Attivare la memoria del paesaggio

Molte esperienze di innovazione culturale vengono attivate nei territori per rispondere a necessità sociali che né il settore pubblico né quello privato si prendono in carico. È il caso dei progetti che si occupano di favorire l’integrazione tra abitanti e l’attivazione delle comunità, mettendo al centro la creazione di processi di partecipazione. Idee spesso replicabili in contesti differenti, senza la necessità di plasmarsi eccessivamente alle specificità del luogo dove vengono realizzati, bensì ai bisogni delle comunità che lì risiedono.

Pratiche meno replicabili si verificano quando sono il risultato di una fusione tra l’ambiente naturale e sociale, tra la storia che ha accompagnato la vita delle popolazioni e i simboli che la rappresentano nell’immaginario collettivo. Progetti che creano partecipazione partendo dall’individuazione dei luoghi dell’identità, della tradizione e cercano di rinnovarli e valorizzarli attraverso idee e immagini originali, lavorando sul paesaggio contemporaneo.

Il tema del paesaggio attraversa da secoli molteplici discipline, dall’ecologia, all’urbanistica, dalla biologia alle scienze sociali ed umane, ma solo nel 2000, con la firma della Convenzione Europea sul Paesaggio, viene formalmente riconosciuta una definizione univoca che prende finalmente in considerazione il valore dell’identità degli abitanti:“Landscape: an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors”. La traduzione italiana (“Paesaggio, una determinata parte di territorio, cosi come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali c/o umani e dalle loro interrelazioni”) presenta una distorsione, inserendo, senza motivazione, un confine determinato del territorio, materiale, quando in realtà esso viene identificato come il risultato della percezione stessa degli abitanti.

Ci appoggiamo all’arte per ricordare che già nel XVI secolo era in corso un cambiamento nella concezione del rapporto tra spazio e abitanti. La rappresentazione dell’ambiente circostante diventa lo sfondo e accompagna le scene che raccontano la vita delle comunità. Uno degli artisti che ha dimostrato di aver capito l’importanza della presenza umana nell’ambiente è Tiziano Vecellio il quale, oltre a testimoniare questa trasformazione nei suoi dipinti, utilizza esplicitamente, per la prima volta il termine paesaggio in una lettera scritta all’Imperatore Filippo II nel 1552, entrato da allora a far parte dei dizionari della lingua italiana.

Proprio nel paesaggio montano delle Dolomiti, terra madre del Tiziano, è attiva dal 2011 una realtà che riesce a coniugare in modo innovativo l’aspetto naturalistico – e naturale – e quello antropico. È Dolomiti Contemporanee, una buona pratica di integrazione con l’ambiente che si occupa di valorizzare i territori segnati da un’importante storia, superando la retorica che spesso avvolge il racconto del passato.

Il territorio delle Dolomiti, inserito nel 2009 da Unesco tra i Patrimoni naturali dell’Umanità, nasconde, oltre agli emozionanti panorami , una storia di sfruttamento delle risorse naturali e umane. Un luogo che ha visto la rapida successione di periodi di forte sviluppo economico e anni di abbandono e desolazione. Un territorio il cui radicato sapere artigiano è stato assorbito dall’industrializzazione, che – oltre a trasformare le botteghe in fabbriche e le maestranze in operai – ha modificato la geografia dei paesi, moltiplicando il numero di edifici, costruiti per ospitare fabbriche e imprese.

Lo sviluppo industriale ha favorito l’espansione del settore turistico, abituando la popolazione delle dolomiti alla presenza di grandi numeri, ma la post-industrializzazione, fatta di fallimenti o delocalizzazioni, ha lasciato in eredità gli edifici abbandonati delle fabbriche, ad iniziare da quelle di occhiali, e gli scheletri rimasti in piedi di alberghi e colonie. Il territorio è stato inoltre sede di grandi eventi e grandi opere, speculazioni spesso a discapito delle popolazioni, come accaduto nel caso della costruzione della diga del Vajont.

È da questi simboli dell’abbandono che Gianluca D’Incà Levis – fondatore e curatore di Dolomiti Contemporanee (DC) – e la comunità di artisti che danno vita al progetto, trovano lo stimolo per ripensare il presente e, attraverso l’arte contemporanea – che genera per natura nuovi significati e nuovi immagini.

DC ha iniziato la sua attività con la riattivazione del polo industriale abbandonato di Sass Muss (BL) a ridosso del Parco delle Dolomiti Bellunesi e attualmente è attiva principalmente in due cantieri: l’ex colonia Agip / Eni di Borca di Cadore (BL) e il Centro sperimentale per la Cultura Contemporanea della Montagna di Casso, situato nel comune di Erto e Casso – uno dei paesi simbolo del disastro del Vajont, al confine tra la provincia veneta di Belluno e quella friulana di Pordenone.

Un luogo lacerato dalla storia di una superficialità umana i cui simboli ricordano la tragedia, ad iniziare dalla diga che ci obbliga a fissare la sua maestosità ad ogni passaggio. Si ritrovano sulle facciate delle case ancora in piedi di Casso, sulla vista prospiciente il Monte Toc, sulla facciata dell’ex scuola elementare, le cui ferite sono rappresentate dalle impronte vive dell’acqua che ha cercato di inghiottirla, con le tre maestre che si trovavano al suo interno.

