Macao

Macao è un centro indipendente per le arti, la cultura e la ricerca. Evitando il paradigma dell’industria creativa e cercando di innovare la concezione di istituzioni culturali, Macao considera la produzione artistica come un processo vitale per i cambiamenti sociali, le critiche politiche indipendenti e per sperimentare modelli innovativi di governance e produzione.




Che cos’è Macao

Macao risponde a nome del Nuovo Centro per le Arti, la cultura e la ricerca Macao alle 15 domande di cheFare sui nuovi modi di fare cultura. È una rubrica pensata per dare una rappresentazione del panorama delle nuove realtà culturali dal basso collegate tra loro dalla rete di cui facciamo anche noi.
Per leggere le altre interviste vai qui.

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Perché Macao si chiama Macao?
Siamo sicuri che è un acronimo, ma sappiamo che ce ne sono molte versioni.

Quando è nato?
Nel 2012

Dove?
Per strada

Perché?
Perché gli artisti avevano capito di essere diventati un modello di sfruttamento che avrebbe rivoluzionato il mercato del lavoro globale. Essere flessibili, smart, creativi, docili, connessi e senza un euro sarebbe diventato il nuovo modo per farsi sfruttare a vita. Perché c’era voglia di riappropriarsi del proprio futuro e degli spazi per poterlo immaginare.

Che fa Macao?
E’ un’assemblea aperta di collettivi, amiche e amici, singol* artist* e attivist* che co-disegnano un programma pubblico d’arte e di ricerca. Ora è un palazzo magnifico e decadente, in cui le muffe convivono con i topi e gli studenti, i senzatetto e i musicisti, i richiedenti asilo e gli economisti. E’ un modo di aiutarsi a vicenda, sostenersi economicamente col mutuo aiuto, e inventare forme organizzative nuove basate sulla solidarietà, anti-capitaliste e transfemministe.

La cosa più importante che ha fatto Macao
Sono due. Prima ha fatto dimenticare alla gente di tornare a casa. Adesso vuole inventare una nuova forma di proprietà comune, non più vendibile, per sempre accessibile, senza titolari che comandano.

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Perché sono le più importanti?
Perché il personale è politico. E perché questa nuova forma di proprietà comune farà di Milano un esempio di audacia e innovazione

Cosa c’è di innovativo nel dimenticarsi di tornare a casa?
Per inventare un mondo post-capitalista, post-lavorista, sostenibile e cooperante ci vogliono momenti simbolici di rottura radicali. Dobbiamo saperci dimenticare di come siamo abituati a comportarci. Per questo è importante avere spazi in cui ci si dimentica di tornare a casa.

Cosa c’entra la cultura con questa esperienza?
Be’, è evidente. La cultura è il modo in cui vedi il mondo. Se vuoi vedere un mondo diverso da questo, devi allenare lo sguardo. Etica e Estetica, il modo in cui ci comportiamo e il modo in cui vediamo o sentiamo, non sono poi così distanti.

Quali sono le ricadute sociali di questa esperienza?
Si attirano molte persone, perché hanno voglia di esprimersi, perché cercano sostegno economico e perché capiscono che è un modo radicale di mettere in discussione la propria vita.   

Leggi anche l’articolo  Milano può fare a meno di Macao? di Bertram Niessen

Con Macao si mangia?
Si mangiano le verdure dei produttori indipendenti, le marmellate di Rinaldo, le arance della Sicilia e l’olio della Puglia comprate in Commoncoin e in Faircoin (monete alternative che negli anni ci siamo inventati). Tutti gli artisti del programma vengono pagati. In più distribuiamo un reddito di base a tutti i partecipanti. Macao non basta per vivere, ma il sistema di redistribuzione solidale di beni e servizi ci permette di essere più liberi e di poter rifiutare qualche lavoro di merda in più.

Come fate a stare in piedi?
Non stiamo solo in piedi. Stiamo anche coricati, a volte ci rotoliamo nel fango. Sappiamo fare anche la verticale sulla testa. Abbiamo occupato il grattacielo di Ligresti, abbiamo proposto di fare il nuovo museo della Grande Brera, vogliamo comprare un edificio milionario senza avere un soldo, e davvero non scherziamo. Abbiamo centinaia di tesi di laurea e dottorato dedicate al nostro modello di organizzazione culturale ed economico… Per cui spesso abbiamo dei cali di pressione, ci consigliano di stare un po’ seduti e tirare in alto le gambe per fare andare il sangue alla testa.

Qual è l’ostacolo più grande che volete superare?
Ciò che impedisce di essere felici o di eliminare la violenza di genere ed essere sostenibili.

Fate parte di un network più grande di voi?
Sì. Non solo di uno ma di tanti. Alcuni sono fatti di legami intensi, altri sono più di formali.
Prima di tutto gli artisti, gli amici, gli intellettuali, gli altri esercenti del quartiere e della città. Poi la rete dei teatri occupati italiana, o quel che ne rimane. Nonunadimeno e tanti collettivi femministi e transfemministi. I movimenti per la lotta ambientale e il network globale di Faircoop e Bank of the Commons. L’Institute of Radical Imagination: una piattaforma di grandi musei e nuovi centri d’arte per un mondo post-capitalistico. Tante università e progetti sparsi per il mondo.
Organizzare le reti è la sfida del secolo e  quello che conta è la qualità delle relazioni che si si instaurano.

Cosa avete intenzione di fare per creare un futuro migliore?
Non saprei… una festa è meno impegnativa di un’assemblea, ma sono tempi bui… e ci si accontenta anche di poco: basterebbe farla finita con sessismo e razzismo, e introdurre un vero reddito universale di esistenza.


Tutte le foto sono di Luca Chiaudano




Innovazione urbana. Milano può fare a meno di Macao?

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Le città devono costantemente misurarsi con l’emergere di nuove istituzioni e nuove organizzazioni che rispondono a nuove necessità. Chiamatele, se volete, forme d’innovazione urbana.

Il Centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca Macao – che oggi è al centro di un complesso caso politico-amministrativo che rischia di concludersi con lo sgombero – ne è un tipico esempio. Nato nel maggio 2012 come esito di una mobilitazione dei lavoratori del mondo dell’arte, ha segnato un momento di forte innovazione rispetto alla tradizione milanese del rapporto tra movimenti sociali e spazi occupati. Se i centri sociali degli anni ’80, ’90 e 2000 avevano una filiazione diretta – per quanto complessa, articolata e talvolta contraddittoria – con il periodo de ”l’Orda d’Oro” (1968-1977), la prima occupazione di Macao era più vicina alle mobilitazioni assembleari che in quegli anni smuovevano Stati Uniti (Occupy) e Spagna (Indignados) e che in Italia prese la forma delle occupazioni dei lavoratori della cultura e dello spettacolo (Teatro Valle a Roma, Ex Asilo Filangeri a Napoli e molti altri).

Si tratta di realtà contigue al mondo dei Centri Sociali, che ne condividono in parte metodi e pratiche ma che hanno tra i propri obiettivi costitutivi due punti-chiave che per le occupazioni “tradizionali” erano solo accessori: la mobilitazione diretta dei lavoratori della cultura e la costituzione di poli indipendenti per le arti, la musica e la cultura.

In questo senso, quindi, esperienze come Macao hanno più punti di contatto con omologhi internazionali come il !Wowow! di Peckham, il Kunsthaus Tacheles di Berlino, il 59 Rue de Rivoli di Parigi o il Metelkova di Ljubljana che non con importanti luoghi storici dell’underground politico come il Cox 18 o il Leoncavallo a Milano o il Forte Prenestino a Roma.

Come e ancora più che per questi ultimi, quindi, il destino dei centri culturali indipendenti occupati chiama in causa la governance culturale di una città. Si tratta di vicende complesse che hanno implicazioni sia sul livello delle grandi questioni di principio che su quello estremamente pragmatico delle norme.

Giusto per inanellare una serie di questioni, a cui non si può pretendere di rispondere in queste poche righe ma che non ci si può esimere di affrontare nella costruzione della governance culturale di un territorio:

È giusto occupare illegalmente spazi non utilizzati? Ed è giusto farlo solo quando sono pubblici (come pubblica è l’attuale casa di Macao, l’ex Borsa del macello di Milano) o anche quando sono privati (come nel caso della prima clamorosa occupazione dei 33 piani della centralissima Torre Galfa)?

Gli eventi organizzati in questi spazi devono essere sempre e costantemente gratuiti o devono avere un “prezzo sociale”? In questi casi è legittimo pensare ad un “auto-reddito” o ogni prestazione deve avvenire a titolo puramente volontaristico?

Il rapporto con il quartiere ed il territorio di riferimento è importante per esperienze che spesso nascono in zone ex-industriali? Cosa è auspicabile e da quale punto di vista?

Questi spazi costituiscono una forma di concorrenza sleale nei confronti di esperienze interamente regolamentate i cui costi di gestione sono molto più alti o svolgono piuttosto il ruolo di enzimi di sperimentazione che possono essere poi ripresi e sistematizzati?

A chi e in che misura spettano le spese di messa a norma di quegli spazi che rappresentano il lascito – meraviglioso, decadente e scomodo – della città fordista?

Quali tipi di relazioni possono intercorrere tra le istituzioni riconosciute, la pubblica amministrazione e organizzazioni che hanno scarsa o nessuna ufficialità?

Esperienze di questo tipo costituiscono un baluardo della società civile nei confronti della ratio puramente speculativa del mercato immobiliare o fungono piuttosto da avanguardie per processi di gentrification che in tempi brevi impoveriscono i tessuti urbani che li hanno generati?

Non sono domande con le quali si confronta solo Milano: la maggior parte delle grandi metropoli occidentali ha provato a rispondere in questi ultimi vent’anni con soluzioni che non sono mai binarie (si o no; giusto o sbagliato) ma dipendono sempre da variabili culturali, politiche, sociali ed economiche e da complessi sistemi di forze e di poteri situati nello spazio e nel tempo. Sono domande che si stanno riproponendo anche in questi giorni, negli articoli di giornale e sui social network. Nei dibattiti che si stanno infiammando abbondano però appelli ai massimi sistemi o questioni di lana caprina; nessuno dei due approcci sembra particolarmente utile in questo momento.

Guardando a quello che succede a Milano, Italia, sul finire del 2018 ci sono piuttosto tre evidenze ineludibili che costituiscono il presupposto di base per ogni scelta su questa particolare forma di innovazione urbana.

La prima è che Macao è un luogo insostituibile nella costituzione del panorama culturale della città. Quando viene un amico dall’estero che ha già visto il Castello Sforzesco, lo Stadio o Il Duomo dove lo porti? A Macao. Nonostante il rilancio degli ultimi anni – e nonostante il lavoro finalmente internazionale che stanno facendo alcune istituzioni ufficiali e un numero crescente di organizzazioni più o meno “dal basso”- senza Macao Milano perderebbe uno dei suoi pilastri del Contemporaneo. Niente più residenze artistiche. Niente più concerti di musica più o meno sperimentale e niente più performance teatrali (incalcolabili, ma sicuramente nell’ordine delle migliaia). Niente più festival come Saturnalia, che con le sue 30 ore e 47 performance è diventato uno dei punti di riferimento qualitativi su scala europea. Niente più, insomma, produzione e distribuzione di una parte significativa di opere che vivono in circuiti paralleli e complementari a quelli ufficiali puramente di mercato.

Se Milano vuole provare ad essere davvero una città di rilievo internazionale non può permettersi il lusso di privarsi di un luogo di questo tipo. Tocca rimboccarsi le maniche e pensare ad un percorso comune.

