La città dei diritti e dei desideri

A fine estate, nell’incrocio tra via Chiesa Rossa e via Gratosoglio, ci sono i covoni di fieno ammassati nel campo, e sullo sfondo, si stagliano le torri bianche di via Costantino Baroni. Alle spalle, si intravedono la Barona e il Giambellino, tentacoli di stecche di case popolari e capannoni, di piazzette e tabaccherie. Quel paesaggio agreste si ritrova anche percorrendo via San Dionigi: sulla sinistra i negozi di lapidi che servono la camera Mortuaria di via de Cassinis, a destra la campagna –un tempo paludosa- con garzette e rane; davanti agli occhi, il campanile di Chiaravalle.

Proseguendo lungo la tangenziale, dopo gli orti, il tiro a segno, oltre il ponte dell’autostrada, ci sono le nuove case del contratto di quartiere di Ponte Lambro, incastrate tra il Monzino, il torrente e l’aula bunker. Risalendo s’incontra l’Ortica, con il ponte della ferrovia e la balera nascosta sotto, con il paesino attorno al campanile e i centri commerciali lungo via Rubattino. Di nuovo, sotto il ponte, nascosto dai troppi sguardi, l’ex Cie di via Corelli, oggi centro d’accoglienza. C’è solo la fermata del bus che porta alla piscina Saini a tradire le presenze allontanate degli sguardi e di nuovo quella sensazione di campagna troppo cementificata che finisce solo a Lambrate, con il cimitero che fuga qualsiasi dubbio sulle dimensioni metropolitane della città. E poi ancora, seguendo il giro della circonvallazione, poco più su, sempre incastonato sotto ponti e ferrovie c’è il cimitero di Greco, con la vite americana che si arrossa in autunno.

Rosetta alla conquista dello spazio. Appunti per un diritto alla città con Michel Bauwens, Tito Faraci, Enzo Mingione, Eva Neklyaeva. Introduce Emanuele Braga, modera Bertram Niessen. Dalle 19.00 a Milano da Macao


Nelle sere al tramonto, percorrendo il cavalcavia, le luci votive sembrano lucciole, inserto silvestre tra i terreni della vecchia Breda. La linea ferroviaria è costeggiata dalle roulotte, che si affiancano all’edificio storico del Leoncavallo. Il moloch della stazione centrale è un cilindro di marmo che apre una voragine tra i palazzi, un gomitolo di cavi e rotaie che trattiene tutto quello che la città allontana, dai pendolari alle persone in partenza, fino a quelle che si vorrebbero già su treni verso direzioni remote. E poi c’è il Nord, Nord-Ovest, la città più cupa perché il sole si ferma tra le Alpi, dove i campi sono parchi, come Villa Litta, come il Parco Nord, e il cemento, i gasometri, la colata di cemento che ha avvicinato Rho a Milano e che ha tenuto solo Molino (Dorino) come vessillo del tempo passato. È la città dell’acqua sottoterra, come il Seveso che si rivela solo quando esonda, o i brandelli di Naviglio sotto il ponte delle Gabelle. È la città che sale e si srotola verso il Portello, con i ponti, i cavalcavia, i sottopassaggi. Sembra una città dell’oggi, del futuro prossimo ma inframezzo ci sono i blocchi di case delle Varesine, e Quarto Oggiaro e dietro l’Ospedale Sacco, sanatorio costruito nel 1927 che ha ormai inghiottito Roserio, quella cantata da Testori. Infine di nuovo i parchi, delle Cave, i sobborghi numerati di Quarto, Quinto, Settimo e la città che si fa risaia. Di chi è la città? Chi può viverla? Chi è libero nelle sue strade, nelle vie, nei suoi giorni e nelle sue notti? Come possono essere utilizzati gli spazi? Come possono essere rammendati gli abbandoni? Come possiamo immaginare una città differente?

Non era pianificato, all’inizio del percorso di Rosetta, di concludere con il diritto alla città, eppure a guardare il calendario d’insieme di questo anno, non poteva esserci conclusione migliore, perché alla base della riflessione che ci ha portato in giro per le zone di Milano c’era l’idea di ridefinire i contorni della cittadinanza sociale, quasi un sinonimo del diritto alla città, che non esiste giuridicamente ma è assunto politico e sociale fondamentale. Una definizione di “diritto alla città” viene offerta da Lefebvre, quando scrive:  “Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città”.

Siamo nella metropoli italiana che più ha investito nella riduzione della povertà, nel sostegno alle famiglie, nel recupero dei palazzi fatiscenti, nella “questione periferie”. Eppure rimane in filigrana la città dolente, che non ha diritto al godimento, non per colpe o per responsabilità dirette, ma perché nel modello economico e sociale e politico, la marginalità non ha uno spazio fisico, né tantomeno un diritto.

Jane Jacobs, nel suo “The life and death of American Cities” scriveva che le città hanno la capacità di assicurare qualcosa per tutti, solo perché e solo quando sono create da tutti. È una formula che sulla carta evidenzia quel legame potente tra eguaglianza e ridistribuzione che l’autrice connette agli spazi fisici, agli interstizi e alle strade delle città americane che andava osservando e che erano governate da modelli economici e urbanistici, tesi alla produzione e riproduzione della diseguaglianza.

