Nausicaa Pezzoni: la città e la sua rappresentazione
La città contemporanea è solcata da abitanti temporanei che attraversano i luoghi in maniera transitoria e imprevedibile, attribuendo agli spazi significati ogni volta diversi, modificando e risignificando il progetto urbano.
Progettare oggi il disegno delle città significa contemplare una forma in continuo divenire, plasmata da relazioni non più fondate su un senso identitario di appartenenza e riconoscimento ma esito di adattamenti ogni volta diversi.
Nausicaa Pezzoni, architetto e urbanista, sceglie di studiare la città attraverso l’esperienza dell’abitare meno codificata e tradizionale, ricercando nello sguardo di 100 migranti al primo approdo a Milano la fase dell’orientamento al suo stato iniziale, quando alcuni oggetti-spazi si fissano nella memoria diventando centro, confine da non superare o spazio dove tornare.
La città sradicata. Geografie dell’abitare contemporaneo. I migranti mappano Milano (O Barra O Edizioni) raccoglie l’esito di questa ricerca: 100 mappe disegnate da 100 migranti che raccontano di un “abitare senza abitudine”, forme di una città non rintracciabile nella cartografia tecnica eppure rappresentative di uno stare al mondo che evidenzia nuovi interrogativi e sollecita un ascolto più attento e profondo, necessario nella progettazione urbanistica quanto in quella culturale.
Questi temi sono stati al centro della lezione aperta La città da reinventare: proposte culturali per la rigenerazione urbana organizzata dal Master Progettare Cultura dell’Università Cattolica di Milano lo scorso giovedì 25 maggio, con gli interventi di Alessandra Pioselli, Roberto Pinto, Paolo Cottino, Elena Donaggio, Nausicaa Pezzoni, Gabi Scardi e Ivana Vilardi, introdotti da Federica Olivares, direttore del Master e Elena Di Raddo, direttore scientifico del corso.
La città sradicata è un’indagine che mette in discussione il modo abituale con il quale pensiamo alla forma e agli usi dei luoghi e degli spazi delle nostre città. Come nasce questa ricerca e quali sono i suoi esiti?
Questo lavoro nasce da una ricerca di dottorato in Governo e Progettazione del Territorio (Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano) dove mi interessava indagare la transitorietà dell’abitare e il modo di vivere la città da parte delle popolazioni che sempre più numerose stanno abitando la città contemporanea in modi diversi, intercettando degli spazi che non sono noti, spesso trasformandone il significato, dando altre interpretazioni e nuove forme.
Il mio lavoro di ricerca parte da una mancanza: dal punto di vista tecnico-urbanistico, sociologico, geografico mancano delle rappresentazioni di quello che sta avvenendo nelle città.
L’urbanistica, l’ambito di cui mi occupo, è orientata all’abitare stanziale sul quale si fonda la programmazione dei servizi e di tutte le strutture della città.
La transitorietà non è dunque mai contemplata, la rappresentazione tradizionale della città non contiene al proprio interno la dinamica trasformativa di come le persone abitino e trasformino gli spazi.
Ho cercato dunque come primo indizio lo sguardo più estraneo, il punto di vista che includesse tutti i cambiamenti in atto nella contemporaneità e lo sguardo del migrante al primo approdo è sicuramente quello più decentrato, che mi impegna e mi sollecita maggiormente.
Scelgo lo strumento delle mappe mentali perché interrogare lo sguardo più estraneo attraverso domande astratte sulla città, sui desideri e i bisogni di chi sta iniziando ad abitarla, sarebbe più difficile e meno diretto: la mappa è un elemento di mediazione tra uno spazio esterno per lo più sconosciuto e l’esperienza intima di relazione con quello spazio.
Ho incontrato e intervistato dunque 100 migranti nei luoghi del primo approdo, cercando di capire e osservare come abitano e interpretano lo spazio dell’abitare, non focalizzandomi mai sulle loro storie personali, che pure emergono inevitabilmente dalle mappe, ma sul loro impatto con il territorio di approdo, con quella che è la loro attuale vita nella città.
Con questo metodo di lavoro ho intercettato campi disciplinari molto diversi dall’urbanistica che poi sono quelli che hanno avuto i risvolti più imprevisti dopo la pubblicazione del libro.
Pochi giorni fa, ad esempio, una curatrice di musei letterari ha voluto utilizzare il metodo descritto nella Città sradicata per far disegnare alcune mappe sui percorsi e sui paesaggi di Goffredo Parise ad alcune persone che avevano esplorato con lui i suoi luoghi, cercando di far emergere il paesaggio e creare intorno alla casa-museo un ambiente vissuto, non fossilizzato.
Dalla Città sradicata sono scaturite anche altre esplorazioni su città e contesti diversi.
A Rovereto, ad esempio, sono andata a incontrare in un campo profughi un gruppo di 22 rifugiati arrivati con gli sbarchi di pochi mesi prima, proponendo loro un esperimento ancora diverso: al disegno della mappa mentale si aggiungeva in questo contesto la relativa restituzione al gruppo, con una presa di coscienza ulteriore del territorio e della propria esperienza personale.