La seconda ha a che fare con lo spreco di capitale umano, e si comprende meglio se si guarda in retrospettiva al percorso seguito dagli attivisti dei Centri Sociali più tradizionali. All’inizio degli anni ’00 Milano era, assieme a Roma, un’avanguardia europea nella costruzione di modelli ibridi di aggregazione politica e socio-culturale che erano in grado di leggere ed agire le trasformazioni del contemporaneo. Luoghi come Pergola, Garigliano e il Bulk non erano solo spazi di aggregazione che riunivano ogni fine settimana decine di migliaia di giovani per metterli a confronto con la produzione culturale di Londra, Berlino o New York. Erano anche laboratori di costruzione di competenze professionali all’insegna dell’interdisciplinarietà e del bricolage: hacking, scenografia, design, organizzazione e comunicazione di eventi. Saperi che sono alla base delle economie immateriali e che sono stati dispersi quando centinaia di attivisti sono emigrati nella seconda metà degli anni ’00 in seguito al disastro gemello della repressione istituzionale e della crisi finanziaria. Si tratta di una sciagura che una città che aspira ad essere nodo globale deve assolutamente evitare di ripetere.

La terza riguarda la natura stessa di quell’innovazione che sembra essere così importante nello storytelling della Milano d’oggi.

Ogni territorio si trova continuamente di fronte a scelte politiche che mettono in discussione il rapporto tra spazi di cittadinanza e nascita di nuove istituzioni. Si può optare per un approccio legalista e top-down e sancire che le uniche forme di azione politica, culturale ed economica possibile sono quelle che nascono, crescono e muoiono all’interno di uno stretto sistema di norme date, oppure si può decidere che il sistema di leggi è un insieme di strumenti in divenire che deve costantemente accettare le sfide che vengono poste da ciò che si trova attorno – e perché no, al di là – di quello che è consentito.

Alla luce del quadro reazionario della politica italiana ed europea – che guarda caso negli ultimi tempi gioca sempre di più sul crinale di un legalismo peloso – Milano non può non trovare una strada che consenta alle forme di innovazione dal basso di nutrire il resto della società.




Take Care and Make Your Coin. MACAO al Festival di Santarcangelo

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2017 – Eva Neklyaeva, la direttrice artistica della stagione del Festival di Santarcangelo 2017/2019, seduta all’InfoPoint di MACAO ci chiede di raccontare quali sono le forme di organizzazione e di redistribuzione economica che stiamo sperimentando: è la prima volta che un’istituzione culturale italiana si interessa di questi aspetti.

Nasce così una collaborazione a lunga durata volta a contaminare un festival di teatro e arte performativa nato nel ‘71, con alcune delle tematiche e riflessioni che si sperimentano nel cosiddetto movimento delle “Nuove Istituzioni del Comune”. Il progetto si apre con un’inchiesta di MACAO ai lavoratori e alle lavoratrici del Festival – per capire i meccanismi interni e le economie di produzione –, che si formalizza in un’installazione di dati accessibili e interattivi, l’Open Love Point, in una delle location durante l’edizione del 2017.

La domanda che sottende questo incontro potrebbe sintetizzarsi così: gli ambienti economici che alcune comunità culturali e politiche stanno disegnando, possono essere tradotti all’interno di modelli di organizzazione culturale tradizionali – ovvero con un consiglio di amministrazione, una selezione di artisti/e fatta da una direzione artistica e un pubblico atteso annualmente per la verifica dell’intera operazione?

La sfida non è scontata come neanche il risultato. Ciò su cui vale la pena puntare è l’impatto culturale che una “performance” come questa può produrre. Se è vero che l’utopia scatena nuovi orizzonti per pensare e immaginare come vogliamo vivere, è anche vero che rivendicare l’utopia è qualcosa che ha molto a che fare con l’arte.

2016 – Come risposta a una precarizzazione del lavoro e della vita sempre più intensiva, la comunità di MACAO lancia una sperimentazione interna di remunerazione delle attività svolte attraverso una moneta virtuale chiamata “CommonCoin”. La sua progettazione comincia un paio di anni prima (Effimera, 21/22 giugno 2014) grazie alla collaborazione di diversi ricercatori e ricercatrici e di Dyne.org Foundation.

L’idea è quella di creare una moneta che permetta di rendere la sua riproduzione indipendente dal ciclo di valorizzazione del capitale, capace di uscire dalla logica del rapporto salariale e dell’economia della promessa, per innescare un processo di risignificazione collettiva del valore. La sua successiva integrazione con un Basic Income interno alla comunità, ha lo scopo di “liberare tempo” e rendere più sostenibile lo sviluppo di una serie di attività produttive autonome e un maggiore investimento nella logica dei Commons. Il disegno complessivo è quello di un dispositivo tecno-politico volto a sperimentare il governo di uno spazio e di una comunità secondo un’etica post-lavorista. Il desiderio, infatti, è quello di erodere lo spazio che occupa il lavoro salariato nelle nostre vite e nel nostro immaginario, non solo per lavorare meglio ma per lavorare meno. “To ‘have time’ means to work less” (Dalla Costa 1971, 15) e, in effetti, abbiamo bisogno di tutto questo tempo per trasformare il nostro immaginario sul lavoro. Così, l’aspetto più interessante di questa sperimentazione si lega alla pratica di ripensare il valore, attività che porta la comunità di MACAO a visibilizzare e remunerare ciò che tendenzialmente non si riconosce: dalla cura delle relazioni alla partecipazione ai processi di governance. L’ambito ricreativo, l’ozio e la cura, diventano così i luoghi della cooperazione sociale e della produzione di ricchezza, stimolando il superamento del modello valoriale quantitativo, verso una sua prospettiva qualitativa: un’economia “affettiva” che si sviluppa intorno all’intensità relazionale e che valuta questi processi, prima ancora di prodotti specifici (Massumi, 2018).

2018- Tornando ai risultati dell’inchiesta sul Festival di Santarcangelo, due sono gli aspetti che più emergono. Da una parte, le scarse economie complessive che il Festival raccoglie ogni anno tra fondi pubblici e privati, se paragonate all’impatto sul territorio e alla dimensione del suo programma, problema che a cascata provoca altre criticità. Dall’altra, la crescente distanza – reale o percepita – tra cittadini e cittadine di Santarcangelo e l’evento annuale con la sua comunità di “addetti ai lavori”.

Decidiamo di concentrarci sull’aspetto della distanza come elemento da sfatare e come pratica per ristabilire una cooperazione sociale capace di far fronte ad alcuni dei problemi legati alle poche economie disponibili: un’azione necessaria ma da affiancare a più ampi processi di trasformazione delle politiche culturali in Italia.

L’idea è semplice, vogliamo parlare di economia, sentirla come un fatto che ci appartiene e che possiamo reinventare in ambienti capaci di accogliere le comunità che li attraversano, agendo un’etica radicale della cura come condizione di esistenza di una comunità politica (Jordan 2003, 268-274).

Decidiamo allora di contattare gli abitanti di Santarcangelo che si occupano di benessere del corpo, e di salute in generale, per sviluppare un intervento nello spazio pubblico che tenga insieme questa connessione: la costruzione di un’economia circolare attraverso l’ideazione di una moneta locale, la SantaCoin, e l’offerta di servizi per il benessere di una comunità mista, tra abitanti e pubblici, che attraverserà Santarcangelo dal 6 al 15 luglio. Tagli di capelli, massaggi, lettura di tarocchi, tatuaggi, consigli alimentari, esercizi posturali e altro ancora, saranno al centro di un’installazione nella piazza principale di Santarcangelo, durante i fine settimana del Festival (7/8/13/14 luglio 2018).

Il programma si arricchisce di inediti “rituali” di cura con il sostegno di una trentina di professionisti del paese, mentre la circolarità della nuova “crypto” moneta è resa possibile dalla collaborazione con Commonfare e il circuito finanziario di social wallet da loro sviluppato “per assicurare la sostenibilità economica, l’autonomia e la libera espansione delle buone pratiche di welfare cooperativo” (Commonfare, 2018).

Il Festival di Santarcangelo diventa dunque il luogo ideale dove giocare “ai soldi” e il progetto Crypto Rituals lo spazio performativo per la produzione di Commons.

Con SantaCoin, sotto forma di talismano dotato di un QR code, il pubblico accede a tutti i servizi del Festival – dagli spettacoli alla mensa, dalla manicure alla lettura di tarocchi. Anche la comunità di locali coinvolta nel progetto può spendere le SantaCoin percepite durante i fine settimana, generando così più momenti di scambio tra cittadinanza e Festival.

Futuro

A Festival chiuso, gli attori del progetto si incontreranno per capire insieme cosa fare del plusvalore che Crypto Rituals potrebbe produrre. Forse si deciderà che “rilassarsi” deve poter essere una pratica accessibile e un bene comune, forse si deciderà di pagare lo stipendio della Sindaca in SantaCoin o forse accadrà qualcosa che semplicemente non si può predire. Quello che ci interessa è stimolare le persone a immaginare ambienti economici e relazionali differenti e a pensare chi sono e cosa fanno all’interno di questi ambienti.

Il rifiuto dell’economia della scarsità non può che essere un gioioso “no” collettivo a un modello, per crearne un’altro più vivibile e contagioso.

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Talismani in biglietteria

Bibliografia

Convegno a cura di Effimera e MACAO. 2014. La sfida della Moneta del comune e dell’istituzione finanziaria del comune: quali alternative reali? Un primo laboratorio di discussione. Milano.

Dalla Costa, Mariarosa. 1971. Women and the Subversion of the Community.

Massumi, Brian. 2018. 99 Theses on the Revaluation of Value: A Postcapitalist Manifesto. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Jordan, June. 2003. Some of Us Did Not Die. New York: Basic Books.

Commonfare. 2018. Santacoin – Commonfare powers Crypto Rituals at Santarcangelo Festival.




Macao, Milano. Rosetta alla conquista dello spazio

macao milano rosetta alla conquista dello spazio

Rosetta alla conquista dello spazio.
Appunti per un diritto alla città

Il 9° appuntamento con il ciclo di incontri Rosetta. Un progetto culturale nomade, ideato da cheFare e Casa della Cultura con Fondazione Cariplo, è Mercoledì 13 Dicembre 2017 a Macao, in Viale Molise 68 a Milano.

In un centro per le arti in cui artisti e cittadini si uniscono e inventano un nuovo sistema di regole per una gestione condivisa e partecipata, ci chiederemo se esiste un “diritto alla città” e come si configura.

Programma
19.00 – Rosetta alla conquista dello spazio. Conversazione
Introduce Emanuele Braga per Macao

Partecipano:
Michel Bauwens – scrittore, attivista, fondatore della P2P foundation
Tito Faraci – fumettista e scrittore
Enzo Mingione – professore di sociologia economica, Università di Milano-Bicocca, presidente della Fondazione Bignaschi
Eva Neklyaeva – direttrice del Festival di Santarcangelo.

Modera Bertram Niessen – direttore scientifico di cheFare

21.00 – Djset di Matteo Saltalamacchia

L’Evento Facebook è qui: iscriviti, invita i tuoi amici, spargi la voce e vieni a Rosetta!

Come declinare nelle pratiche politiche e sociali del quotidiano un “diritto alla città”?
Secondo Lefebvre, “Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città”.

Questa definizione ci permette di interrogarci su alcune questioni centrali nella storia dello spazio che ci ospita come nella nostra quotidianità: come si costituisce sotto un profilo squisitamente giuridico la “città come bene comune”?
Gli scambi e la condivisione (e il peer to peer) possono cambiare l’accessibilità degli spazi e arricchire questo diritto? Ci sono narrazioni che sfidano lo status quo delle città? In che modo gli spazi urbani includono o escludono? Si può ancora parlare della città di tutte e tutti? Quali territori possono essere adibiti alla produzione artistica e culturale?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi che svilupperemo nel corso dell’incontro a Macao, uno dei simboli più interessanti di queste tematiche.




Se Macao non ci fosse

Arco della Pace. Sempione, Milano 24 aprile 2017. Bande con tamburi e cantautori italiani alle casse per dire che “Se Macao non ci fosse…” … bisognerebbe (re)inventarlo. Non bisognerebbe demolirlo, non bisognerebbe lottizzarlo, non bisognerebbe venderlo, non bisognerebbe pagarlo.

La questione è annosa, lo so. Lo sappiamo. L’implicazione sta in ciò che noi costruiamo come “comune”. E prima ancora in ciò che noi intendiamo come tale.