Eppure i segni maggiori sono nascosti negli abitanti che non hanno abbandonato il proprio paese, ma che si sono sentiti sfruttati sia prima della tragedia che in seguito da chi ha avuto il coraggio di approfittare dell’accaduto per arricchirsi ancora.

La notte del 9 ottobre 1963, quando “un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia”, per citare Dino Buzzati, il paese si è svuotato. Dei 600 abitanti oggi ne sono rimasti 23. Enrico è l’unico bambino. Un paese portato fisicamente e moralmente verso un isolamento, che ha facilitato il radicarsi di sentimenti di sfiducia nei confronti, soprattutto, degli enti pubblici ed un aumento della fragilità della comunità nel riconoscere un nemico esterno, come testimoniato da chi ha paragonato Dolomiti Contemporanee alla Sade (responsabile del disastro) e quindi a degli sciacalli, accusati di voler speculare sul dramma e sulla popolazione.

Sterili giudizi che confermano quanto un’identità radicata sia inviolabile dal sapere critico, qualità fondamentale per riuscire a codificare il significato, spesso sospeso, delle azioni innovative che può scatenare nell’osservatore quello che Gianluca definisce spiazzamento.

Per non incorrere in questa confusione, le sole iniziative permesse nei confronti della storia sembrano essere le commemorazioni in memoria delle 2000 vittime, ricorrendo al limite ad interventi di conservazione dei simboli (pubblici), definiti da alcuni come luoghi sacri. L’interesse unilaterale verso la conservazione è stato criticato anche dal sindaco di Erto e Casso, Luciano Pizzin, durante l’incontro Cultura: un motore per la montagna (Casso, 27 febbraio 2015) , sottolineando come la mera conservazione rappresenti una testimonianza immobile, che si limita a tutelare le lapidi, senza porsi in modo propositivo verso il territorio.

Ed è stato proprio il sindaco Pizzin nel 2012 – incuriosito dalla prima esperienza di DC a Sass Muss – a coinvolgere Gianluca D’Incà Levis ed affidando a DC il compito di gestire lo spazio che ospitava la scuola elementare del paese, finito di ristrutturare nel 2011 dall’architetto Stella, creando un centro per l’arte contemporanea.

Accettato l’incarico è stato il momento di pensare non solamente a come rifunzionalizzare lo spazio fisico, ma soprattutto a come far riprendere la storia di quel territorio fermo al 1963. “Un luogo evocatorio, che suscita un bisogno di creazione”, come descritto dall’antropologo Marc Augé durante l’incontro L’uomo e il territorio organizzato la scorsa estate da DC a Forni di Sopra (UD).

Fondamentale è stata, ed è tuttora, l’apertura del cantiere ad artisti ed operatori culturali, sguardi esterni capaci di reinterpretare dei contesti statici con visioni contemporanee, una contaminazione capace di generare nuove visioni e significati.

In alcuni casi il risultato di questa esperienza è stato attivato nei luoghi legati alla tradizione del paese, come accaduto per il restauro artistico dell’antico capitello del paese a cura di Andrea Visentini, permettendo un’interessante integrazione tra tradizione e contemporaneo. In altri casi è sfociata nell’idea di ripensare spazi simbolici, come accade nel Concorso Internazionale d’Arte Contemporanea Two Calls for Vajont, volto a ri-immaginare due simboli della tragedia del territorio: la diga del Vajont e la facciata della scuola elementare di Casso, sede di DC.

Grazie a questo processo (deadline 30 aprile 2015) gli artisti hanno la possibilità di relazionarsi con un simbolo dal significato importante, senza attivare sentimenti celebrativi o retorici e superando la banalità ed l’omologazione delle iniziative culturali realizzate per ricordare la storia di questo luogo.

Un lavoro che si adopera nel rispetto del territorio, della memoria e delle identità locali, che coinvolge gli abitanti, gli enti e le imprese locali. Significativa la partnership con diverse aziende del territorio come l’Acqua Dolomia e l’azienda Neon Lauro, che si occuperà della realizzazione dell’opera neon che sarà installata sulla facciata della scuola elementare. Il concorso rappresenta inoltre la prima riapertura dal 1963 nei confronti di Enel, azienda proprietaria della diga, sostenitore del progetto.

Un’opportunità, oltre che per concedere una nuova vita agli spazi dimenticati, per testimoniare la capacità di essere propositivi verso un territorio che merita un nuovo inizio dal quale ripartire.

Nonostante gli interventi di DC si attuino sempre in luoghi simbolo dell’abbandono, l’esperienza di Casso rappresenta un interessante esempio di rigenerazione di uno spazio, fisico e simbolico, dall’aura ingombrante. Questa condizione necessita di una riflessione critica sulla storia del territorio, dell’identità e della tradizione e dell’attivazione di forme di partecipazione e di coinvolgimento sul tema della memoria che possano scrivere una nuova storia e una nuova cultura del paesaggio, senza mettere al centro il dramma. Perché la memoria non sia la sola identità dei sopravvissuti.

 

Foto di pine watt su Unsplash