiglie e i più giovani, nuove competenze per chi fa impresa, per adolescenti e anziani: ecco alcuni bisogni emersi dai laboratori di quartiere di Bologna che possiamo mettere al centro delle nuove politiche pubbliche di prossimità. Se vogliamo essere d’impatto, questi sono bisogni su cui lavorare e cui creare comunità. Non servono nuovi dipartimenti con nuove gerarchie, ma processi trasversali e team di lavoro orientati a raggiungere risultati tangibili. Perché spesso il problema non è la partecipazione ma la realizzazione di quanto emerso dai processi. Salvo poi lamentarci che la partecipazione civica è in calo. Alla SummerSchool di Rena ho assistito ad un intervento di Silvia Givone che dopo decine di processi partecipativi condotti, rilevava che pochi hanno avuto esito positivo, e non per colpa dei cittadini ma dei decisori e della Pubblica Amministrazione.
  8. Ogni decisione deve essere popolare. Dobbiamo aggiornare gli strumenti di governo attraverso la sperimentazione e la collaborazione: il contesto di riferimento è consolidare il capitale sociale delle comunità per un maggior benessere sociale, il senso di appartenenza alla comunità e lo sviluppo sostenibile condiviso. Tutte le scelte devono essere popolari, ossia vicine ai cittadini. Utilizzando di volta in volta i diversi strumenti della democrazia partecipativa e deliberativa (incontri, dibattiti, focus group, laboratori, votazioni), dobbiamo aprire il metodo della scelte delle decisioni – con ascolto, coprogettazione e consultazione – per poter rispondere ai bisogni. Per evitare una balcanizzazione dei bisogni, dobbiamo mettere a sistema il valore e il senso della partecipazione democratica alla cosa pubblica per mettere all’angolo individualismi e strumentalizzazioni politiche. In questo senso ci sono diversi tentativi a livello locale con laboratori di sperimentazione come Reggio Emilia con il Collaboratorio, Milano con Sharing city, la Toscana con Collabora Toscana e lo stesso Ufficio per l’Immaginazione Civica a Bologna. Come ripartire dalle comunità se non garantendo una dimensione neutrale di confronto, dibattito e sperimentazione sulle nuove forme di democrazia urbana e cittadinanza attiva attirando e coinvolgendo le ampie fasce di popolazioni sfiduciate e lontane dai partiti e dalle forme classiche di confronto?
  9. Le periferie esistono e sono culturali ed economiche e devono essere poste al centro dei processi di pianificazione strategica. Da un approccio settoriale, dobbiamo passare a presidiare in modo stabile e trasversale chi è a rischio marginalità con progetti di coinvolgimento sul medio periodo per rispondere ai nuovi bisogni. È urgente riscoprire le nuove sfide perché nei quartieri dove negli anni sessanta e settanta aprirono i primi consultori, ora dobbiamo rispondere ai nuovi bisogni come la casa e la conciliazione famiglia lavoro per le popolazioni migranti e per under 35, attualmente fuori dal dibattito amministrativo. È come tornare a inizio ‘900: citando lo studio Ipsos con le “casse rurali, associazioni di mutuo soccorso, imprese di produzione e lavoro, iniziative assistenziali, scuole promosse da soggetti più diversi come sindacati, cooperative, congregazioni religiose, confraternite, comitati, associazioni o volontariato” dobbiamo riproporre rinnovati avamposti culturali fissi e duraturi per includere le classi più popolari. Servono luoghi prossimi cioè aperti non solo a chi ha idee e voglia di socialità: chiamiamoli coworking, biblioteche, fablab, centri civici ma devono essere accessibili economicamente e culturalmente verso chi non ha avuto accesso alle risorse culturali di chi promuove le iniziative. Elena Ostanel parla di processo di rigenerazione politico solo se inclusivo. Servono luoghi dove ampie fasce di popolazione possano comprendere obiettivi e sentirsi a proprio agio. Serve investire affinché quelli che erano i presidi nel 900, divengano di nuovo luoghi per la maggioranza dei cittadini.
  10. La prossimità ha una sua fisicità e bellezza fatta di luoghi molto più importanti di quello che appaiono: dobbiamo far rivivere spazi identitari facendoli diventare simboli di comunità. Piazze, piazzette, parchi, giardini vanno riqualificati seguendo pratiche che si stanno diffondendo con i tanti edifici che si stanno riqualificando nel paese (ne ho parlato qui insieme a Ilda Curti). Ma non bastano risorse certe perché senza il coinvolgendo dei cittadini per definirne vocazioni e usi, saranno spazi vuoti e senza presidio. Basta chiedere ai cittadini per avere conferma, come dimostrano la maggioranza dei 27 progetti del bilancio partecipativo e dei patti di collaborazione di Bologna. Quando c’è cessione di sovranità, dal basso emergono chiaramente bisogni di luoghi sociali, di spazi dove ritrovarsi per giocare, confrontarsi, condividere. I cittadini chiedono di identificarsi in spazi belli, dove poter relazionarsi con i propri vicini di casa, di quartiere, dove poter condividere passioni e competenze.