Mettiamola così: Macao c’è da cinque anni e ha prodotto gioia, salute mentale, divertimento, uno spazio in più dove respirare liberamente. Questi bisogni sono talmente antropologicamente dati che non è davvero il caso di doversene privare. Siamo stati pagati per questa produzione? No di certo. Siamo stati sovvenzionati? Ogni tanto le entrate andavano a contributo.

Oggi la minaccia è che Macao scompaia, che venga ingoiato silenziosamente da una società del Comune di Milano per il 99%, una cosiddetta in house (azienda pubblica) che si chiama Sogemi e che, come si vede, ha interessi suoi specifici, diversi da quelli di ciò che per inerzia chiamiamo ancora “Comune”. Sono interessi privati, tediosamente di profitto.

Ma – abbasso i vittimismi! – possiamo ancora tentare la carta del comune col Comune. Possiamo, in altre parole, ricordare al Comune che abbiamo prodotto bellezza insieme (e non ce la siamo fatta pagare), ma adesso però non è che bisogna togliere con la solita carta del profitto qualcosa che è di tutti; una ricchezza di tutti, che – noi proponiamo – al posto di essere accumulata sarà diffusa. Di questo si tratta: diffondere al posto di accentrare. È così che potremo davvero ritrovarci più ricchi.

Sogemi – “la Società per Azioni che, per conto del Comune di Milano, gestisce tutti i mercati agroalimentari all’ingrosso della Città, garantendone il funzionamento tramite l’erogazione di qualificati servizi atti a supportare le attività commerciali svolte dagli operatori” – propone l’ennesimo polo enogastronomico per impoveriti spendaccioni presi per la gola. Ma a leccarsi i baffi non saremo tutti. Sarà in primis la Sogemi S.p.A.

Il Comune non ha affatto detto No a Macao. C’è spazio per negoziare un diverso uso della palazzina Liberty di Viale Molise 68.

Ma spetta a noi tutti, cittadini e non, trovare la tattica giusta per offrire una proposta concreta che non faccia finire questo spazio nel tritacarne della speculazione edilizia. Allora, sono giunti consigli preziosissimi dall’esperienza tedesca degli ultimi vent’anni.

È nel 1990 che nasce il Mietshäuser Syndikat a Friburgo. Un’astuzia giuridica, così ben congegnata che dura ancora, permette di evitare gli sfratti. Un’idea deliziosamente ambiziosa: comprare casa collettivamente. E come si fa? Negli anni in Germania (e poi in Norvegia, in Svezia, Svizzera, Olanda…) si è affinata una tecnica che pare essere stata inizialmente concepita da un avvocato engagé, Matthias Neuling.

L’idea è questa: una forma societaria assimilabile all’italiana SrL (società a responsabilità limitata) ha la proprietà del bene, e i suoi due azionisti sono l’assemblea di abitanti e il sindacato. L’assemblea è sovrana nella gestione del luogo, ma per decisioni per così dire straordinarie, ossia di trasformazione del luogo, di diverse destinazioni d’uso etc. la scelta deve essere congiunta (assemblea + sindacato).

Gli abitanti pagano un contributo mensile (che nel caso tedesco di solito si aggira attorno ai 300 euro comprensivi di spese) per l’uso del luogo, che rimane distinto dalla proprietà, la quale rimane collettiva. Questi canoni di locazione sono dei crediti bancari a tassi simbolici.

Sì perché, di fatto, la questione sta tutta nel trovare un 40 % di capitale proprio e farsi prestare da banche che hanno vocazione particolarmente etica il 60 %. Allora, la prima percentuale dove andarla a pescare? Cioè, il problema abitativo sta proprio nel fatto che gli immobili hanno un costo proibitivo.

A mano a mano che il Mietshäuser Syndikat, dimostrando l’efficacia del proprio operato, ha ricevuto fiducia, è diventato più facile trovare quel 40 % mediante il prestito di amici e di sostenitori – oggi si potrebbe anche pensare a un crowdfunding. E’ così che questo conglomerato di progetti abitativi anche molto differenti l’uno dall’altro consta già di 123 progetti, 2.839 abitanti, investimenti per 129 milioni di euro, per sempre strappati alla speculazione immobiliare.

Chiaramente, le regole ci sono. Principalmente, i luoghi condivisi implicano, come ricorda Emanuele Braga, che

1. non si vada in rosso.
2. non se ne tragga profitto.
3. non si venda.

Gli obiettivi che legano tutti i progetti immobiliari, pur nella loro diversità, sono i punti di partenza comuni:

– Una comunità di persone localizza case vuote/disabitate: decide di abitare insieme sul lungo periodo, cerca strutture adeguate, spesso con spazi comuni per eventi pubblici, assemblee, progetti e iniziative imprenditoriali.
– Oppure, residenti di lungo periodo di una casa che non si rassegnano alle intenzioni del proprietario di vendere, progettano in modo auto-organizzato di acquisire la “loro casa”.
– Oppure, gli occupanti di un immobile destinato alla demolizione (o ad altro uso) cercano una prospettiva nonostante gli inevitabili contraccolpi emotivi derivanti dalle minacce di sfratto e negoziazioni.

Perché farlo?

– desiderio di auto-organizzazione
– necessità di alloggi a prezzi accessibili (lotta contro i meccanismi di gentrificazione)
– avere uno spazio culturale
– creare uno spazio politico
– abitazioni ecologiche
– “nuove” forme di convivenza (vivere insieme e non da soli)
– motivazione politica (mettendo in discussione e trasformando il concetto di proprietà)
– creazione di proprietà gestite dai commons
rete di solidarietà della Mietshäuser Syndikat

Se Macao fosse immesso nel mercato immobiliare questa chance non ci sarebbe. È evidente che sui soldi si è sempre perdenti. Non ci si può battere con la Sogemi SpA perché le armi non sono pari. Ma Macao è ancora un luogo comune, per il quale ci si può battere anche con astuzia giuridica.




Una giornata a Macao

Se si arriva a Macao prendendo una linea del passante e si scende alla fermata Porta Vittoria ci si trova davanti ad un paesaggio urbano che ha certamente l’aspetto di un cantiere, un’area in costruzione. Edifici residenziali incompleti o ancora vuoti, aree verdi in stato di abbandono, cumuli di terra, recinzioni sono tutti elementi che compongono un cantiere che dura da più di dieci anni e che avrebbe dovuto contribuire alla riqualificazione dell’intera porzione urbana, grazie soprattutto ai servizi della collettività, tra tutti la Biblioteca Europea d’informazione e cultura che non verrà mai realizzata.

Alle spalle della fermata del passante si può scorgere il complesso dei Frigoriferi Milanesi, uno dei maggiori magazzini del ghiaccio in tutta Europa, ora riconvertito a spazio polifunzionale in cui si sono insediate numerose aziende che operano nel campo dell’arte e della cultura.

Procedendo su viale Molise – in una zona ad alta densità abitativa, molto diversificata sia in termini di culture che di reddito – al civico 68 ha sede Macao, a fianco di alcuni capannoni abbandonati, facenti parte del complesso dell’ortomercato e di proprietà di Sogemi, di cui si possono intravedere gli imponenti scheletri attraverso le cancellate. Molte delle strutture affacciate su viale Molise e oggi in disuso, erano in precedenza destinate a funzione amministrativa e burocratica e connesse alla presenza del complesso ortofrutticolo.

Nello specifico, il collettivo – che nel 2012 aveva occupato prima la Torre Galfa e poi Palazzo Citterio – ha trovato sede nell’ex Borsa del Macello, un edificio storico costruito tra il 1912 e il 1924, cui si accede attraverso una scalinata e un porticato esterni.

Una volta superato l’ingresso ci si trova all’interno del salone balconato che conserva ancora tutta la bellezza di uno spazio in perfetto stile liberty. Si tratta di una sala a pianta quadrata, di circa 20 per 20 metri, con un’altezza di circa 11 metri, un tempo adibita a sala delle aste dove si decidevano i prezzi della carne e dove avvenivano gli scambi monetari tra venditori e compratori di grande quantità di prodotti.

Il perimetro del salone è circondato da un colonnato che sostiene il ballatoio del piano superiore. Le colonne sono quasi tutte decorate da elementi floreali al piano terra, e da applique con decorazioni di ferro battuto al primo piano, che, insieme alla boiserie sulle pareti, contribuiscono a restituire quel sapore liberty caratteristico dell’inizio del XX secolo.

Il salone era un tempo sormontato da un doppio lucernario in vetro che ad oggi è stato sostituito da una copertura in plexiglass come primo lavoro di ristrutturazione da parte degli occupanti, per poi procedere con la sostituzione delle finestre.

Sia a piano terra che al piano superiore, dietro il colonnato si trovano i corridoi su cui affacciano una serie di porte da cui si accede ad alcune stanze di dimensioni più ridotte adibite a sale cinema, sale prova, studi artistici, laboratori di falegnameria, verniciatura, saldatura, officine, spazi accessibili e aperti a tutti, utilizzati sia da membri del collettivo che da frequentatori più occasionali.

I due vani scala si localizzano rispettivamente a destra e a sinistra del salone centrale. Si accede così all’ultimo piano, dove si trovano due hangar di 26 per 10 metri ciascuno, che fungono anch’essi da spazi multifunzionali nei quali è possibile costruire e allestire scenografie e particolari installazioni e ambientazioni.

La sala, dove ora è stato allestito anche il bar, è certamente lo spazio più flessibile e multifunzionale dell’edificio ed è utilizzato per tutti i grandi eventi organizzati dal collettivo, concerti, spettacoli, proiezioni, convegni, mostre ed esposizioni come, per citarne alcuni, il Cinemacello – il cinema di Macao – workshop di autocostruzione, la fiera di editoria indipendente INEDITO e molti altri.

Ogni proposta che sembra essere in linea con il posizionamento di Macao viene presentata, discussa e approvata durante l’assemblea centrale, aperta ed accessibile a tutti, che si riunisce settimanalmente. È poi l’amministrazione centrale che si occupa della gestione dello spazio, dell’accesso ai mezzi di produzione e successivamente della redistribuzione dei profitti.

Durante la Milano Fashion Week di giugno 2016 l’assemblea centrale di Macao ha deciso di ospitare la sfilata dello stilista croato Damir Doma e di affittare, quindi, lo spazio in forma di donazione per un evento ufficiale del circuito moda, sufficientemente distante dalle logiche e dai contenuti di sperimentazione di Macao.

Tuttavia l’identità e il contributo del collettivo anche in questo caso hanno giocato un ruolo fondamentale che è stato dichiarato a conclusione della sfilata quando, ad insaputa degli organizzatori e dello stilista, è stato emesso il comunicato stampa ed è stato appeso sulla facciata dell’edificio uno striscione che indicava “con la sfilata ospitata negli spazi di Macao, la Milano Fashion Week finanzia l’opposizione al governo fascista di Erdogan”. Il ricavato dell’affitto è stato, quindi, funzionale a sostenere altre cause rilevanti e di interesse per il collettivo, e perciò inserito in una programmazione e in una riflessione più ampia e complessiva.

Tale episodio testimonia la volontà di Macao a proporsi principalmente come una modalità operativa e alternativa del fare cultura più che come uno spazio fisico multifunzionale.




L’identità di Macao e il suo processo produttivo

Siamo nella periferia est di Milano, viale Molise 68, a fianco dell’Ortomercato, una delle più grandi aree abbandonate localizzate in centro città di tutta Europa – e di uno dei più grandi fallimenti urbanistici degli ultimi tempi. Qui dovevano sorgere un complesso multifunzionale, costituito da residenze, alberghi, commercio, aree verdi ma soprattutto la BEIC – la Biblioteca Europea d’informazione e cultura. Invece è tutto fermo, da anni, ed è di qualche mese fa la notizia del fallimento della società Porta Vittoria spa.

È in questo contesto urbano che ha sede Macao – “il nuovo centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca” – occupando l’Ex Borsa del Macello di viale Molise, una palazzina liberty inutilizzata da anni e anch’essa coinvolta in un progetto di riqualificazione più ampio mai realizzato.

