La fase della rigenerazione area-based è finita — Torino Social Factory parte dalle organizzazioni

Torino Social Factory è un progetto che sostiene progetti di innovazione sociale come strumenti di rigenerazione delle periferie e creazione di nuovo welfare. È interessante perché è il frutto recente di una lunga stagione di politiche per le periferie, che ha avuto a Torino il principale centro di sperimentazione, nel corso della quale il fuoco dell’attenzione si è progressivamente spostato dalla riqualificazione fisica, attraverso grandi interventi unitari su quartieri-bersaglio, verso il sostegno alla progettualità dei soggetti no profit.

L’esaurirsi della fase dei progetti area-based deriva da molteplici ragioni, la principale delle quali risiede, a mio avviso, nel riconoscimento che l’approccio che la sosteneva – quello per cui l’ente pubblico disegnava un intervento, componendo un menù variato di azioni (sulle case, le infrastrutture, gli spazi aperti, i servizi) e ne accompagnava l’attuazione attraverso la creazione di una struttura localizzata in quartiere (il “laboratorio di accompagnamento sociale”) – non è più proponibile. L’hanno reso obsoleto il protagonismo delle realtà associative, la crescita delle competenze delle organizzazioni di terzo settore, la presa di parola e le capacità degli attori locali, che sono anche in parte l’eredità dei cicli precedenti di politiche pubbliche.

Queste dotazioni chiedono di essere riconosciute e messe al centro dei programmi di intervento. Torino ha fatto da apripista: Milano, Bologna, Venezia, Napoli, Palermo, pur con presupposti diversi e tempi di maturazione differenti, stanno seguendo un orientamento analogo. La cornice è fornita dal Programma Operativo Nazionale “Città Metropolitane” (PON Metro) nell’Asse Inclusione sociale.

In sintesi, Torino Social Factory sostiene la nascita e il consolidamento di idee di imprenditorialità sociale, fornendo loro un servizio di incubazione e un sostegno finanziario all’avvio. Il percorso di incubazione, realizzato da Make a Cube³ nella prima metà del 2018, ha sostenuto 25 idee progettuali nello sviluppo della loro fattibilità tecnica ed economico-finanziaria. Di queste, 12 sono stati ammessi dal Comune al finanziamento, con contributi a fondo perduto compresi tra 50.000 e 140.000 euro.

Sono progetti complessi, come dovrebbero essere tutti quelli sperimentali nelle periferie. Lavorano su più dimensioni, mettendo in gioco lavoro, cultura, impresa, cura e diplomazia e provando così a massimizzare l’utilità sociale.

Con Abito, l’attività di raccolta e rigenerazione di abiti usati a favore di persone in difficoltà dà luogo ad un negozio sociale, dove alla distribuzione gratuita si associa la vendita dei capi di maggior valore; il recupero dei vestiti dismessi è occasione di riduzione dello spreco e creazione di nuovi circuiti di reciprocità.

Una iniziativa di conciliazione in un condominio solidale cerca di rispondere ai bisogni di gestione del tempo delle famiglie (italiane e straniere), offrendo spazi gioco per i bambini e possibilità di postazioni in coworking per i genitori, laboratori creativi e percorsi educativi. Panacea produce pane in un community hub, creando percorsi di inclusione lavorativa per giovani immigrati e rifugiati, curando la qualità del prodotto e preoccupandosi della promozione della buona alimentazione, in particolar modo per i soggetti deboli. La riqualificazione di un giardino adiacente al Museo del Fantastico sarà dedicata al tema dell’incontro con le diversità, delle identità non ordinarie, con istallazioni artistiche e laboratori di scenografia e costumistica.

Torino Social Factory è rivolto ad un terzo settore che cerca nuove strade, oltre l’erogazione dei servizi in regime di accreditamento. Ne sostiene lo sforzo di cambiamento, accompagnandolo lungo un percorso di capacity building nella sperimentazione di nuovi prodotti e nuovi modelli di business. Gli impatti attesi sono sul sistema di offerta, in termini di qualificazione dei servizi; sulle reti di attori, perché costituisce il terzo settore come attore delle politiche urbane; sull’agenda delle politiche di rigenerazione, promuovendone l’innovazione, sia dal lato dei prodotti (nuovi servizi, vecchi servizi erogati con nuove modalità), sia dal lato dei processi (ridefinizione del modo di concettualizzare e trattare i problemi delle periferie).

Costruire percorsi di capacity building per aprire al non profit nuovi ambiti di intervento significa ridisegnare politiche di impresa: il civismo diventa lavoro e impresa di natura sociale. I progetti di Torino Social Factory sono – riprendo una felice espressione di Giovanni Carrosio[1] – “innovazioni emancipative”, che cercano il loro campo di esercizio nello spazio tra mercificazione e forme oppressive di protezione sociale. Ciò sollecita una profonda modificazione della relazione tra azione sociale e politiche pubbliche, queste ultime sfidate a dare spazio, riconoscere valore e fornire supporto a iniziative che germinano dai territori di margine.

A proposito di periferie, Torino Social Factory invita a riflettere sul fatto che non servono tanto programmi straordinari, misure urgenti, iniziative sollecitate dall’ennesimo bando, ma il coraggio di sperimentare nuovi strumenti, ridefinire i termini del rapporto tra stato e società nella direzione della co-creazione.

Per questo, mi pare un programma di grande ambizione. Riconosce che, per sostenere l’innovazione nelle politiche, occorre costituire nuovi attori e alterare schemi di interazione consolidati tra amministrazione pubblica e terzo settore nella produzione del welfare. Seleziona come beneficiari soggetti cui chiede di riformulare i modelli di intervento, indicando loro dove poterli sperimentare. Sceglie aree bersaglio, le quali, più che perimetro entro il quale far precipitare un insieme di interventi, sono un campo: è all’interno di questo, che attori mobilitati da un programma pubblico disegnano e implementano azioni di rigenerazione.

È un punto delicato, perché nell’interazione tra soggetti del non profit e località si producono equivoci, che è bene chiarire. Torino Social Factory offre indicazioni importanti in tal senso. Da un lato – come ho appena cercato di argomentare – sollecita il terzo settore a reinterpretare la propria relazione con la località in chiave progettuale: sollecitando progettualità che devono scegliere dove atterrare (à la Latour), rovescia l’approccio per “zone di influenza”, per territori che le cooperative sociali riconoscono come proprie constituency e dai quali estraggono rendite di posizione. Dall’altro, permette di uscire dalla visione essenzialista dello spazio suggerita da una letteratura recente sul management delle organizzazioni.

Secondo questa visione, il luogo è lo spazio «dove relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi»[2]. Una prospettiva operativa per le politiche per le periferie assume invece una visione pluralistica dello spazio, riconoscendovi conflitti e diversità irriducibili alla condivisione, nella quale la compresenza di attori, intenzionalità, problemi, risorse, opportunità genera il campo per progetti possibili.[3]


[1] G. Carrosio (2019), I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Donzelli, Roma.

[2] È la proposta di Arjun Appadurai, che preferisce la nozione di locality: «I view locality as primarily relational and contextual rather than as scalar or spatial. I see it as a complex phenomenological quality, constituted by a series of links between the sense of social immediacy, the technologies of interactivity and the relativity of contexts». A. Appadurai (1996), Modernity at Large, Univ. of Minnesota press, Minneapolis (9th printing 2010), p. 178.

[3] G. Pasqui (2018), La città, i saperi, le pratiche, Donzelli, Roma.