Camminare, perdersi e ritrovarsi a Parma. La mappa di Ettore Favini per una possibile flânerie

flâneur, Parma, Favini

Quando Baudelaire coniò il termine flâneur si era in piena rivoluzione industriale, la città cambiava aspetto, il ritmo della quotidianità si accelerava e bisognava definire in qualche modo la figura dell’artista, del pensatore, del nuovo borghese parigino che passeggiava, per contrasto, senza fretta e senza programmi incontro a un’esplorazione libera della città, immerso in essa, per studiarla e trarne nuovo nutrimento.

Il flâneur era, cioè, il prodotto di quella vita moderna, diretto predecessore del più moderno turista. Guy Debord, circa un secolo più tardi, si affezionò tanto alla critica sull’uso degli spazi urbani come forma di coercizione da parte della classe dominante nei confronti dei cittadini, da teorizzare una psicogeografia basata sul metodo dell’andare “in giro a piedi, senza meta od orario”. “Scegliete il percorso” consigliava “non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno”.

E a guardarsi intorno a Parma, infrattandosi nei vicoli del centro antico della città, con “sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista” – per citare ancora il metodo Debord – si possono scoprire alcune curiose targhe.

Si tratta di dieci pannelli di scagliola carpigiana (antica tecnica di lavorazione del gesso che, combinato con pigmenti naturali, vuole imitare il marmo) collocati sui prospetti di dieci diversi palazzi del centro storico della città emiliana e sul Ponte di Mezzo.

Il progetto si chiama Nouvelles Flâneries e prende avvio con l’idea di Valentina Rossi, curatrice e storica dell’arte (More museum) di affidare ad un artista una nuova mappatura della città, ossia definire nuovi percorsi sulla base di storie meno note che hanno interessato lo spazio urbano.

La scelta curatoriale, condotta con l’associazione culturale Others, cade su un artista che da anni lavora sulla relazione tra opera e l’ambiente in cui questa si inserisce (inteso sia come spazio fisico che come narrazione collettiva), affrontando allo stesso tempo il tema del cammino, del viaggio. Ettore Favini, docente di Arti Visive al NABA di Milano e all’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo, ha già affrontato il tema dell’identità territoriale e della narrazione corale con altri progetti artistici, tra cui “Arrivederci” sviluppato per la project room del MAN di Nuoro, per il quale Favini ha sviluppato un itinerario di esplorazione del territorio sardo e di una delle tradizioni artigianali più antiche della cultura mediterranea legate ad esso: quella tessile.

Visitando diversi laboratori, Favini è riuscito a raccogliere oltre cento tessuti, che sono frammenti di storie, donati da artigiani, artisti e stilisti sardi. I vari pezzi sono stati usati per la costruzione di una grande vela che dal MAN, dunque dalla Sardegna, ha affrontato il viaggio nel bacino Mediterraneo per giungere a Genova, essere tinta di blu e infine esposta nelle sale del museo di Villa Croce. Questo lavoro, ricorda l’artista, “ha portato all’idea di ragionare sul bacino del Mediterraneo, storicamente un luogo di scambio, di ibridazione di linguaggi e di cultura, e quindi di percorrere tutti i paesi che si affacciano su questo mare per creare alla fine un linguaggio comune ibrido, fatto di simboli”.

Invitato a sviluppare un progetto per una nuova geografia a Parma, ovvero per un ritmo nuovo di passeggiate fisiche e mentali, che sia un accompagnamento per il viandante con spirito da flâneur, anche qui Favini parte con una prima fase di residenza artistica, occasione utile a scoprire la città, camminando molto e affrontando ricerche nell’Archivio di Stato e nella Biblioteca Palatina. Seguita da una seconda fase che ha visto il coinvolgimento di studenti (e non) di vario titolo e provenienza a un workshop guidato dall’artista e condotto con la collaborazione di Marco Scotti, Anna Zinelli e Davide Papotti (docente di Geografia culturale presso l’Università di Parma), in cui i partecipanti sono stati invitati a perdersi nella città, seguiti da un software installato sul loro smartphone che aveva lo scopo di tracciare i singoli percorsi.

Perdersi e focalizzare, poi, i punti storici e di interesse, scoprire la città per chi non la conosceva, impegnarsi a uscire fuori dai percorsi usuali e da uno sguardo abituato per chi invece vive la città quotidianamente.Il lavoro è proceduto in modo binario tra ricerca fisica (camminare, guardare, perdersi, scoprire) e ricerca storica tra i documenti d’archivio e la produzione letteraria più consolidata.