La nascita di Macao, quando ancora non si chiamava così, ha a che fare dapprima, nel 2011, con un percorso politico teorico di persone, i Lavoratori dell’Arte e dello Spettacolo, in altre parole con la mobilitazione di una rete di soggetti e di società civile legata alla produzione creativa e artistica ma anche alla ricerca, al lavoro, all’economia e allo sviluppo urbano, con l’obiettivo di “promuovere l’arte e la cultura come beni comuni e sviluppare pratiche e discussioni intorno alla necessità di costruire un nuovo welfare culturale”.

La prima stagione di questo movimento si è dislocata per circa nove mesi in modo itinerante e disperso in giro per la città, criticando il panorama milanese delle istituzioni culturali, perché troppo legate a grandi progetti e investimenti e per il rapporto poco indagato tra arte e sfera pubblica. Da qui scaturiva una sofferenza per l’effettiva mancanza di spazi ma soprattutto di progetti culturali e multidisciplinari che avessero un ruolo sociale, e il bisogno di provare a trasformare la cultura da semplice programmazione di eventi a condizione sociale diffusa e accessibile a tutti, sostenendo una produzione culturale e di lavoro come common ground tra tipologie di attori diverse, a prescindere dal luogo in cui si realizzano.

Gradualmente è emersa la necessità di dotarsi anche di un luogo fisico, dopo aver monitorato per qualche tempo i potenziali luoghi abbandonati dove potersi insediare. I primi tentativi di legarsi a una dimensione spaziale si verificano nel maggio del 2012, con l’occupazione di due immobili molto diversi tra loro, prima della Torre Galfa – ex sede di una banca, rimasta in attesa di una riqualificazione possibile dal 1996 – e poi di Palazzo Citterio – edificio storico inserito nel progetto “Grande Brera” – come occasione per provare a dimostrare che la capacità cooperante e che modalità alternative di produrre arte e cultura possono essere messe a servizio della collettività, avere un ruolo nel ripensare la città e alcune dinamiche della società e possono anche generare delle richieste precise nei confronti dell’amministrazione.

È nel giugno del 2012, dopo entrambi gli sgomberi – e dopo la proposta del Comune di utilizzare gli spazi dell’ex Ansaldo come officine per la creatività per tutti i soggetti che avessero voglia di confrontarsi sul panorama culturale milanese – che Macao si insedia all’interno della Palazzina Liberty, di proprietà di Sogemi, la società a partecipazione comunale che gestisce la grande area dell’Ortomercato e i mercati milanesi. Si tratta di un edificio in stile Liberty del XX secolo, di cui mantiene ancora il fascino e le decorazioni floreali, cui si accede attraverso un’ampia scalinata esterna. In stato di abbandono e degrado dal 1980, è composto da due piani che si affacciano su un salone centrale, dove si contrattava il prezzo della carne, inizialmente coperto da un lucernario di vetro e poi sostituito da plexiglass come primo lavoro di ristrutturazione da parte dei membri di Macao, dando il via ad un processo lungo e a costi molto contenuti di pulizia e riappropriazione dello spazio.

Attorno al cortile centrale si sviluppano poi il bar e un labirinto di stanze, vani scala, corridoi da cui si accede ad altre stanze, alcune adibite a spazi tecnici, altre a sala cinema teatro o a piccoli studioli di registrazione.

La costituzione di Macao, con il suo contributo alla scena pubblica e all’immaginario collettivo, ha da una parte generato “un corto circuito, un elemento di discontinuità rispetto allo scenario standard”, accelerando anche alcune politiche e strategie dell’amministrazione. Dall’altra è in qualche modo riuscito a richiamare a sè molte energie, curiosità e partecipazione, una specie di spinta all’azione collettiva e spontanea, sviluppatasi come esito di un bisogno urbano generazionale – di quei lavoratori della produzione creativa e operatori culturali con molte competenze ma intrappolati in una condizione di sostenibilità individuale multi-tasking – che necessitava, in un modo o nell’altro, di nuove possibilità, strumenti e proposte.

Rispetto al nucleo originale di partenza e grazie anche alle diverse esperienze di occupazione, Macao si è notevolmente modificato e ampliato nel tempo, dotandosi progressivamente di un modello decisionale orizzontale e di una governance aperta, accessibile a chiunque e cui non corrisponde un’organizzazione interna nel senso più tradizionale del termine. L’unità minima inalienabile di tale modello di governance, mi spiegano, è la composizione dell’assemblea – “che si riunisce settimanalmente e che ha l’ultima parola su tutto, basandosi sul metodo del consenso per cui una decisione o un progetto provano ad essere l’esito di accordi e aggiustamenti tra maggioranza e minoranza dei partecipanti”.

Attorno all’assemblea centrale gravitano i diversi progetti, che devono necessariamente svilupparsi responsabilmente e autonomamente cercando i propri mezzi per essere sostenibili e lasciando poi all’amministrazione centrale un contributo derivante dall’evento organizzato. L’amministrazione centrale ha poi il compito di promuovere l’interazione tra progetti, garantire l’accesso ai mezzi di produzione e gestire la condivisione delle risorse e dei profitti e la socializzazione dei rischi.

La strutturazione per tavoli tematici e progetti – ognuno dei quali possiede lo stesso peso e la stessa posizione, da quelli organizzativi a quelli più di contenuto – la sperimentazione di diverse modalità partecipative, la necessità di fare rete, sia con soggetti simili che con realtà più strutturate e formali, il rifiuto di qualsiasi forma di leadership e di curatela artistica ma invece una produzione culturale organizzata collettivamente e una gestione altamente decentralizzata che cerca di ridurre al minimo i costi dell’amministrazione centrale contribuiscono a rendere Macao una modalità operativa e organizzativa del fare cultura più che uno spazio fisico multifunzionale.

La programmazione è molto varia, da concerti a seminari di approfondimento politico, performance teatrali, proiezione di film, corsi di formazione per comunità specifiche, percorsi espositivi – arrivando ad ospitare uno degli appuntamenti della Settimana della Moda ma declinandolo attraverso contenuti alternativi – cercando di mantenere sempre una sensibilità alla sperimentazione, soprattutto musicale e alla contaminazione tra linguaggi performativi e discipline che siano in grado di accogliere pubblici e target diversificati a seconda dei contenuti artistici e tematici che vengono mobilitati. Capita spesso che molte delle persone che frequentano Macao, soprattutto in relazione alla programmazione musicale, decidano poi di prendere parte ad alcuni progetti avanzando delle proposte, partecipando quindi all’assemblea e al tavolo tematico specifico. Questa modalità è stata ufficializzata attraverso una call promossa ogni due settimane con l’obiettivo di chiamare a raccolta tutti i progetti esterni e capire se si tratta di un progettazione isolata o di un primo accesso per collaborare con continuità.

Più recentemente Macao sta sperimentando l’utilizzo di piattaforme cooperative e di infrastrutture economico-finanziarie alternative, grazie alla partecipazione a progetti europei e al partenariato con altri casi. Nello specifico la sperimentazione riguarda da una parte la possibilità di far circolare internamente tra l’assemblea centrale e i diversi progetti una criptomoneta, che ha consentito di automatizzare un processo già implicito usando un circuito di valorizzazione per cui “più si contribuisce allo spazio, più si ha diritto ad usarlo e a prendere parte alla gestione della programmazione”. Dall’altra l’inserimento all’interno di una cooperativa europea che fornisce un’unica identità legale e fiscale per chiunque vi aderisca consente di abbassare ulteriormente alcuni costi.

L’identità di Macao e il suo processo produttivo non sono quindi predeterminati ma sono costantemente ridiscussi e negoziati nel tempo, gli esiti di un processo inclusivo che coinvolge tutti i nuovi soggetti che ogni volta si aggiungono al percorso e vi partecipano come ad un laboratorio condiviso. “Abbiamo provato a costruire un’ecologia in cui condividiamo quello che facciamo, redistribuendone il valore alla collettività”.




Lontano da un vago vitalismo: un saggio di Emanuele Braga

Fin da un primo sguardo Moleculocracy. Ecologie, Conflitti, Turbolenze di Emanuele Braga si presenta come un libro agile: capitoli brevi, intervallati da diagrammi che, come appunti grafici, sembrano presentare visivamente quanto viene esposto con la scrittura.

Moleculocracy viene descritto dagli stessi editori come un “pamphlet politico di ecologia radicale”. Come tutti i pamphlet che si rispettino, anche in questo caso le argomentazioni emergono grazie a dei distanziamenti critici nei confronti di altri posizionamenti teorici e politici. Un approccio alternativo per entrare in questo testo potrebbe dunque consistere nel domandarsi: quali sono gli obiettivi polemici di Moleculocracy? O, meglio, da cosa intende prendere le distanze questo testo?

Una risposta che non lascia spazio a equivoci si può trovare già nelle prime pagine, dove Braga dichiara apertamente la sua lontananza sia da una visione tecnocratica del mondo, e sia da un approccio fondato su un vago vitalismo, che vira verso un rifiuto preconcetto di qualsiasi forma di organizzazione tecnica della vita. Ecco che proprio grazie a questo allontanamento critico si libera lo spazio per poter esplorare uno dei temi centrali del libro, ovvero individuare e, in un certo senso, favorire, i punti di contatto tra prospettive che apparentemente potrebbero sembrare incomunicabili: le strategie di lotta dei movimenti transfemministi, ecologici e decoloniali e le scoperte che derivano dalla fisica, dalla biologia e dalla chimica che hanno portato queste scienze fuori dai paradigmi del neodarwinismo competitivo; le tattiche di resistenza post-operaiste e le forme di pensiero che hanno contribuito, negli ultimi anni, a delineare nuove modalità di convivenza con universi e agenti inumani; il materialismo dialettico e il materialismo speculativo.

Non si tratta però di un’operazione volta a livellare, a offuscare le differenze creando un unico, generico, contenitore speculativo. Al contrario, la strada che sceglie Braga si basa sulla fondamentale irriducibilità di queste esperienze, favorendo gli attriti che possono emergere quando un concetto o una strategia, originati in specifiche coordinate teoriche e pratiche, vengono impiegati in un contesto differente. Allo stesso tempo, sono proprio le situazioni di conflitto, di agitazione, a far saltare i confini. Ossia a mostrare che strani e nuovi mutualismi possono generarsi di fronte a situazioni critiche condivise, com’è quella portata dai cambiamenti climatici. Questo punto costituisce un aspetto cruciale che vale la pena sottolineare, per evitare malintesi. Se fin dal terzo capitolo si impiegano concetti ripresi dalla termodinamica e dalla fisica quantistica, non si tratta di un tentativo di reinterpretare le lotte e i movimenti sociali attraverso quello che si potrebbe definire un approccio analogico. Un approccio, in altri termini, che legge le pratiche sociali e politiche attraverso analogie riprese da tali scienze, con il rischio di appiattire e banalizzare entrambe le prospettive. Nessuna unità ideale a cui aspirare, dunque, ma nemmeno una sfilza di analogie che tenta, attraverso confronti e metafore, di collegare i diversi piani discorsivi.

Scappa, diserta, rifiuta e, nel rifiutare, cerca di costruire nuove ed effimere alleanze

Per chi è alla ricerca di una sintesi conclusiva, rimarrà deluso dalla frammentarietà creativa che anima il testo. Quello che viene proposto è invece un continuo cambio di scala che, come una danza, passa dalle analisi di Prigogine, Stengers, Haraway e Margulis alle dinamiche di autoformazione collettiva derivanti dall’occupazione di Torre Galfa e, in generale, dall’esperienza legata a MACAO. Scelgo appositamente di utilizzare il termine danza, dal momento che, come viene scritto in una nota, l’esperienza fisica della danza e della coreografia costituisce il filo conduttore invisibile che attraversa il libro. È dalla danza, infatti, che viene ripreso questo continuo spostamento tra corpi teorici, così come l’idea di una pratica politica basata sul montaggio temporaneo tra metodi e pratiche eterogenee, come se fossero le situazioni e i contesti esterni a dettare il ritmo che permette di unire i concetti in un medesimo concatenamento.

