La città turistica come messinscena

I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.

Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.

In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan.

Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).

Come per i corpi c’è una temperatura precisa in cui passano dallo stato solido a quello liquido, o dallo stato liquido a quello gassoso, ed è la temperatura in cui avviene la transizione di fase, così si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo. Finché l’aflusso di visitatori non supera questa soglia, i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti.

Oltre questa soglia invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti.

Il superamento della soglia di transizione ha conseguenze impreviste e irreversibili. Questo è chiaro nei ristoranti. Sotto la soglia, i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali, oltre quella soglia i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico. Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma e Firenze. Oggi è difficilissimo mangiare bene. […]

Nei termini dell’economia mainstream: il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono.

Se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food.

Non basta. Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Una volta l’ingresso nelle chiese era non solo libero ma auspicato. In fondo, se i poveri sarebbero stati i primi a entrare in paradiso, non si vede perché non dovevano entrare gratis nel tempio del signore.

Oggi invece per entrare a Santa Croce (Firenze) e in tantissime altre chiese bisogna pagare: “In tutto il mondo, chiese, cattedrali, moschee e templi si stanno convertendo da funzioni religiose a funzioni turistiche”. Così che i templi di una religione che considera il denaro un Demonio (Mammona, in altre lingue Mammon) sono accessibili solo grazie a quel denaro che maledicono. […]

In generale, la proliferazione di stabilimenti e impianti turistici va di pari passo con la scomparsa di attività produttive, artigianali, ma non solo. Non è chiaro quale dei due fenomeni è causa e quale l’effetto: spesso sono effetto l’uno dell’altro e si rafforzano a vicenda.

In linea con l’idea “postmoderna” di turismo, si ritiene che le città lo sviluppino per compensare il declino dovuto alla deindustrializzazione. Fu certamente il caso dell’Inghilterra degli anni 1970-1990, quando il passato cominciò a diventare un’industria nazionale.

Come osservò Robert Hewison nel 1987, dei 1750 musei allora presenti in Gran Bretagna, ben la metà era stata aperta dopo il 1970: in soli sedici anni erano stati istituiti tanti musei quanti in tutti i secoli precedenti! “Mentre le prospettive per il futuro sembrano ridursi, il passato cresce costantemente.”

Persino Manchester, che nell’Ottocento Friedrich Engels aveva scelto come paradigma di città manifatturiera, ha cercato di reinventarsi quale destinazione turistica (in particolare di turismo calcistico per i tifosi che da tutto il mondo vanno in pellegrinaggio allo stadio Old Trafford della squadra Manchester United), e ha impiantato in centro una bella ruota panoramica anche se non c’è assolutamente nulla da vedere.

In realtà, la funzione compensatoria va oltre l’ambito strettamente industriale: in una città il turismo acquista tanta più importanza quanto più declina ogni attività – industriale o meno – che produceva la sua tradizionale ricchezza.

Così, una volta esauritasi la sua funzione portuale, Liverpool si è reinventata come attrattiva turistica, e là dove una volta si commerciavano schiavi in carne e ossa (a quella tratta la città dovette la sua rigogliosa, improvvisa crescita nel Settecento), ora sorge un “museo della schiavitù”.

Ma naturalmente l’esempio classico non può non essere Venezia che prese a coltivare la vocazione turistica ben quattro secoli fa, nel Seicento, quando la sua potenza commerciale mondiale stava svanendo nel ricordo. Fu a partire da quel momento che il Carnevale veneziano divenne un’attrattiva per tutta Europa, conoscendo il suo massimo splendore nel Settecento, quando richiamava decine di migliaia di stranieri (e tutta la nobiltà d’Europa) in cerca di bellezza e arte certo, ma soprattutto di gioco d’azzardo, divertimenti divulgati come sfrenati, débauche, licenziosità, trasgressione di tutte le inibizioni sociali (un po’ come il Carnevale di Rio ai giorni nostri). Ma (come nel Carnevale di Rio) era una sfrenatezza canalizzata e controllata dall’occhiuta e preoccupata Repubblica della Serenissima: “Fu instaurata una vera e propria politica dei piaceri. Il Carnevale divenne un’arma destinata a esorcizzare l’angoscia provocata dalla diminuzione del numero di nobili e dall’erosione del primato di Venezia sulla scena politica ed economica d’Europa”. […]

Ormai le tecniche per riplasmare la città turistica sono state perfezionate, testate e in un certo senso standardizzate, tanto che ovunque assisti allo stesso riarredo urbano “tipico, caratteristico, regionale”: l’industria turistica “ha messo a punto i procedimenti di condizionamento che permettono di consegnare i centri storici e i quartieri antichi già pronti per il consumo culturale. […]

Città turistiche che, per attrarre i turisti e per esaltare la propria irripetibile unicità, si ridisegnano, si ripensano, si riprogettano tutte uguali tra loro, nella lotta per sottrarsi turisti. Non bisogna più pensare alla singola città turistica, quanto alla rete, al sistema delle città turistiche.