Là dove 40 anni fa sono stati creati i primi avamposti socio sanitari, i primi centri per anziani, le prime strutture per persone in difficoltà e le biblioteche, ora dobbiamo proporre nuove soluzioni.

Serve partire da ciò che possiamo chiamare politica di prossimità, con un approccio che deve essere strutturale. Serve cambiare per ritrovare la pubblica utilità (si veda il report Ipsos). Servono politiche che facciano sentire i cittadini meno soli: partire dalla prossimità significherebbe ritrovare una connessione popolare ma la politica e le politiche non devono proporre soluzioni veloci o ennesime campagne di comunicazione perché serve tempo per permettere una nuova fase di ridisegno forte e radicale con una revisione di categorie, strumenti ed approcci. Servono cura e segnali tangibili di cambiamento.


Questo articolo, senz’altro da implementare continuando il lavoro sul campo, mi dà l’occasione di ringraziare tutto il gruppo di lavoro dell’Ufficio Immaginazione Civica dell’Urban Center Bologna: ho la fortuna di poter sperimentare e coordinare un lavoro inedito sul campo e da tecnico e non posso che ringraziare la grande abnegazione e costanza di chi ne fa parte e di chi lo ha reso possibile.




Politiche collaborative, una ricerca della felicità?

Spinte da i due potenti discorsi sull’innovazione sociale e la sharing economy e da politiche pubbliche dedicate, le città competono sempre più “sul mercato delle risorse straordinarie” (Pasqui, 2001), siano esse di provenienza comunitaria, nazionale, regionale o ‘da mercato’, attraverso forme d’azione collaborative orientate all’innovazione sociale. In questo momento Milano o Bologna sono attraversate e hanno a loro volta prodotto una molteplicità di pratiche (al tempo stesso input e outcome di queste politiche) che le hanno decretate star del momento e le due città più smart d’Italia.

Anche se la Regione Puglia non rientra in questa classifica, forse colpevole di aver intercettato il fenomeno con troppo anticipo e quindi impossibilitata a farsi spingere dal trend del momento, continua a rappresentare un modello interessante e da cui prendere spunto. I continui riferimenti al contesto nazionale non inducano all’errore. Non si tratta di un fenomeno periferico e localizzato in uno o più dei PIGS, come testimoniano i numerosi articoli al riguardo che compaiono frequentemente sulla Stanford Social Innovation Review o su The Economist.

 

Come capita di frequente quando un fenomeno esplode rapido e potente, anche in questo caso è altissimo il numero di attori che si stanno interrogando sui perché, i come e i risultati di queste politiche: accademie, media, istituzioni, organizzazioni non profit, practitioners e attivisti alimentano un discorso pubblico che si fa sempre più stratificato e diversificato. Tentando di mettere ordine pare di poter scorgere due schieramenti, come avviene spesso in Italia su una molteplicità di argomenti.

Da un lato ci sono i più, per i quali queste politiche riportano al centro le relazioni coinvolgendo il capitale umano, orientano l’innovazione tecnologica al sociale e in ultima istanza producono la leadership di un nuovo modello di sviluppo attraverso forme di innovazione politica. Dall’altro lato un gruppo più sparuto ma non meno tenace che mette invece l’accento sui lati oscuri della sharing economy, dell’imprenditorilità sociale e delle pratiche partecipative. Il primo gruppo mette l’accento sulla necessità di fare, anche a costo di sbagliare o di produrre alcune derive tecniciste, pur di trovare nuove forme di connessione tra economico e sociale. Il secondo gruppo tende a dimenticare che molte di quelle stesse pratiche sono presenti e determinanti nella loro stessa storia.

Chi, come fanno i membri di entrambi i gruppi, tenta di approcciare criticamente il fenomeno tende a cercare di identificare le ragioni di una posizione sull’altra. Non si tratta di una questione nuova e forse è inevitabile. Già nel 2001 in Il territorio delle politiche. Innovazione Sociale e pratiche di pianificazione Gabriele Pasqui, riprendendo Balducci (2000), scrive “come la lettura delle nuove politiche urbane in un’ottica di governance possa spingere in due direzioni interpretative: la prima sottolinea l’eclissi del pubblico e la degenerazione liberista nei processi di governo; la seconda indica la prospettiva della self-guiding society (Lindblom, 1990) come orizzonte di possibilità dell’azione pubblica”.