Su questo punto si misura la distanza fra Moleculocracy e altri lavori che si sono posti obiettivi affini. Ad esempio, pur condividendo con Andreas Malm una posizione scettica nei confronti dei possibili eccessi speculativi dei nuovi materialismi – i quali rischiano di ridurre le responsabilità e le capacità di mutamento umane attraverso un’attribuzione ad ampio raggio del concetto di agentività a tutta la materia – allo stesso tempo, si discosta dal suo approccio nel momento in cui rifiuta di scartare completamente tali teorie. L’attivismo di Malm, inoltre, si differenzia da quello presentato in Moleculocracy per una mancanza di fiducia nella capacità dei movimenti ecologisti e anticapitalisti di trovare spontaneamente forme di autoorganizzazione e cooperazione efficienti.

Prediligendo la variante Capitolocene, Braga non lascia spazio nemmeno a visioni ecopessimiste o a prospettive accelerazioniste: «Se il cambiamento climatico è la reazione di Gaia al capitalismo, il nemico non è Gaia ma le ragioni che lo hanno provocato. Gaia è un’estranea, per coloro che la feriscono si trasforma in un fantasma, mentre altri la conoscono solo attraverso il rimpianto della sua perdita. E chi è il soggetto rivoluzionario? Il soggetto è in cerca di un collettivo che non è composto solo da umani». Se ho insistito con le differenziazioni è perché Moleculocracy è molto esplicito nel sottolineare l’importanza di abbandonare scenari politici che non risultano più adeguati alla situazione contemporanea. Lo si può vedere in uno dei capitoli conclusivi, dove a una serie di “No” più scontati – “no al negazionismo”, “no al biofascismo” – si aggiungono altri rifiuti come un “no al marxismo tradizionale” e al già menzionato “no al fully automated luxury communism”. In questi “no” sembra risuonare la lezione di Bifo contenuta in Disertate: scappa, diserta, rifiuta e, nel rifiutare, cerca di costruire nuove ed effimere alleanze. Questa sezione, tuttavia, non segna la fine del libro.

Nell’ultimo capitolo, come per invertire una rotta che potrebbe assumere delle sfumature pessimiste, Braga presenta allə lettorə una serie di lotte e forme di resistenza in corso, prendendo esempi da tutto il mondo, e che vanno dall’occupazione della fabbrica ex-GKN, alle richieste del reddito di autodeterminazione di Non Una Di Meno, passando per la piattaforma europea Transnational Social Strike e il Manifesto anti-futurista indigeno. Ciò che sembra suggerirci, ponendo in modo discontinuo e frammentato queste rivendicazioni, è che gli elementi per costituire nuove forme di commonig e per creare dei concatenamenti all’altezza del Capitolocene sono già presenti nella nostra contemporaneità, sta a noi però saperli assemblare collettivamente.

 

Immagine di copertina di Casey Horner su Unsplash




I dieci anni del bando cheFare, in un mondo che si è trasformato

Sono passati dieci anni, ma per quanto è cambiato il mondo potrebbe anche essere un secolo. Riavvolgiamo il nastro e torniamo agli inizi del 2012: a Zuccotti Park, New York City, è da pochissimi mesi nato il movimento Occupy Wall Street, che con lo slogan “We are the 99%” e con i metodi dell’occupazione e della disobbedienza civile prova a dare una sveglia alla società su un tema che era – ed è tuttora – il grandissimo assente del discorso politico mainstream: la crescita delle diseguaglianze.

Poco prima, in Spagna, aveva preso vigore il Movimiento 15-M, che verrà poi ricordato con il nome “Indignados” e avrà il suo apice – almeno dal punto di vista mediatico – nella giornata del 15 ottobre 2011, quando sotto questo ombrello si tennero manifestazioni in oltre 900 città e in 82 nazioni.

Sempre nel 2012 erano ancora in pieno svolgimento le Primavere Arabe, anche se – con l’elezione di Morsi in Egitto o il caos in Libia – si stava già comprendendo che le cose non sarebbero andate per il verso da molti auspicato. Sempre le Primavere Arabe avevano nel frattempo grandemente contribuito alla narrazione dei social network come “megafoni della democrazia”, in grado di dare nuovo potere ai netizen di tutto il mondo e attraverso i quali – per dirla con l’allora segretario di Stato USA Hillary Clinton – diventava ovunque possibile “scoprire i fatti e responsabilizzare i governi”.

A proposito di Casa Bianca e dintorni: sempre il 2012 era l’anno in cui Barack Obama otteneva il suo secondo mandato, rinnovando alcune delle speranze in lui riposte. Nel nostro piccolo, l’Italia era invece ancora attraversata da quell’onda arancione che aveva avuto il suo apice – tra l’entusiasmo delle decine di migliaia di persone riversate in piazza Duomo – nell’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco di Milano.

“È stato un momento particolare”, racconta il direttore di cheFare Bertram Niessen. “Un momento di trasformazione del mondo seguito a una fase che, soprattutto per quanto riguarda i movimenti sociali, era invece stata caratterizzata da una certa stanchezza. Da questo punto di vista, anche l’elezione di Obama – per quanto ovviamente da leggere in una chiave di sinistra liberale statunitense – ha contribuito a dare una cornice all’interno della quale l’idea del coinvolgimento pubblico ha iniziato a cambiare. E poi c’erano i movimenti Occupy e degli Indignados che avevano dato nuovo significato al rapporto tra gli spazi pubblici e l’organizzazione dei movimenti, con un importante discorso sulla presa di parola. Dal punto di vista più tecnologico, è invece chiaro come in quegli anni vedevamo ancora i social network, al netto delle criticità già emerse, come il canto del cigno dell’internet anni ’90”.

Al di là dei termini tecnici, il nostro obiettivo è sempre stato lo stesso: costruire istituzioni culturali e sociali partendo da ambienti ben precisi

Con gli occhi di oggi, l’ottimismo, l’entusiasmo e le speranze suscitate in quegli anni generano un misto di emozioni contrastanti. Ma più di ogni altra cosa è impossibile sfuggire alla sensazione che molto sia andato storto e che di tutti quei sommovimenti sia rimasto ben poco. “Non sono del tutto d’accordo e non penso che quell’onda si sia spenta completamente”, spiega Bertram. “Dagli Indignados, per esempio, si è comunque generata Podemos, un’evoluzione certo istituzionalizzante ma significativa. Anche il resto non è che sia sparito: da quella fase sono sorte tantissime cose interessanti e si è generata una forte istanza di apertura delle istituzioni che, soprattutto in città come Barcellona ma anche in Italia, ha avuto degli effetti molto concreti. Penso per esempio alla Fondazione Innovazione Urbana di Bologna o al Polo del Novecento di Torino o anche, in maniera diversa, all’occupazione di Macao a Milano o del Teatro Valle a Roma”.

Ed è proprio in quegli anni – e trovando spinta anche da quelle energie – che nasce il bando cheFare, che nel suo periodo di attività ha finanziato 5 progetti culturali innovativi con 350.000 euro complessivi. Uno strumento nato per aiutare le realtà più legate al mondo della trasformazione culturale a prendere forma, radicarsi e avere un impatto sulla società: “All’epoca non c’erano ancora cose di questo tipo”, spiega il direttore di cheFare. “Abbiamo fatto uno screening di pratiche che stavano emergendo, ma ancora non avevano un nome o una dimensione precisa, penso per esempio all’audience engagement e all’audience development, alle reti territoriali, alle ibridazioni interdisciplinari. Al di là dei termini tecnici, il nostro obiettivo è sempre stato lo stesso: costruire istituzioni culturali e sociali partendo da ambienti ben precisi”.

Per chi osserva questo mondo da fuori, può essere difficile inquadrare l’impatto che iniziative come il bando di cheFare, e le realtà a esso connesse, hanno concretamente avuto: “Partiamo da un aspetto: i finalisti del premio sono stati più di 20 e i semifinalisti 112. Tutte organizzazioni con tante reti e tanti partner che – anche grazie al nostro bando, come ci viene confermato proprio parlando con loro – hanno guadagnato autoconsapevolezza, sono state aiutate a mettere in piedi una strategia e a cambiare modo di pensare e di agire. Oggi, alcune delle organizzazioni che hanno avuto anche il nostro supporto sono radicate e operano in maniera importante: la Scuola Open Source di Bari ormai è una potenza, mentre la Rete delle Case di Quartiere di Torino, nel bilancio sociale del 2019, ha registrato 450mila presenze in una città di un milione di abitanti. Significa che si è creata un’infrastruttura sociale e culturale molto presente”.

In una fase politica come quella che stiamo attraversando, pensare che si possa agire a livello sociale e culturale anche su altri fronti, e ottenendo comunque un impatto concreto, permette di conservare una certa dose di ottimismo. Allo stesso tempo, l’idea che attraverso un bando si supportino realtà di un certo tipo, che poi vanno a operare su determinati territori con l’obiettivo di avere un impatto culturale e non solo, potrebbe provocatoriamente ricordare una sorta di “trickle down economy”, applicata però al mondo sociale.

“Personalmente, sono convinto che l’innovazione sociale per come si è sviluppata nell’ambito anglosassone sia diventata sostanzialmente quello. Il ragionamento che però stiamo provando a fare noi è inverso”, ribatte Bertram. “La domanda che ci poniamo è proprio quale sia il potere istituente che sale dal basso, dalla società civile, e quali siano le proprietà che emergono sempre dal basso e possono iniziare non solo a farsi progetto culturale e sociale, ma a strutturarsi per affrontare il resto del mondo. Comunque, come nostra ispirazione di base, abbiamo il movimento cooperativo e le società di mutuo soccorso, gente che si è unita per dotarsi di una leva di potere. Quindi non ‘trickle down’, ma al contrario ‘bottom up’. Come ci insegna la storia di quel periodo, non si può però fare tutto da soli e bisogna trovare delle alleanze. Molte delle società di mutuo soccorso erano finanziate da filantropi illuminati, con tutte le contraddizioni del caso. Ma le contraddizioni vanno affrontate e non messe da parte”.

Proprio questo tema delle alleanze e delle contraddizioni ci porta verso due aspetti fondamentali: la decisione, dopo tre anni, di chiudere il bando (proseguendo ovviamente tutte le altre attività di cheFare) e le critiche che possono venire rivolte da sinistra a chi opera in partnership con associazioni profondamente istituzionali e legate al mondo bancario, com’è il caso di Fondazione Compagnia di San Paolo o Fondazione Cariplo. “Partiamo dal bando. La decisione di chiudere quell’attività è legata a una semplice ragione: dal lato nostro, noi abbiamo anticipato quanto, poco dopo, hanno iniziato a fare altri soggetti, con molte più risorse economiche e non solo. Il meccanismo che abbiamo contribuito a mettere in moto funziona, ma, nel momento in cui anche fondazioni bancarie, regioni o addirittura ministeri hanno iniziato ad andare in quella direzione, abbiamo capito che la nostra ragion d’essere poteva essere più quella di agevolatori che di erogatori”.

Come nostra ispirazione di base, abbiamo il movimento cooperativo e le società di mutuo soccorso

C’è però una parte di mondo che potrebbe criticare, da una posizione radicale, proprio queste collaborazioni, perché gli inevitabili compromessi a cui costringono annullano, nella loro interpretazione, il valore stesso dell’operazione. “Prima di tutto, io ho un profondo rispetto per le pratiche radicali. Secondo una parte di quel mondo, diluire le istanze politiche e conflittuali dentro un’arena pubblica significa finire fagocitati. Di fatto, da quel punto di vista, il solo fatto che esista l’innovazione sociale è una sconfitta, perché i meccanismi impliciti del sistema non possono che disinnescarla. Allo stesso tempo sono però convinto che – se si sta in un campo pubblico, dove quindi devi confrontarti con altri soggetti – è fondamentale posizionarsi in modo molto chiaro e fare pressione sugli stakeholder affinché i tuoi temi, che sono fondamentalmente l’accesso alla cultura e la redistribuzione delle risorse, siano al centro del confronto. Per noi è quello l’orizzonte: aiutare a creare delle organizzazioni che abbiano una leva economica e che siano in grado di avere un impatto reale e, allo stesso tempo, lavorare sulla costruzione di idee, immaginari e letture critiche che cambino lo stato delle cose.

