Fattidicultura 2014
cheFare a #fattidicultura
cheFare partecipa attivamente a Fatti di Cultura, il festival sull’innovazione culturale che avrà luogo a Mantova dal 9 al 12 ottobre.
Con gli organizzatori abbiamo condiviso una parte del percorso. Abbiamo infatti stretto con loro una collaborazione basata sull’assunto che la cultura si fa, si costruisce e si realizza e con questa idea in testa abbiamo organizzato due appuntamenti, uno per giovedì 9 e l’altro per venerdì 10.
A Mantova arriveranno le storie del cambiamento culturale nel nostro paese, esempi positivi di esperienze locali e nazionali che innovano e che trasformano le idee in azioni, si fanno imprese culturali e muovono energie.
Si parlerà soprattutto di beni comuni, cittadinanza attiva, rigenerazione urbana, innovazione culturale, imprese creative, cooperazione, smart human cities e patrimonio culturale, partendo da alcune domande di fondo: come può la produzione di cultura generare valore, economia e impatto sociale? Come si trasforma un’idea creativa in un progetto di successo, e quali sono le opportunità per le start-up a vocazione culturale? Come si può organizzare la gestione condivisa dei beni culturali in quanto beni comuni, o attivare la ri-generazione di uno spazio urbano attraverso la cultura?
Tutto ciò darà vita a 4 giorni intensi, costellati di 13 eventi.
Gli incontri organizzati con il nostro contributo saranno due.
Il primo, dal titolo “La cultura come lavoro“, si soffermerà sulle trasformazioni in corso che interessano l’industria culturale, sul ruolo che può avere l’innovazione sociale in questo scenario, su quali sono le principali criticità in gioco e sulle prospettive per i lavoratori della cultura.
Il secondo avrà per tema l'”Innovazione culturale e sviluppo del territorio” e offrirà una panoramica dei principali bandi in ambito di innovazione sociale e culturale con il racconto delle esperienze dei partecipanti.
Parleremo di tutte queste cose con:
Flaviano Zandonai, Iris Network
Giovanni Petrini, Avanzi
Damiano Aliprandi, Fondazione Fitzcarraldo
Marianna D’Ovidio, Sociologa e Ricercatrice (Università Bicocca di Milano)
Anna Meroni, DESIS Lab (Politecnico di Milano)
Fabrizio Panozzo, M.a.c.lab (Università Cà Foscari di Venezia)
Laura Savoia, Centro di Ricerca Ask (Università Luigi Bocconi di Milano)
Ivana Vilardi, Master ”Progettare Cultura” (Università Cattolica di Milano)
Nicola Facciotto, Kalatà
Andrea Libero Carbone, Nuove Pratiche Fest
Alessandro Rubini, IC (Fondazione Cariplo)
Roberta Franceschinelli, Culturability (Fondazione Unipolis)
Erika Mattarella, di Casa in Casa
Alessandro Cacciato, Farm Cultural Park
Franco Contu, Lìberos
Pierluigi Vaccaneo, TwLetteratura
Gaspare Caliri, Kilowatt
Gennaro di Iorio e Alessandra Carta, Coop Soc Big Bang
Ci vediamo a Mantova!
FATTICULT 2024: maratona delle idee
In occasione di FATTICULT 2024, giovedì 26 settembre dalle 08:30 alle 16:30, Bianca Barozzi di cheFare modera assieme a Michela Mauriello (Giovani Co-Protagonisti) l’hackathon collaborativo per le scuole superiori di Mantova.
Giornata intensiva in cui 100 ragazzi provenienti dagli istituti superiori di Mantova si ritrovano al Creative Lab per co-progettare soluzioni e proposte su un tema che li riguarda da vicino: la partecipazione e la cittadinanza attiva. Dall’organizzazione di un ciclo di film sull’ambiente nel proprio quartiere alla raccolta di materiali da riciclare nella propria scuola, dalla campagna social per convincere i propri coetanei a comportamenti sostenibili sino all’utilizzo di nuove tecnologie per la sensibilizzazione delle nuove generazioni. Le proposte che usciranno dalla giornata faranno riferimento alle linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica che parla di “sviluppo sostenibile, educazione ambientale, conoscenza e tutela del patrimonio e del territorio”.
