I figli di Milano (e delle sue case)

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    I figli di Milano (e delle sue case)

    La mia prima casa, a Milano, è stata la camera di un collegio universitario femminile: grossa come una cella monacale; bagno, mensa e lavanderia in condivisione. Sovrapprezzata, come tutto quanto un’università privata può offrire. In quegli anni – tempo di Laurea Triennale, dai 18 ai 21 – ogni scusa era buona per levarsi di torno e sfuggire agli sguardi inquisitori delle compagne e delle direttrici, che fosse rinchiudersi a doppia mandata, nella sala di un cinema, o attraversare la città di notte per bere due birre a Lambrate e tornarsene in tempo per il coprifuoco (capite quindi che la seconda ondata di Covid19 mi ha trovato preparata). Solo che la maggior parte delle volte bucavo l’ora massima, e allora in giro fino alle 5 del mattino, quando mi sarebbe stato possibile rientrare a casa (più o meno) mia. Chi mi conosceva da un po’ non capiva. Venivo da anni di studio liceale sudato e disperatissimo, condotto con a latere attività agonistica di karate. Diciamo che non avevo mai fatto la matta, ed ero anche un po’ noiosa. A Milano, invece, abitando in dieci metri quadri, forse meno, ho cominciato a uscire. Per respirare.

    Ho continuato a farlo anche finiti gli studi, quando, decidendo di rimanere a Milano, mi sono imbattuta nel mercato degli affitti, e ho capito che il mio abitare sarebbe rimasto confinato tra i 30 e i 40, metri. Una presa di coscienza che è toccata anche ai coetanei che, come me, decidevano di intraprendere questo percorso accidioso, vita in autonomia nella grande città senza, beninteso, dimora di famiglia alle spalle. Perché Milano, alla faccia se costa. E che sudore, trovare qualcuno che ti sganci più di 800 al mese per la prima occupazione (che poi, se sono in stage posso dire di essere occupata? se sono in apprendistato a 1.200? occupati a sfangare i conti, almeno, è sicuro).

    Questo nodo speciale di Milano, stipendi rognosi contro un mercato di affitti e compravendite gonfiato dal brand cittadino, dalle attività dei fondi di investimento del mattone, e dalle sfaccendate lucrative ben concentrate delle big corp, va avanti, per una stima conservativa, dall’anno dell’Expo, 2015. Secondo dati del Post, i prezzi dell’immobiliare si sono alzati del 40%, ma, di contro, lo stipendio medio è cresciuto solo del 5%. Numeri che, in questi ultimi otto anni, sono stati giustificati con progetti di rigenerazione urbana e gentrificazione delle vecchie periferie. Sul tema hanno scritto bene e precisamente molti, tra cui: Bertram Niessen con Abitare il vortice, Ivan Carozzi con L’età della tigre, Jacopo Lareno Faccini e Alice Ranzini con L’ultima Milano. Cronache dai margini di una città. Il patto sociale della Milano contemporanea si regge sulla promessa che, un giorno, il benessere toccherà anche te (o meglio la tua casa, la zona in cui abiti); del tutto calata dall’alto, e che ha fatto storcere più di un naso.

    Se ne sono scritte, dette, dibattute attorno a Milano: se sia il santo o il peccatore, la stortura o il modello, giusto o sbagliato. Rivista Studio ha recentemente dedicato un trittico a questo tema (si trova cercando “Milano” nella barra di ricerca del sito), Michele Masneri ne ha scritto su Il Foglio, Lucia Tozzi ha pubblicato un attacco durissimo in stile pamphlet contro – be’, un po’ tutta la città; Selvaggia Lucarelli afferma che la sua relazione con Milano sia ormai un “matrimonio sfibrato”, il Corriere ha messo in campo un dibattito a più voci sullo stato di Milano, e forse non è un caso che il numero di The Passenger (il libro-magazine che la casa editrice Iperborea dedica a non-guide di viaggio, raccogliendo longform, inchieste e reportage sul luogo in questione) dedicato a Milano sia uscito solo a novembre 2022, nonostante la sede milanese della casa editrice. Milano è a processo, l’unica cosa certa: continuerà a esistere, come luogo, mito, o archetipo.