Una società sana è una società in grado di produrre nuove istituzioni. Ecco, se dovessi sintetizzare al massimo il ruolo di cheFare direi che è questo: facilitare la nascita di nuove istituzioni che sappiano affrontare le sfide politiche e culturali”.




La #milanoemotiva di Holly Heuser

L’appuntamento con Holly Heuser è in piazza Gae Aulenti. Dovevamo vederci alle nove di sera, poi Holly mi ha scritto su WhatsApp per dirmi che era in anticipo. Quando arrivo è già buio da un pezzo. Alla fine vedo un braccio e una mano che si muovono tra le tenebre nel parco. È lei che mi fa un cenno da lontano. Holly è appoggiata su una delle lunghe sedute di legno prospicienti il neon azzurro di IBM. Milano emotiva è il titolo del suo primo lavoro pubblicato. È uscito per la storica casa editrice Agenzia X. Si tratta di un diario illustrato, diviso in quattro movimenti: autunno milanese, inverno milanese, primavera milanese, estate milanese. Il libro mi ha conquistato fin dalle prime pagine, dove l’occhio è affrontato dall’apparizione barocca di una serie di grandi cuori, trafitti da spine, chiusi da lucchetti o contrassegnati dall’icona di un piccolo teschio al centro. 

Milano emotiva è un libro smanioso, caotico, attraversato da desiderio e romanticismo. Verbi e sostantivi si concatenano con modalità liriche e poetiche. Elementi grafici e verbali si giustappongono con la vitalità di un testo beat. Non c’è frase più lunga di un paio di righe. Troviamo nude affermazioni, come: «Amo vivere»; «Sento il verme»; «Sento tutta la città». E poi preghiere: «Stai qui con me», «Leave me alone». Dichiarazioni apotropaiche: «Non avere paura della fine». Slogan e status: «Moda idiota», «Milano infinita». Epifanie sulla realtà di Milano: «Esiste solo il lavoro». Aforismi: «Conosce veramente solo chi odia veramente». Flash topografici: «Famagosta», «Maciachini-Farini-Alserio-Valtellina». L’io narrante è nervoso, emotivo. Emo. Ricorrono le vedute dell’interno di un autobus, di una carrozza del tram, di una scala mobile, di una banchina della metro. Sono disegnate con una prospettiva astringente che ricorda l’angusta cameretta da hikikomori di Vincent Van Gogh ad Arles. 

Holly è originaria di Firenze. Dopo un periodo trascorso a Bologna, vive da qualche anno a Milano. Figlia di padre statunitense, Holly è bilingue. Durante la nostra conversazione, spesso la lingua inglese si accavalla all’italiano. Mentre chiacchieriamo, Holly schizza sulla pagina di un’agenda una veduta di piazza Gae Aulenti e della Torre Unicredit, che svetta nel buio proprio di fronte a noi.

Che effetto ti ha fatto Milano quando ci sei arrivata per la prima volta? 

Un effetto di infinita libertà e infinite possibilità. Mi sentivo libera, non conoscevo nessuno, non avevo amici e non avevo niente da fumare.

Di che periodo stiamo parlando?

Estate 2017. Degli amici mi avevano lasciato un appartamento vuoto in zona Cenisio.

Luglio o agosto?

Agosto. Bello l’agosto a Milano. Avevo questa casa tutta per me. Non conoscevo nessuno, non avevo tutte quelle paranoie Instagram-chi-dove-quando. La prima cosa che ho fatto è stata cercare dei mercati, e così sono finita a Piazzale Cuoco, dove ho trovato questo enorme suq. È stata una bellissima esperienza, una full immersion in qualcosa di molto poco milanese. Ho avuto un’illuminazione, di quelle che capitano di rado, e nella mente ho visto un’opera già perfettamente definita. C’erano tutti questi banchetti di vestiti usati e allora ho immaginato una bambola gigante, più grande di me, fatta di tutti quei vestiti cuciti insieme. Mi sono detta «ok, compro un po’ di vestiti», era il mio secondo giorno a Milano, ho preso tutti questi vestiti da bambino, sono andata a casa, ho iniziato a disfarli e poi a cucire una mega-bambola. Ci ho messo due settimane. È stata la mia prima opera d’arte milanese. 

Le hai dato un nome?

Si, Stassia.

Stassia?

Stassia, come Stacey, uno Stacey italianizzato. È stato un modo incredibilmente puro di farmi un’amica barra figlia, il che è un tema che si ripete tantissimo nel mio lavoro, cioè il tema dell’infanzia. Già prima facevo bambole.

La bambola è qualcosa che ti porti dietro da quando sei piccola?

In realtà ho iniziato verso la fine dell’Accademia. Questa di piazzale Cuoco la vedo come una sorta di soft sculpture gigante, con una faccia spaventosa, tutta fatta di vestiti cuciti a mano, senza macchina. All’epoca mi sentivo leggera. Ora, dopo quasi cinque anni di vita a Milano, mi sento appesantita e meno capace di accedere alla vena crazy che c’è dentro di me. 

E quest’effetto che ti fece Milano appena arrivata, ti ha stupito o te l’aspettavi?

Lo volevo, in realtà, lo volevo e l’ho trovato. All’epoca scappavo da Firenze e cercavo solo di stare bene.

Che facevi a Firenze?

Avevo finito di studiare e cercavo di lavorare, ma andava tutto male e quindi ho detto «proviamo a Milano», così mi sono iscritta all’Accademia di Brera per il biennio, dopo aver studiato incisione a Bologna. Brera in realtà è stata un’esperienza negativa, tanto che ho mollato tutto dopo un anno e mezzo. Sono capitata in mezzo a dei professori terribili, in una classe terribile. Ho litigato con tutti. Sia i professori che gli studenti non prendevano sul serio l’arte contemporanea e lo studio dell’arte. Erano lì solo per cazzeggiare. Anche la scuola in sé, l’istituzione, non era organizzata bene, era sovraffollata, senza spazi, e poi nessuno ti prendeva sul serio. Non vedevo nessuno che prendeva l’arte sul serio quanto la prendevo io. Mi sentivo presa in giro, i professori mi prendevano in giro e quindi ho mollato. Prima di mollare ho litigato con un prof. Era il 2017, 2018, i diritti trans erano appena usciti nel mainstream, eravamo tutti molto presi dall’argomento e questo prof, invece, cagava sopra la questione trans, così ci siamo ritrovati a discutere, fino a quando lui non ha mi ha urlato «Io ho il pene, tu la vagina, e basta!», al che sono scoppiata a piangere e sono scappata via.

E dove sei andata?

Ho girato un po’ cercando lavoro, ma devo dire che è stato da quel momento, da quando ho mollato, che la mia produzione artistica è veramente iniziata. Nel 2019 ho fatto Avventurina, il mio primo libro, autoprodotto in cento copie, fatto in stamperia. 

Avventurina è un gran titolo… 

Avventurina è anche il nome di una pietra, la pietra del Sagittario, io sono Sagittario. Avventurina è il mio primo libretto milanese. Non so come descrivertelo. È un libro molto breve, con una storia non lineare, come tutte le mie storie. Parla di un viaggio nello spazio, un viaggio dentro la psiche. Piano piano a Milano ho capito che i libri sono il mio strumento di espressione. Ho provato a fare i poster, le magliette, i disegnini, a usare Instagram, Flickr, ma alla fine il libro, questo strumento che esiste da 2000 anni, resta per me l’unico modo serio di fare immagini. Creare immagini può essere un esercizio inutile o una cosa molle, borghese e vuota, ma in realtà le immagini servono a far viaggiare gli animi e il libro mi sembra il luogo e il mezzo migliore per farlo. 

Che cosa c’è stato tra Avventurina e Milano emotiva? 

Quando ho fatto Avventurina, Milano emotiva in realtà esisteva già, sotto forma di un hashtag che avevo coniato nel 2017.

Ti piace inventare hashtag?

Solitamente no, ma in questo caso sì, ha funzionato. Mi è venuto proprio bene. È venuto fuori dal niente. #milanoemotiva, boom! 

Sei tu a essere una persona emotiva o è nella città di Milano che riconosci un’emotività diffusa?

La seconda che hai detto. Cioè, io sentivo la città piangere e urlare e volevo lavorare su questo aspetto. Piano piano raccoglievo materiale, dallo scontrino conservato in tasca fino al disegno dettagliatissimo. Si stava formando un mega-archivio, senza sapere bene che cosa farne, anche se sentivo che prima o poi ne sarebbe nato qualcosa. Quell’hashtag, #milanoemotiva, emanava luce.

Chi è che piangeva? La città? I tuoi amici?

La città, gli sconosciuti, gli edifici, le folle che vanno al lavoro, che entrano in banca qui all’Unicredit, i passeggeri che vedi sulla 90 (l’autobus che percorre la circonvallazione intorno a Milano, Nda).

Perchè mi hai dato appuntamento in questo parco, in piazza Gae Aulenti, di fronte al Bosco Verticale e alla torre Unicredit? Che cosa significa per te questo posto?

Ho sempre pensato che questo posto, così vuoto, pulito e ben tenuto, dove non vedi mai un barbone o una cartaccia, fosse in realtà un luogo di morte, una sorta di cimitero, di collina dei cadaveri, il tempio delle urla, non un luogo di morte qualsiasi, ma una sorta di tempio azteco, dove lo Stato o un dio o un grande potere schiacciano e sacrificano le proprie vittime. 

Ma tu questa morte o questo malessere li vedi solo nei luoghi o anche nelle persone?

Non lo vedo nelle persone singole, prese una per una, ma negli stili di vita, nell’ossessione per il lavoro, nella competizione e nello snobismo che ho subito io e che tutti a Milano subiscono.

Poco fa hai menzionato i dipendenti di Unicredit, quelli che lavorano nella torre che abbiamo qui di fronte. Hai detto che anche loro sono tra quelli che hai visto piangere, urlare, che ti hanno ispirato l’hashtag #MilanoEmotiva. Io abito da queste parti e devo dire che non mi sono mai sembrati sull’orlo del pianto, ma semmai sempre molto presenti a sé stessi, in controllo. Se avessi dovuto coniare un hashtag, avrei pensato più a una cosa come #MilanoRigida. 

Forse è perché #milanoemotiva nasce anche dall’amore e dal forte amore che io volevo dare. Non era mia intenzione odiare o puntare il dito, ma cantare un peana, triste, felice, estatico, depressivo. Volevo cantare un’ode a questa sofferenza, amandola, dipingendola bene, infiocchettandola. 

Da dove arrivano tutti i cuori e fiocchetti che riempiono il tuo libro?

Arrivano dalle Superchicche e Sailor Moon. Le due opere d’arte contemporanea più importanti della mia vita. E poi anche da Emily The Strange e dall’emo, dall’estetica emo.

Come campi a Milano? Che lavoro fai?

Ho un lavoro che non ha niente a che vedere con quello che faccio come artista. Non mi va di parlarne nelle interviste, perché ci tengo a separare le cose. Però è un lavoro che faccio con piacere. Mi ha liberato dal bisogno di appaltare la mia intelligenza a target e clienti vari. Vado molto fiera di questo risultato. Ho passato tutti i miei twenties a lavorare nella grafica e a cercare di lavorare con l’arte. Quando mi sono liberata da queste circostanze, la mia produzione artistica è schizzata alle stelle. 

Come hai conosciuto Marco Philopat di Agenzia X?