È una tesi che sposa anche Richard Florida, che inizialmente aveva guardato con fiducia alle città, come luogo deputato all’ascesa della classe creativa, e spazio del possibile, orientato dai valori di tecnologia, talento e tolleranza. Tuttavia, nel più recente “The new urban crisis” l’autore sostiene che quel modello sia da rivedere, perché qualcosa è fallito nella ridistribuzione della ricchezza. “Invece di creare una prosperità inclusiva, l’urbanesimo di ultima generazione – quello che si è sviluppato intorno alle aziende del tech – si è trasformato in un “chi vince prende tutto”: un numero relativamente esiguo di città (anzi, direi quasi di quartieri) ha raccolto tutti i benefici dell’enorme sviluppo economico generato dal trinomio tecnologia, talento e tolleranza. È un’iniquità geografica che interessa il mondo intero: con 50 città superstar dove vive e lavora solo il 7% della popolazione che genera il 40% dell’economia mondiale e 40 mega-regioni (il 18% della popolazione) che realizzano l’85% dell’innovazione. Ma è anche segregazione: nelle metropoli la gentrificazione è diventata “plutocratizzazione”, i prezzi delle case di alcuni quartieri sono saliti a dismisura e i meno abbienti hanno dovuto abbandonarli, gli speculatori trasformano i palazzi in investimenti e le case vengono lasciate vuote. Tutto questo ha decimato la classe media: perché mentre i salari di alcuni sono saliti a dismisura, quelli di chi si occupa di servizi di base – educazione, cura delle persona, trasporti, sicurezza – sono rimasti al palo o si sono abbassati.

Questa gente, quasi la metà della popolazione, è comprensibilmente arrabbiata: pensava di essere parte di un club, ha creduto nella promessa di benessere per tutti, e ora si sente presa in giro. E c’è una parte del capitalismo di destra – gli oligarchi dell’industria estrattiva, energia, real estate, armi – che sovvenziona i leader populisti per trasformare il risentimento: in odio e rabbia nei confronti del talento (vedi la denigrazione di esperti e studiosi e il propagare delle fake news) e in rifiuto della tolleranza (i valori social-democratici e i diritti civili dei quali le città sono da sempre santuari).

Non affrontare questo problema sarebbe un suicidio non solo economico ma anche politico: significherebbe darsi in pasto a un possibile totalitarismo. E non aiuta che tanta parte della sinistra si rifiuti di forgiare una connessione tra la classe creativa e quella dei servizi, indicando nella prima la causa di tutti i mali della seconda. E, di fatto, fomentando ulteriormente le divisioni”. Da una parte aumenta la povertà, e le distanze sociali vengono schiacciate dalle prossimità spaziali, generando costantemente conflitto e domanda di segregazione. Dall’altra le città cambiano funzione, e gli spazi si rimodellano, lasciando vuoti a perdere e vuoti a prendere.

L’esperienza della città di Gent analizzata da Michel Bauwens va in quella direzione: un sistema di riappropriazione dei beni comuni guidato da valori di eguaglianza ed inclusione è forse possibile. Tuttavia il racconto del campo evidenzia come la strutturazione dell’auto-organizzazione sia funzionale all’accettazione dei processi di cambiamento. Allo stesso modo, il contesto milanese dopo gli anni difficili della giunta Moratti ha seguito alterne fortune: c’è margine di apertura e negoziazione per le esperienze che hanno gestito l’autogestione e che hanno restituito alla città pratiche analizzabili di consumo e condivisione, habitat e forme dell’abitare culturale in limine (come nel caso di Macao).

Dall’altra parte, la gestione informale, l’occupazione abitativa e i sindacati autogestiti degli inquilini (soprattutto Aler) fronteggiano quotidianamente la dimensione della legalità nei processi di riappropriazione. Come si conquista quindi lo spazio e in che modo può diventare un diritto? In questo percorso abbiamo tentato di rispondere, ragionando sugli spazi fisici ma prima ancora su quelli sociali. Abbiamo cercato di decostruire gli immaginari della migrazione, per rimuovere le frontiere estetiche ancorché etiche che sono spesso alzate nei nostri centri urbani. Abbiamo ragionato di accessibilità, perché lo spazio fisico può essere uno spazio ostile, così come la dimensione della normalità può andare stretta nei percorsi e nelle traiettorie della metropoli. Abbiamo provato a dare voce alle seconde e terze generazioni, già cittadini de facto ma che stanno costantemente combattendo per quel suolo in grado di riconoscere l’effettività del loro diritto ad essere parte della polis.

Abbiamo esaminato le traiettorie del cibo e le costruzioni discorsive che aumentano il divario tra chi conosce e chi sconosce, tra chi include e chi esclude. Abbiamo riflettuto sul lavoro creativo e sul lavoro manifatturiero, sulla struttura economica del passato prossimo e su quella del futuro per disegnare gli spazi della produzione. Stasera vorremmo provare ad immaginare la città possibile, in cui c’è spazio per tutti, e il diritto, pure.