Ma il cambiamento più visibile nel tessuto urbano è provocato da una caratteristica specifica del turismo che era stata individuata da MacCannell: l’autenticità è visibile al turista solo se “marcata” da un marker, se “ostentata”, anzi, se “messa in scena” (staged). Qui il riferimento esplicito è alla teoria formulata da Erving Goffman sulla “presentazione di sé nella vita quotidiana”. […]

L’idea di Goffman è che nella civiltà moderna, nelle relazioni interpersonali, ogni persona si offre e si presenta agli altri costruendo la propria rappresentazione che cambia a seconda dei contesti e degli interlocutori, e quindi esponendosi su un “palcoscenico” (frontstage), e nello stesso tempo riservandosi un “dietro le quinte”, un backstage, delle coulisses in cui riorganizzare la presentazione, fare le prove, allestire i travestimenti, ripetere la parte, riprendere forze (il termine esatto italiano per coulisse sarebbe “retroscena”, il cui significato metaforico ha però sopraffatto quello letterale). Va sottolineato che per Goffman la dimensione teatrale del rapporto di sé agli altri non è un accessorio: è presente sempre e comunque in ogni interazione. […]

È questa messa in scena a dare alla città turistica la sua inconfondibile teatralità. Ogni città deve “recitare” se stessa: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi deve corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. […]

Se si accoppiano gli effetti della messa in scena da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica. Ho molto frequentato il Quartier Latin di Parigi per tutti i primi anni settanta del secolo scorso: era animato, vivo, nonchalant; quarant’anni dopo, è un quartiere morto, un’area disastrata dominata da squallore a buon mercato. Il Quartier Latin è un buon esempio di come il turismo può uccidere un quartiere facendolo vivere. Tutto il quinto arrondissement è come svuotato dall’interno, chiusi i negozi utili come ferramenta, mercerie, casalinghi, elettricisti; ogni manifestazione di vita locale è sostituita a poco a poco dal falso cinese, dal falso greco, dalla paninoteca e dal gelataio. E questo nonostante il quartiere sia ancora la sede della Sorbona, del Collège de France, di licei… […]

Proprio per la natura teatrale dell’attività turistica, “la posizione del lavoro nella fornitura di prodotti turistici è insolita, perché i lavoratori sono nello stesso tempo fornitori di servizi e parte del prodotto consumato”. Ovvero gli addetti all’accoglienza turistica costituiscono l’infrastruttura del sightseeing, ma sono nello stesso tempo essi stessi oggetto del sightseeing: la qualità del servizio, “l’amichevolezza, la cordialità” dei “locali” sono atout importanti per una destinazione turistica.

Detto in altre parole, un cameriere deve non solo servire a tavola, ma anche mettere in scena il servizio. In termini barthesiani, il linguaggio corporeo del cameriere deve connotare non solo la sua professione, ma anche la sua “italianità”, “francesità”, insomma la sua “tipicità”, nel senso dei “prodotti tipici”.

Anche perché addetti e personale di servizio costituiscono in realtà la più frequente, e spesso l’unica, realtà umana locale con cui i turisti vengono a contatto. […]

E per gli altri autoctoni, che di turismo non vivono? Ma noi italiani lo sappiamo benissimo: lo “sguardo turista” agisce anche su chi di questo sguardo è oggetto, non solo su chi lo lancia: fa sì che i cittadini delle città d’arte vivano sempre sotto lo sguardo turista, vivano sempre sotto sorveglianza di uno sguardo letteralmente “fuori posto”. Come andare in bagno la notte quando la casa è piena di ospiti indesiderati, scavalcando corpi sconosciuti in salotto.

La metafora è appropriata perché, nei termini di Goffman, il cesso è il backstage, è il retroscena per eccellenza dei nostri teatri quotidiani: “Nella nostra società la defecazione implica un’attività individuale definita incompatibile con le norme di pulizia e purezza espresse in molte nostre rappresentazioni. Una tale attività obbliga sempre l’individuo a disfarsi dei vestiti e a ‘uscire dal gioco’, cioè a lasciar cadere la maschera espressiva che usa nell’interazione a tu per tu. Gli sarebbe difficile in queste condizioni ripristinare la propria facciata personale nel caso si presentasse all’improvviso la necessità d’interazione. È forse una delle ragioni per cui nella nostra società le porte dei bagni sono munite di serrature”.

Perché se il disvelamento progressivo del backstage non “allestito” è un inseguimento senza fine, e se il turista è l’Achille, allora l’indigeno è la tartaruga, alla ricerca di luoghi e situazioni sempre più romiti, più discosti, sempre più irraggiungibili dal turista. I residenti sono costretti a entrare in clandestinità, a comunicarsi sottovoce gli ultimi indirizzi accettabili (“ma non farlo sapere ai turisti!”). Ben sapendo che prima o poi anche quegli indirizzi affioreranno dalle coulisses e saliranno alla ribalta, costringendo gli autoctoni a cercare nuovi anfratti, nuovi rifugi provvisori.

Coscienti che l’esito è segnato: come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono che sempre meno può permettersela in termini economici e sempre più ne è espulso in termini relazionali. In quanto industria, il turismo rende la città invivibile, proprio come la città manifatturiera (la Coketown di Dickens) era irrespirabile per i suoi slums, i suoi miasmi e fetori.

Il turismo non provoca questi effetti, ma uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana: musei e paninoteche, ruderi e boutique di lusso, “suoni e luci” tra pizze al taglio e ristoranti a tre stelle Michelin, isole pedonali, e poi tanti dormitori eleganti per ceti medi.

Già oggi nel Nord Europa le isole pedonali si assomigliano tutte (sono un altro dei “non luoghi” di Marc Augé) e i centri vengono trasformati in entertaine- ment districts, dove però non si diverte nessuno. […]

Invertendo la vecchia idea di Alois Schumpeter, secondo cui specifica del capitalismo è la sua “distruzione creatrice”, il turismo pratica una “creazione distruttiva” perché producendo crescita economica e sviluppo distrugge le basi su cui quella crescita era basata.


Pubblichiamo un estratto dal saggio di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo (Feltrinelli)

Immagine di copertina: ph. Janis Oppliger da Unsplash