A Bologna, ancora diversamente, a partire dalle mappe di una ventina di richiedenti asilo al primo approdo ho costruito un itinerario da percorrere in bicicletta che intercettasse sia gli spazi da loro rappresentati sia i luoghi topici di Bologna, quelli consolidati da far conoscere a un nuovo abitante.
Il lavoro è stato poi presentato ad un pubblico più ampio durante la giornata conclusiva di “Terra di Tutti Art Festival”.
I risvolti del mio lavoro di ricerca da un punto di vista più politico e amministrativo sono meno diretti: questo studio intende sollecitare uno sguardo critico verso una realtà che in modo sempre più evidente ha un’urgenza di rappresentazione e di trattamento che sta mettendo in crisi le città europee e non solo.
Quando ho scritto il libro era meno urgente parlarne e paradossalmente sta diventando più attuale adesso perché la politica e i decisori sembrano non trovare, a mio avviso, delle strade di inclusione che siano efficaci dal punto di vista di una integrazione fondata sulla reciprocità.
Questo lavoro si incentra sulla domanda di un grande impegno: chiedere di disegnare una mappa è una richiesta strana alla quale tutti rispondono in modo un po’ dubbioso, spaesati, inizialmente con un rifiuto; è un lavoro impegnativo ma che incuriosisce e può innescare quel processo di apprendimento e di presa di coscienza di un territorio nuovo ed estraneo che è già quello in cui in realtà il migrante si trova ad abitare.
Il processo di individuazione dei luoghi da disegnare, di ricostruzione mentale degli spazi e la loro modalità di restituzione grafica comporta un percorso di apprendimento e riconoscimento di un’appartenenza, e l’esito di questo lavoro impegnativo, la scoperta che il migrante compie, è quella di sentirsi parte della città.
In questa ricerca chiedo un intervento preciso, non si tratta di un lavoro in cui l’altro è un soggetto passivo che accetta una proposta precostituita e mi fa scoprire una città che non conoscevo: quello che emerge dalle mappe è un’immagine sempre nuova, tante città nuove quanti sono gli abitanti che la vogliono rappresentare e quanti sono gli sguardi che la osservano.
Parlando di esiti di ricerca più pratici e immediati, vi è poi uno strumento che ho costruito a latere e che ho inserito nel libro, una mappa del primo approdo, uno strumento che ho presentato all’amministrazione di Milano dove sono mappati tutti i luoghi che la città già offre ai nuovi abitanti, dai dormitori, alle mense, gli ambulatori, le scuole d’italiano, le docce pubbliche.
Tutti quei servizi di accesso alla città “del primo approdo” con una legenda pensata con icone facilmente leggibili, molto comunicative per chi non conosce la lingua e sta cercando di orientarsi.
Uno strumento che è già la base di un discorso anche progettuale nel suo creare connessioni tra i servizi di primo approdo della città, che esistono e sono molti ma per la maggior parte scollegati, senza una vera e propria infrastruttura che li tenga insieme.
La mappa del primo approdo è uno strumento già pronto di per sé ma l’intento della ricerca è quello di sollecitare e provare a spostare il punto di osservazione sulla città, formare un terreno culturale comune su questi temi per poter includere lo sguardo dell’altro, lo sguardo più diverso in assoluto.
La sensazione, quando si parla di periferie urbane e rigenerazione, soprattutto in questo periodo, è che si rischi di rimanere intrappolati all’interno di una polarità che vede i quartieri periferici alternativamente come luoghi critici del disagio sociale, delle complessità e delle soluzioni architettoniche infelici o, all’opposto, come luoghi generativi, fertili, abitati da comunità da incorniciare, evidenziare, raccontare. Due letture apparentemente distanti che si rifanno però alle stesse categorie interpretative limitanti e riduttive.
Sono assolutamente d’accordo e anzi mi offri lo spunto per parlare di un altro risvolto indiretto della mia ricerca, che coinvolge però direttamente il lavoro che sto svolgendo in Città Metropolitana di Milano.
Insieme ad oltre 30 Comuni e istituzioni del territorio siamo stati selezionati fra le città vincitrici del Bando periferie promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 2016.
Con il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana. Superare le emergenze costruire nuovi spazi di coesione e di accoglienza ho cercato di concettualizzare il tema della periferia come luogo di marginalità e non come periferia geografica, cercando di intersecare i due aspetti: quello della riqualificazione degli edifici abbandonati e degli spazi dismessi con quello dell’inclusione abitativa e sociale, dove l’abitare è inteso non soltanto come soluzione residenziale ma come una complessa articolazione di servizi che danno forma a un abitare più ampio.
Quando parliamo di questi temi ciò di cui abbiamo bisogno è di articolare di più il discorso perché la realtà è naturalmente più complessa e mutevole di come viene spesso ridotta a due narrazioni principali, in due direzioni diverse ma forse sullo stesso piano del discorso.
Le mappe cartografiche, il mio abituale strumento di lavoro, sono fondamentali per molti fattori ma non sono in grado di restituire la profondità di cui necessitiamo: abbiamo bisogno di sguardi non ordinari sulla città e nuove modalità di rappresentazione, non per convergere verso una visione conciliante e pacificatoria ma, al contrario, per aprire le questioni e affrontarle in modo più complesso.