Moderano
Bianca Barozzi cheFare Milano, Michela Mauriello per Giovani Co-Protagonisti in collaborazione con staff PANTACON
Scopri tutto il programma di FATTICULT 2024
FATTICULT 2024: le professioni della cultura
In occasione di FATTICULT 2024, martedì 24 settembre dalle 08:30 alle 12:45, Bertram Niessen presidente e direttore scientifico di cheFare modera l’incontro “Le professioni della cultura” (parte 1)
Per delineare il perimetro entro cui si colloca la riflessione di Fattidicultura si sono presi come riferimento, da un lato l’impegno di ANPAL e Unioncamere nell’analizzare i dati dell’indagine del Sistema Informativo Excelsior con specifico riferimento alle imprese e professioni del settore culturale e creativo e dall’altro il progetto di ricerca annuale di Symbola e Unioncamere “Io Sono Cultura” che racconta il valore economico e sociale delle imprese che operano nel settore culturale e creativo per analizzare e mostrare come cultura e creatività siano per il nostro Paese driver dell’economia e della Qualità. Nelle due giornate dedicate alle professioni della cultura incontreremo professionisti, progetti e azioni, riferibili ai macrosettori delle industrie culturali e creative, del patrimonio storico-artistico; delle performing arts e dell’intrattenimento.
Gli ospiti testimonieranno il proprio lavoro culturale rivolgendosi alle nuove generazioni per raccontarlo da diversi punti di vista: quale formazione serve? È una professionalità riconosciuta/riconoscibile? Quali successi e quali fallimenti? Che prospettive per il presente e per il futuro?
Ospiti della prima giornata dai settori delle industrie culturali e creative:
Carlo Masgoutiere, CEO Project manager di Arché3D start up innovativa tecnologica con sede a Mantova e Wasp HUB
Tobia Repossi, Architetto progettista designer insegna presso l’Academy di Brescia e co-fondatore dell’Italian Design Association – che riunisce tutti i professionisti italiani in Cina e promuove la cultura del design italiano
Silvia Teodosi, Product manager per Power Up Team di Bologna che sviluppa video-giochi e soluzioni digitali
Gianluca Magnoni, direttore creativo e regista per la comunicazione e l’entertainment
Saro Torregiani, fondatore StrongBasement che si occupa di produzione musicale ed eventi a Mantova)
Sara Saorin, co-fondatrice casa editrice Camelozampa di Monselice
Modera
Bertram Niessen
Conclusione a cura di
Stefano Baia Curioni Professore Associato presso il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Bocconi e Direttore della Fondazione Palazzo Te Mantova
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Immagine di copertina di Dillon Wanner su Unsplash
Come si coniugano welfare e cultura? cheFare a Fatti di Cultura 2022
Martedì 27 settembre e Mercoledì 28 settembre, cheFare partecipa alla nona edizione di Fatti di Cultura a Mantova con “Tra il dire e il fare: come si coniugano welfare e cultura?”
In programma, un laboratorio intensivo di progettazione per azioni di Welfare culturale e di Cultura del welfare, che coinvolgerà funzionari pubblici, operatori del sociale, operatori della cultura, associazioni giovanili.
I consorzi Sol.Co e Pantacon insieme al Comune di Mantova rinnovano l’impegno per la conoscenza e la contaminazione di soggetti che appartengono ai settori del Welfare e della Cultura, scrivendo a più mani un progetto co-ideato e co-costruito.
Da questo laboratorio usciranno anche nuove metriche comuni che potranno diventare buone pratiche collaborative tra pubblico/privato/terzi al servizio delle comunità.
Il laboratorio è a numero chiuso e su invito.
Welfare e Cultura: un laboratorio con cooperative culturali e sociali a Mantova
Il ruolo della cultura ai tempi della pandemia – cheFare conduce il colloquio a Fatti di Cultura 2021, Mantova
Cosa serve per far ripartire il settore cultura? Una conversazione sul mondo dopo il Coronavirus con Fatticult2020
Una giornata, nel programma del festival Fatticult2020 di Mantova, per discutere i temi collegati alle conseguenze della crisi che stiamo attraversando. Prima del Covid-19 alcuni modelli di lavoro culturale e di valorizzazione del bene comune erano suggestioni percorribili, indirizzi cui tendere, sfide da affrontare. Considerato quanto sta succedendo a causa della pandemia globale, crediamo sia indispensabile una riflessione su quanto il settore culturale dovrà invece obbligatoriamente fare per ripartire dopo questo momento di crisi.
