Noi siamo natura: il selvatico dietro e dentro casa

Pubblichiamo un estratto, scritto da Irene Borgna, di Umani e non umani. Noi siamo natura”, libro realizzato da Marco Aime, Federico Faloppa, Adriano Favole, Guido Barbujani, Irene Borgna, Emanuela Borgnino, Ugo Morelli, Marco Paolini. Edito da UTET. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

 

Indovina chi viene a cena? Il selvatico dietro e dentro casa

Per secoli gli animali selvatici in Europa hanno sistematicamente perso terreno a favore dei Sapiens, a livello di numeri e di spazi: quando gli umani non li hanno uccisi direttamente, ne hanno colonizzato e trasformato gli habitat rendendo loro, letteralmente, la vita impossibile. Da un lato è sicuramente vero che, a livello globale, stiamo continuando a deforestare, a consumare suolo, a inquinare e a devastare ecosistemi come se la sesta estinzione di massa fosse un traguardo a cui tendere con entusiasmo. 1 Dall’altro è vero anche che in Italia, e in diverse zone intensamente antropizzate dell’Europa centrale, è iniziato circa cent’anni fa, con epicentro sulle terre alte meno popolate, un processo di rinaturalizzazione o di rinselvatichimento, a seconda che lo si osservi da un punto di vista eco- o antropocentrico. Solo oggi iniziamo a prendere piena coscienza di questo fenomeno, perché sempre più spesso si sente parlare di uno dei suoi aspetti più spettacolari: il graduale ritorno dei selvatici, erbivori e carnivori, prede e predatori. Dopo aver occupato i territori più favorevoli, con meno strade trafficate e poche persone, oggi alcune specie fanno capolino anche a bassa quota: per questo iniziamo a trovare (e a fotografare, filmare e postare) i selvatici dove non ce li aspetteremmo, ben lontani da dove li colloca il nostro immaginario.

Non lassù sui monti, nei boschi, in campagna – ma per le strade, nei cortili, tra capannoni e cassonetti, sulla battigia. È il lupo pescato nei navigli di Milano, sono i cinghiali nel greto del Bisagno a Genova, lo sciacallo dorato in tangenziale a Udine. Non tutte le specie sono presenti ovunque, ciascuna ha la sua storia di estinzione sfiorata o compiuta, modalità di ritorno e di espansione caratteristiche. Tutte le specie, però, sono tornate per restare. Alcune ci mettono in difficoltà, ma ciascuna offre un’occasione preziosa. Perché i selvatici in generale e i grandi carnivori in particolare sono maestri muti. Con la loro presenza insegnano qualcosa che abbiamo dimenticato. Ma la didattica è traumatica e i contenuti difficili da digerire. C’è stato un lungo periodo, durato secoli e tramontato a partire dai primi decenni del Novecento, in cui umani e animali hanno convissuto sulle terre alte d’Italia. Come accennato poco sopra non si trattava di una coesistenza pacifica, piuttosto di uno stato di conflitto perpetuo, una guerra senza quartiere motivata dal contendersi risorse limitate in un ambiente difficile.

Le Alpi e gli Appennini di fine Ottocento erano un formicaio, brulicavano di persone sui versanti al sole e su quelli in ombra, fiorivano insediamenti dove le pendenze erano più favorevoli – ma persino abbarbicati sui pendii più ripidi e rocciosi. Erano montagne pascolate, coltivate, costruite, abitate, sfruttate fino all’ultimo centimetro utile. I boschi tagliati, i prati sfalciati, le acque irregimentate, i versanti e i colli attraversati da una fitta rete di mulattiere e sentieri percorsi in tutte le stagioni. Ma non ci bastava essere al vertice della piramide ecologica, volevamo essere gli unici a occupare questo posto privilegiato: abbiamo quindi sbaragliato la concorrenza, cacciando i superpredatori come lupo, lince e orso, che arrivarono quasi all’estinzione, ed eliminando quante più volpi, tassi, donnole, martore, faine, gipeti, aquile, falchi, gufi e civette potessimo – tutti animali considerati “nocivi”. Per necessità, per fame, abbiamo messo nel carniere ogni possibile preda, provocando quasi ovunque la scomparsa di cervi, stambecchi, caprioli, cinghiali.

