Ricominciamo dal clima, in cerca di una solida consapevolezza

Frequento le Prealpi Orobiche dai tempi in cui, alla metà degli anni Ottanta, gli adulti di casa mi portavano a praticare lo sci in località Selvino, 960 metri sopra il livello del mare, a soli venti chilometri dalla città di Bergamo. Le piste erano corte, prive di pendenze importanti, ottime per lo scorrimento a spazzaneve di cuccioli umani di cinque anni, come io ero all’epoca. Con l’avanzare dell’età e dell’abilità sportiva, ho vissuto per un decennio, sino alla fine dell’adolescenza, l’esperienza settimanale della vita invernale alpina. La mia mappa mentale delle valli bergamasche si configurava sulla geografia delle località sciistiche che ho più frequentato: Monte Poieto (1360 metri); Colere (1013 metri); Spiazzi di Gromo (1200 metri); Foppolo (1,508 metri); Monte Pora (1880 metri).

La neve era tanta e il freddo penetrante. C’era, per questa ragione, un momento della giornata che tolleravo con fatica: la calzatura degli scarponi da sci, in plastica dura e congelata, era dolorosa quando, dopo averli estratti dal bagagliaio freddo dell’automobile, mi toccava indossarli, seduto in un qualche punto del parcheggio più prossimo alle piste, alle 7 e mezza di mattina, con diversi gradi sotto lo zero, mentre, ragazzino, fantasticavo d’avere un giorno un phon portatile per ammorbidirli, prima di infilarli. La stagione sciistica si apriva all’inizio di dicembre e, nelle annate migliori, continuava fino a primavera. A 18 anni, ho abbandonato ogni sport invernale, ma ho continuato a recarmi, di tanto in tanto, sulle mie montagne dove, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la neve ha progressivamente smesso di arrivare e si sono diffusi i cannoni per l’innevamento artificiale. In località come Selvino o Monte Poieto, gli inverni nevosi sono diventati un ricordo di chi è nato prima del 1990.

Nei giorni scorsi ho ripensato a me, dodicenne con gli scarponi gelati ai piedi, tornando in uno di quei luoghi, pieno di inquietudine per le temperature fuori controllo. A inizio gennaio del 2023, infatti, l’Alta Valle Seriana ha l’aspetto che, in condizioni normali, dovrebbe avere a fine aprile. Le temperature percepite dovrebbero angosciare chiunque abbia una qualche sensibilità per lo spazio montano e per gli ambienti meno antropizzati. In postazioni che si trovano al di sopra dei 1700 metri, come nel caso del Rifugio Vodala, l’inversione termica ha permesso di toccare i 6/7 gradi sopra lo zero quando, in linea con le medie stagionali, fino a 20 anni fa, si attendevano, nelle stesse fasi della giornata, temperature inferiori ai 10/15 gradi sotto lo zero. A Spiazzi di Gromo, invece, per qualche giorno i termometri hanno faticato scendere sotto i +7 gradi di notte, accarezzando i +12 di giorno. Non è un’eccezione, ma la tendenza degli ultimi dieci anni.

Ho ripensato a me, dodicenne con gli scarponi gelati ai piedi, tornando in uno di quei luoghi, pieno di inquietudine per le temperature fuori controllo

Nei prati sono sbucate solitarie e incredule le prime margherite, tutto è verde, manca la neve e mancherà presto l’acqua, come già è stato nel 2022: un’esperienza drammatica per le valli Seriana e Brembana, in passato tra le regioni più ricche d’acqua in Europa, come attesta l’archeologia industriale eredità di una stagione di migrazioni aziendali che, nella seconda metà dell’Ottocento, portarono in loco imprese svizzero-tedesche anche in ragione della ricchezza di acqua e di potenziale idroelettrico. Ora, invece, occorre fare i conti con la siccità estiva eppure, mentre tutto questo accade, continuiamo a segare sorridenti il ramo su cui siamo seduti, per esempio dissipando risorse idriche per produrre neve artificiale che, con 5 gradi la mattina e 10 il pomeriggio, dura mezza giornata.

Valgoglio visto da spiazzi di Gromo, 6 gennaio 2023, alle 10.30 di mattina circa

 

Quando, a fronte di una crisi che sta per esplodere, non si è all’altezza di dotarsi degli strumenti necessari per intenderla e per farvi fronte, il risultato, appena la crisi si manifesta in forma severa, non può portare che lacrime e sangue. Ebbene, la superficialità e la stupidità con cui si insiste a non mettere la questione climatica davvero al centro dell’azione e dell’impegno personale e politico pare annunciare una drammatica stagione di lacrime e sangue, di siccità e desertificazione, nella quale mancheranno nervi saldi e bussole per orientarsi. Ad oggi, il clima è riuscito ad entrare nel dibattito pubblico, ma in termini tragicamente inadeguati rispetto alla fase, ai drammi che già comporta, e in assenza di assunzioni di responsabilità, di scelte individuali e di politiche pubbliche capaci di riorientare noi, e il nostro sistema di produzione e consumo, verso la sostenibilità.

Il dibattito oscilla tra posizioni isteriche, greenwashing aziendali e negazionismi, tra la rappresentazione di una catastrofe imminente e inevitabile, e le chiacchiere di chi, seduto al bar, si scoccia di tutto questo parlare di clima dato che, in fondo, da qualche parte s’è scritto che “il clima è sempre cambiato e comunque non possiamo farci niente”. Non rimane che contare su un improvviso risveglio, sulla capacità di recuperare consapevolezza e risorse, quel senso di responsabilità individuale e collettiva che metta nelle condizioni di pensare e costruire un’alternativa al nostro modo di produrre oggetti e consumare risorse, con la fatica e le rinunce che questo comporterà. Con l’augurio, nel 2023, di essere ancora in tempo.