Interverranno Stefano Baia Curioni della Fondazione Palazzo Te, Ugo Bacchella della Fondazione Fitzcarraldo, Marianna D’Ovidio dell’Università di Milano Bicocca – con la moderazione di Bertram Niessen, direttore scientifico di cheFare.
Sono aperte le iscrizioni a Fatticult2020: conferenze e talk su archivi, ricordi e ambiente
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Fatti di Cultura.
Arriva la settima edizione di Fatticult, con 6 giornate dal 25 settembre al 16 ottobre 2020.
La partecipazione ad ogni giornata è gratuita con iscrizione obbligatoria nel form qui fino a esaurimento posti disponibili.
Per informazioni e assistenza eventi@pantacon.it.
‘Database for Human Training’ ci riporta alle origini della ricerca sul riconoscimento facciale
Da sei anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno abbiamo riunito attorno a un tavolo tre figure eterogenee per riflettere sul rapporto tra archivi e cultura contemporanea: l’artista digitale e docente Marco Cadioli, la storica dell’arte e curatrice Valentina Tanni e l’attivista bibliotecario digitale Andrea Zanni.
Perché questa scelta? Negli ultimi anni la quantità di informazioni prodotte quotidianamente ha raggiunto livelli letteralmente inconcepibili, facendo fiorire gli studi di discipline come la cibernetica e le data sciences. Allo stesso tempo, si sono consolidate intere aree del sapere (dalla filosofia all’antropologia) che si occupano delle implicazioni critiche degli archivi, delle loro logiche di potere, delle loro omissioni e del loro ruolo nella produzione e riproduzione della costruzione sociale del genere, dell’identità etnica e di quella di classe. Non sorprende allora che un numero crescente di artisti e studiosi si interroghino attorno alle pratiche dell’archivio alla ricerca di punti di vista inediti sul contemporaneo.
L’incontro ci è piaciuto, ed abbiamo deciso di intervistare gli ospiti per approfondire. Continuiamo con Marco Cadioli, artista e docente che vive e lavora a Milano. Laureato in cibernetica, ha seguito l’evoluzione dei nuovi media fin dai primi anni ’90. La sua ricerca artistica si è concentrata sull’indagine del confine tra reale e virtuale, dalle prime esperienze come fotoreporter dai mondi virtuali (da cui il libro del 2007 Io reporter in Second Life) alla rappresentazione del mondo di dati in Google Earth.
Ci racconti il progetto Database for human training?
Il progetto Database for Human Training, iniziato nel 2017 e tuttora in corso, comprende una serie di lavori sulle intelligenze artificiali e più in particolare sui database utilizzati durante il loro addestramento.
Mi interessa capire come e su quali materiali vengono addestrate le IA perché credo che queste fasi iniziali dell’apprendimento possano costituire una sorta di imprinting. Ho raccolto materiali di vario tipo, database per riconoscere gli oggetti, per riconoscere i fiori, i gesti della mano, i numeri, i volti, le emozioni, i passanti per strada, e un database per riconoscere se una mucca cammina verso sinistra.
Sono immagini create per essere viste e analizzate da macchine, non da umani, e Database for Human Training, convertendo i contenuti in un formato “human readable” offre la possibilità di dare uno sguardo all’interno degli archivi e rendersi conto di cosa contengono, chiedersi chi ha selezionato quei materiali e perchè, quali scelte si stanno facendo. Questa operazione porta anche a una inversione del punto di vista, ponendo l’osservatore dalla parte della macchina durante il suo training, e ironicamente crea delle esperienze per addestrare gli umani sugli stessi materiali.
In particolare mi sono concentrato sui primi database utilizzati per il riconoscimento del volto e delle emozioni, che contengono immagini scattate appositamente per costruire gli archivi sui quali svolgere la ricerca, volti di anonimi collaboratori, spesso ricercatori e studenti universitari.
In queste raccolte, che risalgono agli anni ’90, ci sono un numero limitato di soggetti e possiamo concentrarci sui loro volti, guardarli ad uno ad uno, immaginare chi sono.
Nelle grandi raccolte di dati utilizzate oggi ci sono milioni di immagini, provenienti dalle fotografie caricate nei vari social networks, e spesso chi è inserito in questi database utilizzati poi dalla IA di società private non ne ha nessuna consapevolezza.
In un momento in cui le intelligenze artificiali assumono un ruolo sempre più presente nelle nostre vite, diventa importante interrogarsi su quali materiali viene fondato il loro addestramento, perché può costituire una sorta di imprinting.