All’inizio del Novecento, la montagna era nostra – o meglio: eravamo rimasti solo noi e gli animali domestici. Ma ecco che proprio allora accade qualcosa di inaspettato: abbandoniamo il campo, usciamo di scena. E lo facciamo improvvisamente, in fretta, in massa. È un precipitare di persone a valle, un’emorragia che in alcune zone non è mai finita per davvero. Per prime vengono abbandonate le terre alte, più difficili da raggiungere e meno produttive. Là dove i campi rendono poco e l’oro bianco dello sci non rimpiazza per tempo l’oro bianco del latte, i montanari calano a lavorare e a vivere a valle. Nelle Alpi occidentali – insieme alle Alpi orientali le più drenate dallo spopolamento – il declino ha inizio a partire dal censimento del 1921: curiosamente, ma non troppo, l’anno in cui si dice sia stato abbattuto l’ultimo lupo della zona. Non più coltivata, non più pascolata, la montagna­-giardino si ricopre silenziosamente di boschi. Non è un processo veloce, ma la natura non ha fretta. E interi versanti si trasformano in meno di un secolo in una giungla verde disabitata. Arbusti e alberi avanzano, un po’ più lenti della foresta di Birnam verso il castello di Macbeth ma ugualmente implacabili, e nel secondo dopoguerra vengono ripopolati di erbivori utili per la caccia (caprioli, daini, cervi, cinghiali, mufloni), che nei decenni successivi si riproducono e si diffondono di gran carriera.

Negli anni settanta del Novecento emerge e si propaga una nuova sensibilità ecologica: il concetto di ecosistema, di un tutto vivente dove ogni elemento svolge un ruolo indispensabile all’equilibrio dell’insieme, ria­bilita i cosiddetti animali “nocivi”. Così i carnivori, piccoli e grandi, smettono di essere dei bersagli ambulanti nel mirino dei fucili. Tagliole e veleni, almeno in teoria, finiscono in cantina. Lupi e orsi acquisiscono addirittura lo status di animali protetti. Tutelati dalla legge italiana e internazionale, con boschi nuovi di zecca traboccanti di prede a disposizione, i carnivori recuperano velocemente gli spazi perduti. Prima quelli spopolati. Adesso quelli dove viviamo noi. C’è chi dubita che si possa convivere con i selvatici anche nei territori più antropizzati.

Ma è un dubbio solo umano: i selvatici non si formalizzano per questi problemi. Ci sopportano, sono tolleranti, loro. Immaginiamo una valle lunga ottanta chilometri, abitata da novantamila persone, percorsa da una strada statale di interesse internazionale, una provinciale, un’autostrada, una ferrovia e minacciata da una linea ad alta velocità… Esiste per davvero ed è la Val di Susa, in provincia di Torino: solo qui, vivono almeno cinque branchi di lupi. I primi esemplari sono arrivati quasi trent’anni fa e i discendenti non hanno ancora trovato nessun motivo valido per andarsene. Visto che oggi ce li ritroviamo dietro casa, vale la pena cercare di capire perché la presenza dei grandi carnivori risulti così disturbante, perché parlare di lupi e di orsi (soprattutto) porti quasi sempre gli interlocutori a schierarsi su due fronti estremamente polarizzati, ad alzare i toni del discorso, ad accantonare la logica in favore della pancia, a perdere la bussola e la tramontana. Gli argomenti vanno ben al di là dei danni concreti che, innegabilmente, i predatori causano e dei rischi reali – ma davvero contenuti – che rappresentano per l’incolumità umana.

 

I grandi carnivori ci disturbano. In primo luogo c’è il fastidio razionale, misurabile e concreto causato dai danni all’allevamento e all’apicoltura di montagna, imputabili rispettivamente a lupi e orsi. Perdite oggettive, quantificabili, di solito almeno in parte indennizzate e in buona misura evitabili (non in modo indolore, bensì con un sovrappiù notevole di spese, di lavoro e di fatica a carico degli agricoltori per mettere in atto le opere di prevenzione). I pastori di montagna, quelli che praticano davvero un allevamento estensivo di qualità, spesso si sentono abbandonati di fronte a un mercato che non rende, alla burocrazia sempre più soffocante, a politiche di assegnazione dei contributi europei che lasciano ampio spazio alle speculazioni di soggetti senza scrupoli: in questo contesto il ritorno dei predatori diventa la classica goccia che fa traboccare un vaso già colmo. Oltre al danno economico reale, tuttavia, c’è il fastidio molto meno scontato e molto più misterioso generato dalla poderosa, ambivalente, perlopiù inconscia macchina dell’immaginario che inizia a lavorare dentro alla testa quando un grande carnivoro compare nei dintorni di casa nostra.

 

Immagine di copertina di Marita Kavelashvili su Unsplash