    Mettiamo, dunque, le mani avanti: la verità, chi scrive, non la possiede. La realtà – compresa quella dell’abitare – è una scala di grigi, e nel suo gioco di ombre qualcosa si perde sempre. Più che dare giudizi (anche perché, se Milano a qualcuno fa schifo, è comunque ben collegata con strade e treni per andarsene), qui vogliamo osservare. Dalla ristrettissima prospettiva di una 27enne che ama follemente Milano, il suo smog, le sue storture sociali, perché almeno nel terriccio puoi scavare e si sa mai che qualcosa alla fine salti fuori. Che lavora, per scelta, a partita iva, sapendo che così le entrano più soldi e riesce a pagarsi l’affitto. E che, se una cosa ha capito di questa metropoli minuscola, è che è fatta dalle sue case; bistrattate, occupate, splendide, con giardino, senza ascensore, luminose, al -1, costose, da ristrutturare, con il parquet a spina di pesce; case che ci rendono chi siamo, in relazione alla città. E che, come prole, ci tirano su. Questi sono i figli di Milano, che contribuiscono al tessuto sociale secondo la conformazione delle rispettive abitazioni. Che compongono un sistema in cui tutto si tiene, e nessun abitante potrebbe esistere senza il vicino: che abita una casa radicalmente diversa dalla nostra, e dalla nostra vita diverge.

    Per identificare la situazione, possiamo pensare Milano come un cerchio diviso in porzioni. Ognuna di queste rappresenta un tipo di abitazione, e dunque di abitante. Visto che i cerchi sono “infiniti” per assunto geometrico, scegliamo una sezione qualsiasi da cui partire: quella dei Gregari. Rimanete: vi prometto che tutto, come in questa figura, tornerà al suo posto.

    I Gregari sono quelli che animano i tavoli da ping pong di quartiere (ce ne sono molti a Milano, li trovi sempre pieni alle 2 di notte del weekend, qui c’è una bella mappa) e hanno, di massima, lavori culturali o nella comunicazione. I Gregari stanno nelle case per studenti, che meriterebbero tutta una bolgia dell’Inferno. Che sanno di vecchio e tenuto male; che non conoscono ristrutturazioni; in cui sono offerte stufe a gas al posto dei fornelli; dove i materassi, a scoperchiarli, mostrano pustole e chiazze gialle; affittate con angoli di polvere tenaci e bottiglie di vodka economica vuote sugli scaffali. Queste abitazioni sono, di solito, le case in surplus di milanesi vecchi o nuovi. Sono parecchio spaziose, ma inutilmente: infatti le riempiono a serraglio con affitti, subaffitti, finti contratti in nero (conosco uno che dorme nel sottoscala; come Harry Potter, però a pagamento). I Gregari meritano il nome dal fatto che abitano in condivisione, per costrizione più che scelta. Molti di loro hanno più di trent’anni (come detto, non è facile tenere dietro ai prezzi delle case). Si può capire allora come mai i Gregari stiano sempre a girovagare, in piazzetta perenne, con una scorta precisa di birre grandi comprate a 1,80 al minimarket sotto casa. I Gregari animano la città creando o frequentando eventi culturali dal basso a costo contenuto (o dancerecci; ho sentito di un gruppo che fa feste negli scantinati di rispettabili attività diurne e mi danno Gregario vibes), e puoi sempre contare su di loro per una bevuta. Basta, insomma, stare nella casa dello studente il meno possibile.

    Il secondo pezzo del cerchio sono i Solisti, estremo opposto rispetto ai Gregari. Il Solista ha l’armadio diviso in due: vestiti per andare al lavoro, poi quelli per fare tutto il resto. Il Solista, di solito, occupa un corporate job (tra cui, ormai, rientrano anche le grandi agenzie creative), lavora per svagarsela al weekend e farsi i viaggi attorno al mondo, e vive da solo in un mono o bilocale ristrutturato da un occhio alla Marie Kondo: arredi e finiture bianco nitido, Ikea soprattutto, brutalismo. In settimana, il Solista lavora così tanto da rivedere casa solo verso le 20:00 o le 21:00, perché all’oretta di ufficio in più ci aggancia sempre il workout in palestra. Rientrato, di solito ordina a domicilio perché non ha voglia di spignattare (e via che si accumulano ristoranti senza idee e ghost kitchen per tener dietro alle sue esigenze). Il Solista, dunque, per starci dentro di stipendio, gioca al ribasso sulla metratura e finisce che, al fine settimana, si accorge che soffoca e ha bisogno di uscire. Avendo più soldi del Gregario, sceglie come meta mostre, cene, cocktail bar, magari la disco. A questo punto, voi magari non tenete per lui, ma è attorno al Solista che gira gran parte della città. Lui il target di molti tra i prodotti culturali confezionati dai Gregari, lui il cliente della proliferazione di localini senz’anima nei quartieri di moda (e delle pokèrie e di chi conta le calorie), lui quello che suda negli studi di pilates, nelle palestre iper-attrezzate. Spesso, il Solista preconizza un altro tipo sociale della metropoli, ulteriore segmento del nostro cerchio: gli Alieni.