BASIC EMOTION è uno degli output di questa ricerca ed è una installazione con dieci schermi che presentano le Animated Gif costruite con i materiali raccolti in ‘The Japanese Female Facial Expression Database’. Il database contiene le espressioni facciali posate da dieci ragazze giapponesi al Kyushu Department of Psychology nel 1998.
I soggetti sono classificati solo come KA, KL, KM, KR, MK, NA, NM, TM, UY, YM e le loro facce sono la base di analisi e misure da parte dei software, e sono utilizzate dai ricercatori di tutto il mondo per poter confrontare i risultati dei loro algoritmi. Negli ultimi 20 anni di ricerca sono state processate da decine o centinaia di macchine, e troviamo ancora i risultati dispersi in rete. In qualche modo il contenuto di queste donne alla ricerca è altissimo, ma il loro volto è tuttora conosciuto più dalle macchine che dagli esseri umani.
La rapida visone in sequenza delle loro espressioni ridà vita a quei volti e li ricolloca nel mondo, mi accorgo che nel guardare le gif ci concentriamo sul soggetto, sulla persona, e sovrapponiamo le nostre emozioni a quelle delle ragazze dell’esperimento.
Durante l’esposizione ho aggiunto una parte performativa, coinvolgendo il pubblico nel posare la stessa sequenza di emozioni per realizzare nuove gif. Immediatamente scatta il dibattito su come sia rappresentabile in modo univoco una emozione, se è la stessa espressione nelle varie culture, ci si interroga sugli usi che possono essere fatti di queste informazioni. Di colpo ci si trova immersi in prima persona in una tematica che sembrava solo software.
Sto procedendo in questa ricerca sulla cattura delle emozioni con un nuovo progetto, Subway portraits in the age of AI, dove sperimento fino a che punto queste tecniche siano oggi pervasive e alla portata di uno smart phone.
Coloring Book for kids and young AI trasforma invece il contenuto di un database in un libro da colorare per bambini. I materiali di partenza sono le immagini utilizzate come riferimento (Ground truth) per verificare la correttezza degli algoritmi di edge detection.
Sono state disegnate manualmente da umani che hanno tracciato i contorni di ogni elemento presente in una immagine, per poi passarle all’analisi delle IA. Anche in questo caso moltissime IA sono state addestrate su questi materiali per riconoscere i contorni degli oggetti e le aree principali di una immagine, proprio come i bambini che imparano a riconoscere le forme e a dar loro un significato colorando le aree bianche. Da qui l’idea di costruire un vero e proprio coloring book cartaceo da utilizzare realmente come gioco.
Sotto la superficie del gioco emerge il tema dei lavoratori al servizio delle IA, reclutati nelle piattaforme on line come Mechanical Turk di Amazon per la preparazione dei materiali. Emerge anche il tema di quali materiali sono stati scelti. Perché quelle immagini? Perché i soldati, gli aerei da guerra, l’immagine del cowboy americano e del bisonte nella prateria? C’è sempre un messaggio culturale nella costruzione di un archivio.
https://issuu.com/marcocadioli/docs/coloringbook-for-kids-and-young-ai
Come credi che stia cambiando lo statuto degli artisti di fronte ad un modo dominato dall’informazione?
Concentrerei la mia risposta sugli artisti che pongono al centro della loro riflessione il nostro rapporto con la tecnologia e che guardano all’impatto della rete sulla società e la nostra vita.
Trovo che questo atteggiamento possa essere il filo conduttore dalle prime esperienze di Net Art della fine degli anni ’90 fino ad oggi, e ci permette di analizzare gli artisti fuori dalle etichette che di volte in volta sono state attribuite ai fenomeni del momento.
Prima l’interesse per la rete in sé, come fascinazione di nuove possibilità di interconnessione e partecipazione collettiva, poi l’arrivo dei social networks e le sperimentazioni sulle piattaforme sociali, con il riutilizzo della sovrabbondanza di immagini, la riflessione sulla costruzione dell’identità, la perdita della privacy, la sorveglianza di massa. Poi i mondi virtuali e le comunità di artisti che si sono formate al loro interno, per fare solo alcuni esempi. Ogni passaggio, in questi ultimi velocissimi anni dalla diffusione della rete, ha portato con sé una serie di paure e di illusioni che ormai siamo in grado di riconoscere come pattern che si ripetono ad ogni annuncio di nuova tecnologia.