Guardando le mappe antiche della città, incidentalmente, Favini trova quella inerente la nota battaglia di San Romano che infervorava in città il 29 giugno 1734, e alla quale Carlo Goldoni ha assistito dalla finestra della camera in cui alloggiava e che lo portò ad annotare: “Che sarà mai, diss’io. È venuta forse la fine del mondo”.

Parte da qui l’idea di guidare il viandante nella Parma contemporanea attraverso le parole di chi ha attraversato la città in passato lasciandone traccia, e consentendo, quindi, oggi, di aprire nuovi sguardi sulla città e sulle sue stratificazioni storiche collocando targhe che ne ricordino la traccia e che ne lascino il segno in modo permanente sui luoghi di pertinenza.

Per esempio, Favini, durante le sue ricerche, scopre che anche Leonardo da Vinci è stato a Parma invitato dalla corte per lavorare alle fortificazioni. Dai documenti risulta che alloggiò nella Locanda della Campana, ossia nell’edificio che oggi ospita la Locanda dei Mascalzoni. Nei giorni della sua permanenza, il sommo si dedicò a ricerche naturalistiche di vario genere sugli Appennini, ecco perché la targa che lo ricorda in via Torrigiani recita: “Parma, alla Campana, a dì 25 Settembre 1514. Nelle montagne le moltitudini di nicchi e coralli intarlati ancora appiccicati ai sassi”.

flâneur, Parma, Favini

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Si va avanti così, con ricerche di tipo documentale e letterario, piccoli pezzi di memoria di viaggio che oggi ci restituiscono sguardi moltiplicati sulla città che viviamo ogni giorno o che ci troviamo a guardare per poco ma senza fretta.

Ad alzare lo sguardo nella centralissima via Farini si scopre che Thomas Gray ricorda Parma come “The happy country where huge cheese grow” (la terra felice dove prosperano enormi formaggi) probabilmente proprio mentre si sta dando ristoro al corpo con un buon vino e uno dei formaggi più desiderabili consigliati dall’oste dell’enoteca Tabarro, persona e luogo di tale culto e affezione tra i parmigiani contemporanei da guadagnarsi la targa del pre-Romantico autore inglese.

Tra gli altri v’è anche Proust che a Parma non venne mai ma questa, per lui, diventò la città del desiderio grazie al romanzo di Stendhal. “Il nome di Parma mi appariva composito, liscio, color malva e dolce”. La lastra in questione si trova su una delle case che compongono la più variopinta – e forse fotografata – strada di Parma, ossia Via della Salute: il palazzotto che ospita la citazione di Stendhal è l’unico ad avere le pareti color malva.

Ettore Favini, accompagnato da Valentina Rossi, dunque, ha lavorato negli ultimi mesi su questa narrazione estesa e diffusa (qui è possibile vedere e scaricare la mappa dettagliata https://moremuseum.files.wordpress.com/2018/05/mappa_nouvellesflaneries_def.pdf ), verrebbe da dire anche prospettica per gli zoom temporali che questa passeggiata induce a vivere.

Possiamo così dire che il 19 maggio a Parma si è inaugurato un nuovo monumento permanente alla memoria fatto di parole sparse, di sentimenti, di visioni, di atmosfere sui quali qualcuno si interrogherà o sorriderà o racconterà una storia oggi e domani. Nel dibattito vivo sulle città, sulla fruizione dello spazio pubblico, sulla critica a un turismo fagocitante e al suo metodo di consumo, su quella parte di città visibile e sulle parti che sono stratificazione, che chiedono silenzio, lentezza e intelligenza, si pone questa idea di nouvelle flânerie e una città come Parma lo consente particolarmente. Lo pensava Germaine Beaumont, altra protagonista di questo monumento ramificato: “Parma non è una città che si visita, è una città dove si va a zonzo, dove si va a vedere l’ora alla meridiana, oppure si cammina passo passo, pigramente”.

Questa attitudine al viaggio (reale o mentale) è qui condotta attraverso la fissità di targhe in scagliola incise. Targhe immobili e imperiture, dunque, che sono testimoni e portavoce di varie non appartenenze al luogo eppure di quel cammino cadenzato e sentimentale che ha condotto Curzio Malaparte, altro non-parmigiano, a pensare Parma come “la culla degli affetti moderni nella nostra letteratura: qui è nato quel sentimento affettuoso della vita, così estraneo all’arte classica, e così raro nella nostra civiltà letteraria. Per queste ragioni Parma è la nostra città”.

Che sia questo il senso, dunque, dell’andare nel paesaggio urbano: sentire la città come propria in qualche forma e in qualche modo, come organo di un organismo, come uno dei pensieri che ci riguardano, come carattere della storia personale e collettiva, forgiatura della memoria più antica e più recente e non come distratta raccolta di souvenir di asiatica provenienza accumulati in salotto insieme alla polvere.