    Gli Alieni sono quelli che, a 27 anni, nessuno capisce. Hanno studiato in città, vanno sempre in coppia (nel senso che sono una coppia), e almeno uno è dell’hinterland. Gli Alieni si sono trovati un lavoro sicuro, probabilmente in città, e si sono subito trasferiti dove le case hanno prezzi più ragionevoli, dunque giù di pendolarismo durante i giorni feriali e disagi accumulati su Trenord, come annota il giornalista Isaia Invernizzi. Probabilmente stanno già pagando il mutuo di una bella casa, magari villetta a due piani, comprata con l’aiuto dei genitori. Di tutti i tipi milanesi che abbiamo presentato, gli Alieni sono gli unici ad avere le idee davvero chiare: vogliono una famiglia. Per questo occupano la primissima provincia, che è un po’ un appartamento biesposto: hai il buono di Milano e le distanze ristrette dei piccoli centri. E poi, un elemento imprescindibile: la presenza di nonni ad aiutare i neogenitori con babysitteraggio gratuito e scarrozzamenti. E infatti, in termini di nuovi nati Milano-Milano sventola bandiera rossa, inserendosi perfettamente nel più generale trend di calo demografico del Paese. Gli Alieni rivestono, in altre parole, un ruolo fondamentale per la sopravvivenza di Milano: la foraggiano di nuovi potenziali abitanti, quando i figli cresceranno e (se non rimarranno in provincia) occuperanno nuove case come Gregari, o Solisti, chissà.

    Arrivati a questa altezza del cerchio, siamo vicini a ricominciare da dove eravamo partiti. Cioè da una minuscola stanza di collegio, con l’idea che, forse, gli spazi che abitiamo possono dirci qualcosa del modo in cui agiamo la società, ma anche, soprattutto, in cui ci identifichiamo. Lo si è detto: il “cerchio di Milano” altro non è che un esperimento, come quando, nei meme di internet, vi danno un po’ di tratti caratteriali e li associano a quattro personality type generici. Perciò non rimaneteci male, se non vi siete sentiti rappresentati né dai Gregari né dai Solisti, o se non siete né Alieni né Milanesi. L’esaustività è dote dei profeti, e non, hitchcockianamente, di qualcuno che punta un binocolo contro la vicina da una finestra sul retro. Ma prima di salutarvi, e lasciarvi a rimuginare su quale casa dovreste comprare così che rispecchi al meglio il vostro profilo sociale, ci sono un altro paio di sezioni da esplorare.

    La prima comprende chi fa Hu di cognome, e che supera, in numero, i milanesissimi Ferrari e Colombo. Accanto a loro ci sono persone di nazionalità filippina, egiziana, peruviana, srilankese, rumena ed ecuadoregna, solo per citarne alcune. Sono persone che, se di prima generazione, non si sono formate sul nostro concetto di spazio e casa, o che, se di seconda o terza, racchiudono in loro moltitudini, e che non per forza intenderanno come noi “l’abitare”. Sarà interessante vedere come, silenziosamente, rivoluzioneranno il nostro concetto di “Milano”. Forse abbatteranno questa stessa casa da dove scrivo, per unirla agli appartamenti contigui e mettere fine, una buona volta, allo strazio dei micro-metri. O magari, invece, invertiranno la curva demografica, e allora la sezioneranno ancora e ancora, cercando, nel più imperfetto degli sforzi, di far spazio per tutti.

    La seconda, e ultima, categoria potrebbe essere temporanea. Si tratta di chi, per protesta contro il caro affitti, ha deciso di mettersi a dormire in tenda davanti a università e istituzioni. Prima a Milano, il 2 maggio, dove la studentessa 23enne del Politecnico Ilaria Lamera ha piantato metaforici picchetti per alcuni giorni, innescando una sorta di flash mob nazionale; poi a Roma, Bologna, Venezia, Padova, Firenze, Pavia, ma la lista potrebbe continuare. La rettrice del Politecnico, Donatella Sciuto, si è schierata da subito con Lamera, dichiarando che «Milano è una città per ricchi e anziani». Questo riferendosi soprattutto ai costi degli affitti delle stanza singole a Milano (e qui torniamo alla famosa casa dello studente, dove incancreniscono i trentenni): dai 600 ai 1000 euro per una media di 620 (con un rialzo del 20% tra il 2021 e il 2022), contro una media nazionale di 439 euro. Parafrasando: Milano offre case per ricchi e anziani, è una città che si professa giovane ma che i giovani tende a escludere. Se non hanno, ovviamente, qualcuno che può sostenerli economicamente alle spalle. Svolgendo il concetto un passo di più, Milano risulta una città costruita su un meticoloso modello di ascesa borghese socio-economica: agli studenti i monolocali e le “case degli studenti”, ai giovani lavoratori accoppiati la casa grande al primo piano, alla famiglia con figli la casa grande ai piani più alti, e così via. Solo che, quando ci si mettono Gregari e Solisti, a inceppare il percorso con i loro miseri stipendi, l’ingranaggio comincia a ruotare a vuoto su se stesso.