Gli artisti sono stati presenti ad ogni passaggio, grattando la superficie luccicante dell’hype del momento per capire le implicazioni di un fenomeno, sperimentando e incorporando nella propria arte nuove pratiche per poter appropriarsi degli strumenti.
È più chiaro seguire uno sviluppo di tematiche affrontate e tools sperimentati piuttosto che cercare lo sviluppo estetico formale di una corrente artistica.
Occorre fare delle scelte su dove vogliamo indirizzare lo sviluppo in corso e il ruolo degli artisti può essere importante per fornirci uno sguardo diverso da quello dominante delle solite grandi corporation.
Ci sono progetti che rendono argomenti complessi accessibili a tutti, perché tradotti nel linguaggio dell’arte che si svincola dal linguaggio tecnico pur muovendosi negli stessi territori. E non è nemmeno il linguaggio spesso autoreferenziale di molta arte contemporanea, perché nell’arte digitale abbiamo a che fare con opere che vanno direttamente al punto di situazioni che tutti stanno realmente vivendo.
Penso a progetti sulle fake news, sulla sorveglianza, sulle trasformazioni del corpo, delle relazioni umane mediate dalla macchina, sulla trasformazione e rappresentazione dello spazio.
In questo momento assumono un ruolo centrale le ricerche sulle intelligenze artificiali e sulle loro applicazioni di massa, come nel caso del face detection che si sta rivelando uno strumento con un impatto potenzialmente devastante nelle nostre vite. E in anche su queste tematiche ci sono puntualmente le risposte, o almeno le domande, poste dagli artisti.
L’archivio nell’arte contemporanea: una conversazione con Valentina Tanni
Da sei anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno abbiamo riunito attorno a un tavolo tre figure eterogenee per riflettere sul rapporto tra archivi e cultura contemporanea: l’artista digitale e docente Marco Cadioli, la storica dell’arte e curatrice Valentina Tanni e l’attivista bibliotecario digitale Andrea Zanni.
Perché questa scelta? Negli ultimi anni la quantità di informazioni prodotte quotidianamente ha raggiunto livelli letteralmente inconcepibili, facendo fiorire gli studi di discipline come la cibernetica e le data sciences. Allo stesso tempo, si sono consolidate intere aree del sapere (dalla filosofia all’antropologia) che si occupano delle implicazioni critiche degli archivi, delle loro logiche di potere, delle loro omissioni e del loro ruolo nella produzione e riproduzione della costruzione sociale del genere, dell’identità etnica e di quella di classe. Non sorprende allora che un numero crescente di artisti e studiosi si interroghino attorno alle pratiche dell’archivio alla ricerca di punti di vista inediti sul contemporaneo.
L’incontro ci è piaciuto, ed abbiamo deciso di intervistare gli ospiti per approfondire. Iniziamo con Valentina Tanni, una ricercatrice che segue dai suoi esordi gli sviluppi del rapporto tra arte e Internet attraverso un lavoro costante di curatela, docenza, divulgazione e attivismo culturale.
Sei una delle pioniere in Italia della riflessione su arte e nuovi media. Puoi raccontarci qualcosa in più del tuo percorso?
Di formazione sono una storica dell’arte. Durante gli ultimi anni di università ho concentrato i miei studi sul contemporaneo e in particolare sul rapporto tra arte e tecnologia, anche grazie alle lezioni di Silvia Bordini, che alla Sapienza di Roma teneva corsi su videoarte, arte interattiva e anche sulle prime sperimentazioni artistiche con i computer.
Poi nel 1997 a casa mia è entrato il primo modem, e da allora le cose sono precipitate: il mio interesse per i rapporti tra mondo dell’arte e mondo della tecnologia si è intensificato grazie alla passione folgorante che ho avuto per la net art negli Anni Novanta e Duemila. Osservare il modo in cui quegli artisti rivoltavano Internet, smontavano le interfacce, giocavano con il crash e l’errore, mettevano in discussione strumenti e procedimenti, per me fu estremamente formativo.
Mentre scrivevo la tesi, che ho poi discusso con Silvia Bordini e Gianni Romano, ho iniziato anche a lavorare per alcune testate online e poi come curatrice di mostre, sempre concentrando la mia attenzione su quella che di lì a poco sarebbe stata battezzata “new media art”. Ho co-fondato Exibart e successivamente Artribune (con la seconda collaboro tuttora) e per dieci anni ho gestito Random Magazine, una specie di blog ante litteram che segnalava e recensiva progetti di net art (e dintorni).