Ci siamo intravisti all’Edicola che non c’è ed ero un po’ arrabbiata perché non aveva incluso le mie fanzine (L’edicola che non c’è è un progetto di raccolta e digitalizzazione della stampa underground milanese degli ultimi cinquant’anni, promosso da Agenzia X e lanciato nel 2019 in un evento organizzato nel mezzanino della metropolitana di Cordusio, Nda). Poi l’ho trovato un giorno a una festa, nella prima estate dopo il Covid. E lì ho attaccato bottone: «sono una fanzinara, dobbiamo lavorare insieme», etc. etc. Del resto io conoscevo e adoravo i libri di Agenzia X. Da giovane mi hanno aperto la testa, a partire da Il potere sovversivo della carta di Sara Pavan. Sono libri che mi hanno fatto capire delle cose, che mi hanno fatto vedere la strada dell’underground. Quindi Philopat lo vedevo proprio come un giusto. E infatti è un giusto. Quando l’ho visto a quella festa, Philopat si è avvicinato, si è seduto accanto a me e con grande dolcezza mi ha chiesto a che punto fossi col mio lavoro e mi ha spinto a proseguire. Ho capito che si fidava di me. Quella sera sono guarita e tornando a casa in bici, mi sono detta «facciamo Milano emotiva» e così ho iniziato a spremere il cervello. Il problema a quel punto era raccogliere e organizzare tutto il materiale accumulato. Cercando l’hashtag su Instagram, veniva fuori una bellissima selecta di immagini, un misto di foto, disegni, quadri digitali, collage. Una delle mie caratteristiche, infatti, è proprio il mixed media. Avevo centinaia di disegni e centinaia di foto, accumulati a partire dal 2017. La mia urgenza più grande era trovare una struttura, anche perché io non faccio graphic novel, le mie sono storie non lineari, sono diari.

Dove hai scritto questo diario?

Dappertutto. Nei bar, nei vagoni della metro, sull’autobus. 

Il libro è diviso in stagioni…

Sì, è stato proprio dopo l’incontro alla festa con Philopat che ho immaginato di dargli questa struttura, partendo dall’autunno, anche per dare al libro questo accento diaristico, quindi un diario che come i diari di scuola parte in autunno, e poi ho dato ai capitoli dei contenuti: uno è sui mezzi pubblici, uno su Gae Aulenti, uno sulla IVG, l’interruzione volontaria di gravidanza, una cosa che mi è capitata e che ha formato la mia esperienza, e un altro su Macao. Da quel momento ho cominciato a disegnare senza più condividere le immagini su Internet, il che è stato faticoso, essendo da sempre abituata allo sharing. 

Milano emotiva è cadenzato da immagini dei vagoni della metropolitana e di carrozze del tram…

Amo la metropolitana. Quando scende sotto terra provo una sensazione para-sessuale, d’intensa soddisfazione fisica. Mi sento dentro il corpo della città. Una mia cara amica ha scritto una poesia: La metro è un grembo. È una frase che ho messo anche nel libro. La metro non è fallica; al contrario, è tubolare. Siamo tutti chiusi lì dentro, è una situazione profondamente religiosa, che mi dona piacere fisico. Inoltre una delle cose più belle di Milano è che i mezzi siano così efficienti e funzionanti. L’ideale sarebbe che i mezzi fossero gratis. Se Beppe Sala fosse capace di prendere questa decisione, ci farebbe davvero fare un salto in avanti. La città si arricchirebbe moltissimo. Un paese civilizzato non è quello dove anche i poveri hanno la macchina, ma dove anche i ricchi prendono i mezzi pubblici. 

Qual è la fermata della metro più vicina a casa tua?

Famagosta.

Nel libro c’è una parte dedicata a Macao, l’ex centro occupato di viale Molise 68.

Non voglio fare il portavoce di Macao, cioè non voglio esprimermi per Macao. Che posso dire? È stata una città dentro la città, un’utopia reale, dove ho vissuto una libertà fisica, artistica, sociale, assoluta. È stato la mia casa. A Macao sono passate realtà europee di ogni tipo. Ho imparato tantissimo.

Cosa c’è d’interessante da fare a Milano? 

Fare arte, cioè fare arte sperimentale, pazza. Mi sembra un modo di vita e sopravvivenza necessario e poco considerato. Non so come spiegarti. Messa così sembra un consiglio di self-help. Cinquant’anni fa le istituzioni culturali ascoltavano gli artisti. Mendini, Fontana, il De Chirico dei Bagni misteriosi nel giardino della Triennale. Ora invece è tutto calcolato con numeri e trend. Mi manca l’importanza che veniva data un tempo agli artisti e alla loro visione delirante, magari offensiva, scorretta, satirica o sognante. Questo ruolo dell’arte è molto importante per la società. Adesso l’arte è politically correct e questa cosa non mi piace. L’arte dovrebbe poter esagerare, dire cose brutte, tristi o bellissime. Vorrei che gli artisti potessero contare di più nel pensare il futuro della città e i modi di vivere la città. Pensa alle pareti della fermata della metropolitana City Life-Tre Torri: sono state disegnate da Emiliano Ponzi, che è un bravissimo illustratore, ma mi sembra tutto safe, mi sembrano le stesse illustrazioni usate per vendere le bevande. Eppure c’è stato un tempo in cui l’arte è stata un’altra cosa, è stata uno spirito selvaggio e una forma di avventura. 

È freddo e ce ne andiamo a mangiare in un take away indiano. Passeggiando scopriamo che da poco abbiamo letto e amato lo stesso libro, Annientare di Michelle Houellebecq, e poi che più o meno venti anni fa, quando io ero già un uomo adulto e Holly una bambina, abbiamo partecipato a una stessa inaugurazione: una mostra dello scultore Anish Kapoor alla Galleria Continua di San Gimignano. Holly mi dice che in quell’occasione suo padre le diede cinquantamila lire per andare a importunare Kapoor. Holly allora andò, si fece coraggio e disse a Kapoor «Hey, mister Kapoor, i love your work». 




Lo spazio pubblico nella vita delle persone

Michele Cerruti But in avvicinamento al convegno Public!: “vorrei ragionare sulla nozione di “pubblico” dal punto di vista urbanistico e sociologico, provando a mettere in campo le nostre competenze per approfondire in particolare la dimensione spaziale e quella dell’azione, muovendoci dentro a quella contrapposizione o complementarietà ormai tradizionale che si riconosce tra Spazio pubblico e Sfera pubblica”.

 

È in questo senso che negli ultimi anni, con un gruppo di ricerca, abbiamo provato a ripensare lo spazio pubblico definendolo altrimenti. Siamo partiti anzitutto dalla definizione secondo il regime della proprietà, muovendoci tra le distinzioni di pubblico e privato e, seguendo il ragionamento di Rodotà, e poi di Ugo Mattei, Gregorio Arena, Anna Poggi e altri, verso la nozione di “bene comune”. In seconda istanza, abbiamo esplorato una definizione di spazio pubblico che fosse fondata sul regime dell’uso.  Secondo Pier Luigi Crosta, «Lo spazio è luso che se ne fa», e osservarlo in questo modo ci permette di capire come spazi quali la Cavallerizza di Torino, il Macao di Milano, il Teatro Valle a Roma e altri siano pubblici proprio in funzione degli usi e delle pratiche che le comunità mettono in campo. Esiste poi un terzo modo di pensare lo spazio pubblico, che abbiamo sviluppato a Torino con la guida di Cristina Bianchetti, ovvero pensarlo in funzione di un punto di vista “relazionale”: Come stiamo, cioè nello spazio pubblico? Da questo punto di vista, ci pare che lo spazio pubblico non sia più solamente quello spazio habermasiano, piano, in cui poter esprimere quella dimensione politica  libera e orizzontale tipica del Novecento, ma che diventi piuttosto uno spazio in cui cerchiamo anche forme diverse del “vivere insieme”: accanto alla tradizionale forma collettiva, infatti, ci pare di osservare un tentativo di usare lo spazio pubblico per stare da soli, anzitutto, e dunque uno spazio che diventa di “intimità”, ma anche un modo di stare “per piccoli gruppi”, entro una dimensione di esibizione che Lacan avrebbe definito di “extimité”.

Queste diverse declinazioni ci hanno portato a porci oggi la domanda non tanto su cosa sia lo spazio pubblico, ma su che cosa piuttosto lo spazio pubblico faccia o possa fare nella vita delle persone, degli individui e della società.

Filippo Barbera Dal mio punto di vista, in Italia ce lo insegna Ota De Leonardis, la sfera pubblica ha una vita quotidiana, esiste una dimensione intrecciata nella quotidianità della sfera pubblica. Non bisogna pensare alla sfera pubblica come qualcosa di straordinario ma come qualcosa di ordinario. Quindi un ritorno dello sguardo alle scienze sociali e alle scienze del progetto sullordinario non per conservarlo ma per innovarlo. Bisogna chiedere con forza la rimessa al centro dellordinarietà, della banalità, della quotidianità e della dimensione pre-riflessiva che diamo per scontata e viene tematizzata solo quando non c’è. Solo ne momento in cui alcuni elementi diventano problematici allora li pensiamo altrimenti vengono dati per scontato. Lenfasi sulla quotidianità non è pre-politica ma è qualcosa di politico, è nell’articolazione della sfera pubblica come uno spazio condiviso dove si fanno cose che si genera un senso di giustizia e una domanda di futuro condiviso.

Riprendendo Ota de Leonardis, si genera un intreccio forte tra trama dei bisogni individuali e l’ordito delle soluzioni collettive, questi non vengono concepiti come pezzi diversi ma come trama di un unico tessuto. Non bisogna quindi chiedere alla sfera pubblica di mettere a tema il futuro collettivo in modo indipendente dai bisogni individuali. Al contrario, è bene individuare soluzioni collettive che si intrecciano ai “progetti” individuali in modo inestricabile, generando soluzioni che hanno una dimensione di giustizia in quanto soluzioni collettive. 

La sfera pubblica, intesa come luogo dove le persone fanno cose e interagiscono in un certo modo, è il luogo dove linterazione tra le persone si struttura generando questi intrecci. Questo è il punto da ripensare oggi, in quanto la dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica è venuta meno. Gli anni in cui i bisogni individuali e la dimensione collettiva avevano questo intreccio erano luoghi di conflitto urbano, prettamente urbano: nelle fabbriche, nelle sezioni di partico, nelle piazze, nei corpi intermedi con capacità di rappresentanza. Vedendo la storia di Torino, come si legge nel nostro libro Torino 2030. A prova di futuro si capisce come la nuova classe dirigente della città negli anni 90, con la prima giunta Castellani e post scandalo mani pulite, prova a traghettare la città verso una nuova visione che si era sedimentata all’interno di spazi intermedi. La nuova classe formata da intellettuali, pezzi di sindacato, parti di Università, di Politecnico, le seconde file della classe politica e dirigente locale, aveva passato gli anni precedenti a discutere in luoghi e spazi dedicati al confronto e alla discussione. Era così diventata una sorta di “coalizione epistemica”, poi fattasi classe dirigente. Quindi, il tema della dimensione fisico spaziale della sfera pubblica riguarda da un lato la vita quotidiana delle persone comuni e, dall’altro, anche il venir di questi spazi che erano luoghi di elaborazione tecnico-politica dei partiti e dei corpi intermedi in generale. Luoghi dove intellettuali, tecnici e politici insieme ideavano e pensavano il futuro dei luoghi e dei territori. Il venir meno di questi spazi ha indebolito la sovrapposizione tra bisogni individuali e soluzioni collettive. 

Questo “assottigliamento” della dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica non è lunico elemento che ha concorso all’indebolimento di questa capacità condivisa di futuro, un altro elemento è stato il venir meno di un’organizzazione sociale fortemente sincronizzata. Per alcuni decenni le persone sono diventate adulte nello “stesso modo”. Cioè cerano degli eventi marcatori che accadevano in tempi simili e in modi simili come eventi di transizione dalla vita adulta: fine studi, inizio lavoro, uscita dalla famiglia d’origine, matrimonio e figli. La sequenza di questi momenti configurava il modo corretto e legittimato di “diventare adulti”. Dalle analisi dei sociologici, si vede come questi eventi fossero fortemente sincronizzati: tutti perlopiù facevano queste tappe in modo completo, con la stessa sequenza e con gli stessi tempi. I sociologi lo chiamano rituale naturale”, la società che si muove in modo sincrono. Come in tutti i rituali, la sincronizzazione ha effetti simbolici: genera identità collettiva, appartenenza e valori condivisi. Questo oggi non c’è più e quindi rende ulteriormente difficile la costruzione di un tessuto connettivo. La sfera pubblica, i sincronismi sono come un telaio che mette insieme trame e ordito, sono condizioni che ritualizzano il “senso del noi”.