 

Ma se invece non si trattasse di capire quale delle due parti ha ragione ma di riconoscere che i due aspetti sono entrambi connaturati al fenomeno? 
Per cercare una risposta a questa domanda provo ad utilizzare la lente interpretativa offerta da Sulla rivoluzione (Arendt, 1963). Si tratta di un testo che propone una riflessione teorico-politica sulla rivoluzione attraverso la comparazione tra i fallimenti delle rivoluzioni francese e russa e il successo (parziale) della rivoluzione americana.

Non intendo proporre una sovrapposizione tra innovazione e rivoluzione. Le condizioni materiali e sociali contemporanee hanno allontanato l’innovazione dalla rivoluzione, anche se entrambe incarnano “la capacità umana di novità”. Mi interessa piuttosto concentrare l’attenzione su quanto la Arendt propone nell’ultimo capitolo del libro, La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto, che si basa integralmente su alcune criticità individuate già da Jefferson (1743-1826).

Se il cominciare qualcosa di nuovo si prefigge fin dall’origine di stabilizzare quel nuovo, si pone allora un problema inevitabile: “se la fondazione era lo scopo e il fine della rivoluzione, allora lo spirito rivoluzionario non era più semplicemente lo spirito con cui si incomincia qualcosa di nuovo, ma lo spirito con cui si avvia qualcosa di permanente e duraturo. E una istituzione stabile, che incarnasse questo spirito e lo incoraggiasse a nuove imprese, avrebbe alimentato in sé i germi della propria rovina” (Arendt, 1963).

Questa prima parte del ragionamento parrebbe dare ragione ai critici delle pratiche collaborative per l’innovazione sociale: condotte verso le priorità di stabilità di governo non possono che assumere i connotati di strumenti di gestione del potere. Si tratta però di una vittoria di Pirro, perché lascia totalmente aperto il problema di come stabilizzare il nuovo una volta introdotto. Per tentare di affrontarlo diviene allora centrale la seconda parte della riflessione proposta dalla Arendt, per la quale le repubbliche elementari di Jefferson, le sociétés révolutionnaires francesi e i soviet russi, oltre ad essere una ricorrenza spontanea di ogni rivoluzione, rappresentano “una forma di governo interamente nuova, con un nuovo spazio pubblico per la libertà, che veniva costituito e organizzato nel corso della rivoluzione stessa”.

Si trattava di organi spontanei che miravano a salvaguardare lo spirito rivoluzionario in seguito all’affermazione di governo della rivoluzione stessa, consentendo “ai cittadini di continuare a fare ciò che avevano potuto fare durante gli anni della rivoluzione: ossia agire di propria iniziativa e partecipare agli affari pubblici via via che si dovevano trattare di giorno in giorno”, cioè una partecipazione diretta.

 

Se da un lato la Arendt attribuisce ai partiti rivoluzionari l’incapacità di comprendere la novità introdotta dal ‘sistema dei consigli’, dall’altro riconosce che “L’errore fatale dei consigli è sempre stato quello di non distinguere abbastanza chiaramente tra partecipazione alla vita pubblica e amministrazione o gestione delle cose nel pubblico interesse”.

È quindi nei consigli (e non nelle innovazioni o nei governi) che si incarna il dualismo di partenza tra produzione di nuovo e governo dell’esistente e il suo continuo ripresentarsi nella storia è il continuo riproporsi di quello che la Arendt, appunto, chiama ‘sistema dei consigli’ e che a me non può che far pensare a tutte quelle persone e organizzazioni, più che istituzioni e governi, che in questi anni si stanno aggregando attorno ad alcuni temi, interessi e confini comuni a partire da migliaia di pratiche di innovazione sociale che stanno sperimentando in ogni angolo del paese, continuando ad interrogarsi sulle ragioni e gli impatti di quelle stesse pratiche, consapevoli che “Ogni volta che il sapere e il fare si separano, lo spazio della libertà va perduto” (Arendt, 1963).

Indipendente dalla collocazione sull’asse istituzioni-società, è proprio all’interno di questa contraddizione (novità-governo) che si stanno sperimentando forme di (auto)governo e di (auto)organizzazione che promuovono la libertà di agire la sfera pubblica (Arendt, 1958. Vita Activa) nella ricerca della felicità. Stabilire quale essa sia e a chi spetti identificarla è alla base della ricerca stessa.

 

Immagine di copertina: ph. Filip da Unsplash