    Tornando alla protesta di Lamera, il suo modello non è, però, nuovo, e ricalca le soluzioni estreme a cui ricorrono molti tra studenti e lavoratori in California. Lo racconta bene e precisamente Francesco Costa nel suo ultimo libro, California, come in numerosi podcast e interventi pubblici condotti sul tema: «Il Long Beach City College, un’università pubblica californiana che si trova nella contea di Los Angeles, alla fine del 2021 ha deciso di destinare un parcheggio ai suoi studenti senzatetto, per permettere loro di dormire in auto in un posto sicuro e avere accesso a bagni puliti, energia elettrica e un wifi. Secondo Safe Parking LA, un’organizzazione non profit che ha collaborato alla creazione del programma, a Los Angeles oltre 15.000 persone dormono ogni notte dentro la propria macchina. Ma c’è di più: tante persone senzatetto in California hanno un lavoro a tempo pieno. Il motivo per cui non hanno una casa riguarda un fallimento della società, piuttosto che uno individuale: costa troppo, a volte anche per chi lavora. […] Com’è possibile? Una parte della risposta ha a che fare con il modo in cui l’elettorato californiano sappia farsi bastare la retorica intransigente sull’impegno per le persone più deboli e valuti invece con molta più indulgenza i deludenti risultati di quell’impegno: per quanto gli elettori possano dirsi frustrati dal fallimento delle istituzioni, la storia elettorale della California mostra come questa delusione negli ultimi decenni non abbia mai rappresentato una motivazione abbastanza forte per cambiare rotta. Ogni piano fallimentare introdotto e tentato dalle istituzioni viene presentato e difeso come “la volta buona che risolviamo questo problema”» (via Il Post).

    Stiamo dunque assistendo alla “californizzazione” di Milano? Per ora, la protesta degli studenti ha sbloccato solo qualche timido incontro con politici e amministrazioni, tra cui quella di Beppe Sala a Palazzo Marino. Nel frattempo, nuovi studentati sono in costruzione: il Campus X di Milano Bovisa, legato al Politecnico, per esempio. Un’operazione privata, che inaugurerà nel 2024 e che si presenta come offerta variegata per long e short stay. I prezzi sono già disponibili online: uno Studio Duplex di 16 metri quadri, per un mese, uso singolo: 1.320 euro (se si allunga il periodo di permanenza a un anno, il canone scende progressivamente fino ai 920 euro). Uno Studio Prime Large di 31 metri quadri, 1.820 euro per un mese per una persona, 1.370 per un anno; se condiviso, dai 960 ai 790 euro. Incluse acqua, tassa sui rifiuti, riscaldamento, aria condizionata, wi-fi, cucina condivisa. Tirando le somme, in linea, se non superiore, con i costi di altri possibili alloggi offerti dalla città. Altra operazione, per cui si dovrà aspettare un po’ di più, sono gli alloggi di housing sociale per studenti in cui verrà trasformato il Villaggio Olimpico di Scalo Porta Romana a seguito delle Olimpiadi Invernali di Milano-Cortina 2026. Totale dei post disponibili: 1.600, a fronte di 126.000 giovani fuorisede presenti al momento in città. Per rispondere dunque alla domanda: Milano si trova a un bivio. E per non “californizzarsi” – o, in altre parole, non rischiare che le tende diventino necessità e non protesta – dovrà capire che cosa fare delle proprie case, nuove o vecchie. Dovrà, soprattutto, prendere coscienza di che cosa ogni casa significhi per il proprio tessuto, sociale ma anche urbano. E adeguare il proprio sviluppo agli stipendi reali degli abitanti contemporanei.

    Forse non ci riuscirà (anzi, non ci riusciremo), e allora si creeranno nuove disparità, un po’ come quando i Gregari danno forma a ciò che i Solisti consumano, ma guadagnano meno di loro. O come quando le case popolari giacciono sfitte, senza ristrutturazioni, e abbattono a zero il grado dell’abitare, desertificando la zone non ancora ripulite e gentrificate. Vedremo. Si continua a scavare, a scuriosare. Avete capito, adesso, perché sceglierei sempre Milano contro l’offerta di mille province?

     

    Immagine di coopertina: Christian Möller da Unsplash

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