Giuste le cose dette, la parte da cui si può iniziare per raggiungere dei risultati nel breve medio periodo è la dimensione fisico-spaziale della sfera pubblica. La costruzione di luoghi e di spazi nella città e nelle aree interne, spazi organizzati di interazione dove far sedimentare il senso del noi, dove il mio bisogno diventa la soluzione futura di tipo collettivo, è qualcosa che la progettazione sociale e spaziale può fare e pensare (un esempio sono le case del quartiere a Torino, ma ne esistono molti altri). Questo non rappresenta la soluzione, ma il punto di equilibrio tra problema e possibilità di realizzazione nel breve termine.

M. Nel dibattito urbanistico ci troviamo spesso a definire lo spazio pubblico come “infrastruttura della vita”, ovvero quel che permette di abitare il presente ma anche di immaginare il futuro. In qualche modo, cioè, lo spazio non è più qualcosa che va più o meno tecnologicamente infrastrutturato o dotato di ulteriori dispositivi, ma è esso stesso, spazio e paesaggio, infrastruttura. In questo senso mi pare ci si possa porre almeno tre grandi questioni: in che modo, per chi e dove avviene questo modo di abitare?

Rispetto alle modalità, va ricordato che anni fa si riteneva che il conflitto e i moti urbani fossero delle forme attraverso cui le società potevano esercitare il loro diritto alla città. A osservare però lo spazio pacificato dell’occidente contemporaneo, soprattutto europeo, quel che emerge è che in realtà il modo in cui questo diritto prende forma è oggi fondato su una categoria completamente diversa, quella che con alcuni amici abbiamo chiamato “Tensione urbana”. Nello spazio pubblico pacificato, gruppi, organizzazioni e individui non sono in conflitto tra loro, non esercitano forme di prevaricazione violenta, non esprimono vincitori o perdenti, ma prevale piuttosto una forma di negoziazione senza soluzione di continuità. Per fare un esempio concreto, potremmo richiamare il caso di Prato, dove due comunità produttive, quella del fast-fashion e quella del tessile, coabitano lo stesso spazio esprimendo esigenze e bisogni diversi che sono in funzione sia del tipo di produzione sia dei modelli esistenziali. Questa forma di coabitazione produce sullo spazio delle trasformazioni continue, e lo fa entro una dimensione non conflittuale ma di dialogo e negoziazione, in modo che nessuno dei due gruppi subisca dei danni. L’infrastruttura dell’abitare, però è radicalmente modificata, ed è lo spazio stesso ad abilitare questo dialogo e questa forma di relazione. 

La seconda questione su cui confrontarsi è quella dei soggetti, ovvero chi siano coloro che abitano lo spazio pubblico, di chi sia la voce che lo spazio dovrebbe poter ascoltare e far emergere. Nelle ricerche che conduco con alcuni studenti negli ulti anni, mi pare di intravedere tre tipi diversi di risposte, o, meglio, di voci: la voce del clima, la voce di quel che chiamiamo post-natura e la voce dei territori intermedi. 

Quella del clima, anzitutto, che per secoli abbiamo considerato come un oggetto di nostra proprietà, come qualcosa su cui possiamo agire o che possiamo modificare. Tuttavia il clima è un sistema di relazioni, ha cioè una dimensione ecologica, non è certamente solo lambiente o solo un oggetto. Ed entro una dimensione pubblica può parlare, sia come interfaccia della relazione tra umani e non-umani, sia come soggetto esso stesso, sia come un bene comune. La voce della post-natura, in secondo luogo. Dal punto di vista spaziale tendiamo a raccontare che la natura sia un oggetto contrapposto all’urbano: città e natura, uomo e natura, artificio e natura, cultura e natura. Eppure, grazie a una ricerca che stiamo portando avanti sulla Schelda, ci siamo accorti che questa separazione tra naturale e artificiale non tiene più: in quel caso, per esempio, non è più possibile chiamare la Schelda “fiume”, perché fondamentalmente è diventata un’autostrada. Difficile dire che sia un elemento naturale. Ma è difficile anche dire che sia un elemento artificiale. Da questo punto di vista, proteggere la natura, difendersi dalla natura, gestire la natura sono espressioni che hanno poco senso, perché quel che caratterizza il nostro spazio pubblico è contemporaneamente un “immenso cumulo di fatiche”, come diceva Cattaneo per la Pianura Padana, e una “selva selvaggia”. Una post-natura, appunto, che va lasciata parlare. Per cui, come forse direbbe Rosi Braidotti, abbiamo a che fare non tanto con il binomio naturale-artificiale, dato e costruito, bensì con una  dinamica soggettività relazionale con una voce ben precisa. 

La terza voce mi pare possa essere quella dei territori intermedi. Luoghi che alcuni considerano i cantieri delle città dense, gli spazi dove si producono i beni e da cui si estraggono le risorse per far funzionare le dense aree metropolitane. E che sono la maggioranza, perché in Europa esistono più Biella e Carrara che Parigi o Milano. È qui che si gioca in modo speciale la nostra relazione con le risorse e con il clima, in cui possiamo con efficacia pensare il nostro dialogo in modo alternativo. Luoghi che preferisco definire “mediali”, perché oltre a essere intermedi giacché posti tra le aree interne e quelle metropolitane, sono anche caratterizzati da una forma alternativa di prossimità, tutta digitale, che ci permette anche di immaginare un modello tutto diverso di pubblico.

F. Questi esempi richiamano il tema della voce collettiva dei marginali cioè degli attori/territori/organizzazione/ movimenti “senza voce”. Il tema è linclusione della “capacità di voice collettiva” dei soggetti, degli attori organizzati e dei territori marginali nella sfera pubblica e, quindi, la costruzione politica degli spazi in modo da tenere in considerazione le richieste, i bisogni, gli ordini del valore e le visioni del futuro dei “marginali” (https://foundationaleconomycom.files.wordpress.com/2018/10/barbera-cardiff-sept-2018.pdf). 

Ad esempio nelle aree interne della filiera latte e formaggio che voce hanno i pastori? I pastori sono un pezzo importante di questa filiera ma le politiche pubbliche non sono disegnate sulla base delle esigenze e le visioni del futuro di essi e per questo è nata la rete APPIA che mette insieme pastori e la SNAP, la scuola nazionale per la pastorizia, che prevede un percorso formativo per i pastori. In generale, ciò rimanda alla costruzione di spazi eterarchici strutturati dalla compresenza di metriche del valore dissonanti. Una sfera pubblica che funziona è una sfera pubblica eterarchica dove il futuro in comune viene articolato dallattrito di voci collettive che includono bisogni, interessi, metriche, convenzioni di qualità e priorità diverse che, nella loro diversità, possono essere anche conflittuali (https://www.rivistailmulino.it/a/torino-la-citt-laboratorio-alla-ricerca-della-diversit-perduta). Tornando al tema degli anni 70 in cui gli spazi eterarchici erano spazi dove il conflitto era di casa, erano luoghi di tensioni che generano dissonanza e che per essere produttive e di valore vanno gestite. Questo tema delle tensioni mi porta alla concezione di Simone sul rapporto tra le persone e le infrastrutture (cfr. https://research.gold.ac.uk/id/eprint/1946/). Simone mette l’accento sulle persone come infrastrutture, mentre più in generale pensiamo a come le infrastrutture creano le persone, come gli spazi sono generativi di identità collettive; ma anche come, più banalmente, le persone creano le infrastrutture. Negli esempi che hai fatto emerge il tema del capability for collective voice dei marginali, dove i marginali non sono i poveri ma sono i soggetti che sono posizionati ai confini del sistema. Il tema è creare spazi pubblici dove i soggetti forti dotati di potere e i soggetti deboli che non hanno potere ma hanno una capacità di visione e innovazione rispetto a bisogni non ancora mainstream stanno sullo stesso piano. 

M. Una domanda a cui non abbiamo risposto è però quella del dove: quali sono oggi gli spazi di tutto questo? Dire che ci sono degli spazi intermedi sembra anche voler dire che quegli spazi funzionano essi stessi come dispositivi capacitanti, per l’appunto infrastrutture dell’abitare.

F. Questi spazi sono tantissimi. Ci sono gli assemblaggi, piattaforme, oggetti mobilitanti, cioè oggetti che permettono di creare la condizione del rituale mobilitando le persone su un fuoco comune di attenzione e generando un senso condiviso. Più che di soggetti collettivi pre-formati, abbiamo bisogno di oggetti politici mobilitanti. Ne ho scritto qui con Giovanni Durbiano: https://www.officinadeisaperi.it/agora/sinistra/la-sedimentazione-di-significati-e-valori-condivisi-da-il-manifesto/. 

La storia di Ostana è molto interessante da questo punto di vista, il suo valore nasce da un gruppo guidato dall’ex sindaco che decide di investire e ripopolare Ostana. Gli ostanesi si erano trasferiti a Torino e la tradizione che si portavano dietro era quella della lavorazione del ferro. Questo gruppo di ostanesi si trova tutte le settimane al mercatino del ferro al ponte Mosca a Torino: dal ponte si riesce a vedere il Monviso e così si inizia a sedimentare un rituale e si genera un senso di appartenenza al gruppo e di identità individuale che costituisce la base per la futura azione collettiva. 

Dobbiamo abituarci ad avere delle lenti che ci permettono di togliere le condizioni analitiche delloggetto mobilitante in tempi nuovi, non sono più le piazze, i sindacati, i partiti ma ci sono altri micro e meso oggetti mobilitanti che creano queste condizioni. Le esperienze che hanno in comune l’ideale di giustizia sociale e ambientale si riconoscono in questo quadro semplificato e si allineano. Dallaltra parte lazione politica di imprenditori politici che costruiscono uno storytelling condiviso dove macro temi e macro discorsi allineano nella loro diversità le esperienze. 

C’è bisogno di coerenza, che la diversità di queste esperienze, da Ostana, ad esperienze come il Forum Diseguaglianze e Diversità (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/), alle case di quartiere o ad altri oggetti mobilitanti si allineino. 

M. Intorno a questo tema l’esempio della Fondazione Pistoletto e della sua Accademia Unidee è per me illuminante: in questa caso la missione è proprio quella di lavorare intorno all’idea della creazione come capacità di amare le differenze. Il modello del Terzo Paradiso” di Michelangelo altro non è che un progetto da attuare in contesti sempre diversi per cui tra due estremi, tra due differenze, è sempre possibile attuare un tentativo creativo in grado di mantenere le due posizioni trovando un equilibrio dinamico. Non tanto la produzione di sintesi pacificanti quanto piuttosto dei dialoghi catalizzanti, che mossi dall’idea del terzo paradiso o più in generale dall’arte, sappiano riattivare quelle connessioni che le ideologie hanno fatto nel tempo scomparire e ricostruire delle nuove narrazioni.

F. Lidea della diversità è costitutiva di questo discorso. La diversità è utile quando genera dissonanza, quando quindi è una diversità radicale sui modi di concepire il valore. Quando la diversità genera attrito a partire dai diversi modi di concepire e misurare il valore è quando si danno contesti organizzativi, cioè le eterarchie, in cui la diversità è governata ed è sfruttata da un imprenditore istituzionale che è in grado di generare valore da questa. Serve, quindi, una sfera pubblica che funzioni in questo modo: una “sfera pubblica eterarchica” che lascia spazio allazione di imprenditori politici in grado di generare valore dalla dissonanza tra concezioni di valore. La strada da seguire non sta nellimporre una medesima concezione o una stessa metrica. Siamo in una società che ci chiede di costruire un modello di sviluppo economico-sociale eterarchico e non gerarchico (e neppure “anarchico”). Le diverse concezioni di valore dovrebbero avere un luogo, uno spazio, un contesto organizzativo dove potersi confrontare generando attrito. Questo è uno dei nuovi compiti dell’azione pubblica.

 

Immagine di copertina: ph. Benjamin Thomas da Unsplash