Dal 2010 al 2012 sono stata curatore ospite di Fotografia Festival Internazionale di Roma, ed è stata l’occasione per approfondire i cambiamenti avvenuti nel mondo della fotografia – e dell’immagine in generale – in seguito all’avvento delle tecnologie digitali.
Negli ultimi anni ho concentrato la mia attenzione sul mondo delle culture amatoriali in rete, cercando anche di analizzarle in chiave storico-artistica e mettendo in evidenza la loro enorme importanza per la cultura visiva contemporanea. In questo senso è stata centrale la mostra Eternal September. The Rise of Amateur Culture, organizzata con Aksioma a Lubiana nel 2014.
Su questi temi ho scritto anche un libro che uscirà a inizio 2020. Un’altra cosa che faccio con grande piacere è insegnare. Negli anni ho lavorato in varie università, accademie e istituti privati. Al momento ho un corso di Digital Art al Politecnico di Milano e uno di Culture Digitali alla Naba di Roma.
Nel corso del ‘900 l’archivio all’interno dell’arte contemporanea è stato strumento, opera, ispirazione, oggetto di ricerca, dispositivo. Puoi tracciare un breve percorso?
La fascinazione per il tema dell’archivio – inteso come oggetto culturale ma anche come dispositivo di organizzazione dei contenuti – è molto presente nella storia dell’arte contemporanea. Si tratta di uno dei filoni più fortunati e ricchi di sviluppi, soprattutto a partire dagli Anni Sessanta, quando gli artisti, seguendo l’esempio delle avanguardie storiche ma con modalità assai più radicali, sentirono il bisogno di abbattere i confini tra opera e mondo, tra arte e vita, tra opere d’arte e semplici oggetti. Per questo, anche sull’onda del boom dell’arte concettuale, nelle mostre iniziarono a comparire documenti, oggetti, residui di realtà, spesso organizzati prendendo a prestito la “forma” dell’archivio, che si trasforma in una specie di linguaggio, una struttura espressiva.
Queste opere riguardano spesso la rielaborazione di una memoria storica, che può essere collettiva o personale; a volte esprimono un disperato (quando non impossibile) tentativo di sistematizzazione del mondo, con progetti ossessivi di catalogazione; altre volte assumono le connotazioni del gesto politico, mettendo in discussione le strutture di potere; infine, e sempre più spesso man mano che ci avviciniamo al presente, analizzano e mettono in discussione il ruolo della tecnologia nella formazione e nella gestione degli archivi e dell’informazione in genere.
Naturalmente esistono anche alcuni precedenti, che possiamo datare intorno ai primi decenni del Novecento (pensiamo alla Boîte-en-valise di Marcel Duchamp (1935-41) oppure alle opere di Joseph Cornell), ma è dagli Anni Sessanta in poi che l’archivio diventa una presenza stabile e sempre più frequente. Di esempi se ne potrebbero fare a centinaia: c’è il famoso Atlas di Gerhard Richter (1962-2013), un’opera monumentale di raccolta di fotografie, schizzi e ritagli di giornale che documenta la ricerca dell’artista tedesco nell’arco di cinquant’anni; il libro fotografico concettuale Twentysix Gasoline Stations di Edward Ruscha (1963) che cataloga in modo algido e impersonale le pompe di benzina della Route 66, un elemento trascurabile (e trascurato) del paesaggio americano; la raccolta di vetrini con il sangue dei poeti, raccolti da Eleonor Antin (Blood of a Poet, 1965-8), un oggetto paradossale che introduce ironicamente ma con forza il tema della corporeità; e naturalmente le monumentali installazioni di Marcel Broodthaers (Musée d’Art Moderne, Département des Aigles, 1968) e Hanne Darboven (Kulturgeschichte, 1980-1983), che ripensano radicalmente il concetto di museo e di archivio come istituzioni culturali, strutture di potere volte a custodire la memoria di una civiltà, spesso con criteri arbitrari e censori.