Le mappe riportate nel libro sono a volte drammatiche e raccontano un disagio esistenziale profondo, narrano una provvisorietà e un approdo che non è mai finito, un continuo dover cambiare luogo dell’abitare anche una volta arrivati.
Nella ricerca non mi occupo del viaggio migratorio ma alcune mappe danno conto anche di questo, ci raccontano di una migrazione mai finita, di un abitare sospeso, transitorio perché non riesce a radicarsi e forse la condizione della contemporaneità è anche questa e ci riguarda tutti come condizione esistenziale, in particolare in questo momento storico.
Se da una parte si costruiscono muri e barriere di ogni genere per impedire quello che è un flusso storico, dall’altra bisogna trovare degli strumenti più adatti e più sensibili, senza cedere alle banalizzazioni, aprire dei canali di comunicazione e iniziare ad interrogarsi sulle differenze, dialogare con esse, con chi ci porta davvero un modo nuovo di guardare alle cose e alla città e ci fa interpretare ad esempio piazza del Duomo come confine piuttosto che come centro.
Si tratta indubbiamente di un esercizio sfidante, che forse poco rassicura rispetto ad alcuni meccanismi identitari e di costruzione di appartenenza: non c’è un’identità che viene definita una volta per tutte, non c’è la mia città e la tua, ma luoghi che appartengono a entrambi e che entrambi stiamo modificando e conoscendo con una forma via via sempre nuova.
Ha visto recentemente progetti culturali nati e sviluppati con questo tipo di sensibilità e ascolto nei confronti dei territori e delle comunità che li abitano?
Il progetto Un nuovo paesaggio nutre il viandante, nato in occasione degli eventi culturali che accompagnavano Expo 2015 nel territorio di Gaggiano e Cisliano, e recentemente arrivato nel cuore di Milano, sulla Darsena: un percorso di opere d’arte di Paolo Ferrari, artista e fondatore del Centro Studi Assenza di Milano.
Si tratta di un’installazione di opere d’arte di grandi dimensioni inserite nei luoghi che rappresentano la vita civica della città, la piazza principale, il municipio, la biblioteca, così come nei punti più remoti del territorio, seguendo il corso del Naviglio fino alla Darsena e che inseriscono nuove prospettive attraverso le quali guardare il territorio.
Si tratta in un certo senso anche di un progetto di accoglienza nella sua capacità di introdurre nuovi sguardi sulla città attraverso fotografie di scorci urbani e paesaggi, raddoppiati dal segno pittorico dell’artista e lavorati con altri elementi di tipo scientifico, come la carta millimetrata.
Sono opere che compaiono ormai in molti luoghi della città e che si inseriscono all’interno del progetto architettonico come delle finestre sul mondo, un elemento culturale a fondamento dell’abitare e quindi della vita.
Ha avuto modo di confrontare gli esiti del suo lavoro di ricerca con ricerche simili svolte all’estero? So che è stata recentemente invitata al Metropolitan Institute of Technology di Boston per portare la sua esperienza di lavoro sulle città
Si, è stata un’occasione per aprirsi a nuovi spunti di riflessione e ricerca. Sono stata invitata al MIT Metro Lab, un laboratorio di ricerca e formazione composto da docenti e ricercatori del Dipartimento di Studi Urbani e di Pianificazione del MIT di Boston che organizza conferenze e workshop su alcuni temi della città contemporanea; il mio laboratorio in particolare si interrogava sulla creazione di una disciplina metropolitana con professionisti e docenti provenienti da università di tutto il mondo, da amministrazioni locali e istituzioni che si occupano a vario titolo dell’abitare.
Ho presentato La città sradicata e, nel panel di chiusura della settimana del workshop, insieme alle città di Parigi, Boston e New York, ho raccontato nello specifico il progetto Welfare metropolitano e rigenerazione urbana della Città Metropolitana di Milano.
Tornando al contesto italiano, allo IUAV di Venezia stanno lavorando con alcuni paesi della Locride a un programma di inclusione abitativa e rigenerazione urbana attraverso la collaborazione di molti migranti.
Si tratta di un progetto che nasce sull’esempio di Riace, paese che era quasi completamente abbandonato fino a pochi anni fa, dove il sindaco ha cercato di invertire il processo di spopolamento e impoverimento anche culturale del territorio, ristrutturando le case e rimettendo in attività le botteghe artigiane grazie ai migranti arrivati nella città con gli sbarchi del 1999 e dando il via di fatto alla ricostruzione di un paese. Il modello Riace, come ora viene chiamato, ha saputo dare un indirizzo a tutta la Regione, basando il suo intervento di rigenerazione urbana su una prospettiva di accoglienza e inclusione.
Rispetto a questi temi, ritengo che questa sia la prospettiva di lavoro per il futuro più intensa e avanzata, perché ci può permettere di rinascere come Paese e come territorio.
Ci stiamo muovendo, forse in ritardo rispetto ad altri, ma con alcune punte avanzate e progetti di riqualificazione e inclusione dagli esiti efficaci e intelligenti come questo.