Infine, ci sono esempi più irregolari, che si inoltrano nei territori della poesia, dell’utopia e della performance, come Variable Piece di Douglas Huebler (1973), un assurdo tentativo di archiviare le sembianze di tutti gli esseri umani in vita al mondo. Penso anche alle Time Capsules di Andy Warhol (1974-1987) una specie di anti-archivio, un ammasso di oggetti che nel loro programmatico disordine finisce per restituire una fotografia molto più fedele della vita delle persone, un flusso in cui oggetti, incontri e situazioni si stratificano in maniera non regolata e caotica.
Cosa è cambiato negli ultimi 20 anni? Quali sono gli aspetti da tenere presenti oltre a quelli meramente tecnici?
Dopo il grande fermento negli Anni Sessanta e Settanta, un altro picco di attenzione sul tema l’abbiamo visto a partire dai primi Anni Duemila, quando una serie di testi critici e di mostre internazionali hanno rispolverato la questione, ponendola ancora una volta al centro del dibattito artistico. Penso per esempio alla pubblicazione di An Archival Impulse di Hal Foster (2004), un saggio molto letto e ultracitato, ma anche a mostre come Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art curata a Londra da Okwui Enwezor nel 2008 (che nel titolo fa riferimento a un fondamentale testo di Jacques Derrida del 1995); alle Biennali di Massimiliano Gioni – quella di Gwangju e poi quella di Venezia – e alla dOCUMENTA di Carolyn Christov-Bakargiev (dove spiccava un’incredibile installazione-archivio di Kader Attia che affrontava con forza temi come il post-colonialismo).
Questa rinnovata attenzione al tema secondo me è il frutto di due diversi fattori: la sempre maggiore disponibilità di materiali, sia testuali che visivi, innescata dai processi di digitalizzazione e una sempre più sentita attitudine multidisciplinare, che ha portato gli artisti ad abbracciare materiali e metodi che provengono dal mondo della scienza, della filosofia, della storiografia.
Volendo soffermarsi, in modo particolare, sul primo aspetto, ossia sulle evoluzioni tecnologiche, vediamo che tantissimi artisti sentono l’esigenza di indagare i mutamenti intervenuti nella nostra concezione di memoria nell’epoca dei database e della sorveglianza globale. Ma anche di indagare aspetti più personali, dimostrando come ogni persona con un computer e una connessione Internet diventi, di fatto, un potenziale archivista. Sia che lo faccia in maniera conscia (pensiamo alle raccolte di tramonti messe insieme da Penelope Umbrico tramite Flickr), oppure inconsapevole (come dimostra la serie Internet Cache Self Portrait di Evan Roth, incentrata sul meccanismo della cache). Ha indagato in maniera approfondita questo tema, ossia l’artista come archivista ai tempi del web, una bella mostra curata da Domenico Quaranta nel 2011 (Collect the WWWorld: The Artist as Archivist in the Internet Age).
In quest’epoca di incertezza sul rapporto tra realtà e rappresentazione e tra informazione e memoria, credi che possa esserci un nuovo ruolo per figure come la tua anche al di là delle reti degli addetti ai lavori?
Bella domanda. Sicuramente abbiamo tutti bisogno, come individui e come società, di riflettere su queste tematiche più a fondo.
I cambiamenti in corso sono profondi e a volte anche sotterranei, il che rende molto difficile la loro interpretazione. Penso che guardare quello che fanno gli artisti sia importante, perché il loro punto di vista è spesso svincolato da interessi economici e non ha come obiettivo la vendita di prodotti o l’adesione a un qualsiasi credo. Questo atteggiamento mentalmente libero è fondamentale in un’epoca come la nostra, dominata da interessi corporate e tecnologie opache.
Non dobbiamo però commettere l’errore di considerare l’artista come una specie di profeta, contribuendo a tenere in vita un concetto vetusto come quello del genio superiore. Credo che oggi sia fondamentale accettare il fatto che le pratiche artistiche vivano anche e soprattutto all’interno della vita quotidiana, in luoghi non istituzionali, su Internet, nelle case delle persone, sui social, sui personal computer.
Dobbiamo deciderci ad accettare questa idea allargata, collaborativa e comunitaria dell’atto creativo. Le avanguardie ce l’hanno insegnato molte volte ma abbiamo la tendenza a dimenticarlo ciclicamente. Ora però non possiamo più fare finta che non sia successo niente, continuando a sostenere una concezione dell’arte (e un sistema dell’arte) di impianto ottocentesco.
Immagine di copertina: Stop and Go. The Art of Animated Gifs, MGLC – International Centre of Graphic Arts, Ljubljana, photo DK Aksioma