Venezia è in apnea, per ripensare il turismo serve una nuova residenzialità
«Sono rimasta bloccata in Sicilia per tutto il lockdown. E laggiù mi sono resa conto che di Venezia non ne potevo più. Inizierò un’altra attività: è arrivato il momento di cambiare». Alessandra, chiamiamola così, a Venezia non vuole più viverci.
Fino alla vigilia dell’epidemia affittava appartamenti ai turisti. Assicurava il check-in e il check-out, pulizie, trasferimenti e tutta la girandola di attività, le escursioni in chiese, musei e isole che la città ha sempre vantato come una mondanità spicciola. «Sono arrivata a gestire fino a 30 appartamenti e 3 affittacamere. La formula era: pieno per vuoto. Prendevo in affitto case sfitte e le offrivo ai turisti attraverso le piattaforme on-line». Un buon business in cui è arrivata a impiegare 15 dipendenti.
«Ho sempre creduto in questa città e mi sono impegnata in tante attività per preservarla e valorizzarla», racconta, davvero convinta che le due cose, la sua impresa turistica e la difesa della città, potessero convivere. Poi è successo qualcosa, anzi due.
Prima l’acqua altissima del novembre scorso: «Di colpo mi sono trovata con 7 appartamenti allagati e con tutte le prenotazioni cancellate». L’epidemia poi: «La città sigillata. Chiuso l’intero Paese. E io bloccata in Sicilia». Il business si è spento e le case abbandonate: «Sono passata da un fatturato di 60 mila euro al mese a zero».
Come Alessandra, molti veneziani negli ultimi vent’anni hanno messo al lavoro le case della città. Lei almeno aveva un’impresa con tutti i crismi, altri giocavano a fare i fantasmi: «Un’intera famiglia si iscriveva su Airbnb, ciascuno con uno o due appartamenti, e così, registrati come singoli, eludevano il fisco», ci spiega. Persino gli hotel prendevano in affitto case singole per offrire l’esperienza di “vivere” a Venezia, anche se solo per qualche giorno. Come ci capita negli show dei prestigiatori, sappiamo tutti che la formula magica è essere abili e manipolatori, ma tutti finiamo per crederci. In laguna lo show si è interrotto d’improvviso, mentre sembrava non finire mai.
Non si distingue più il lamento dal sollievo
I 52 mila veneziani rimasti davvero a viverci sembrano smarriti nella loro stessa città, diventata troppo grande per loro e troppo piccola per essere una città. Hanno gridato così tanto contro l’assalto all’isola che, ritrovandola di colpo svuotata, prima hanno festeggiato e poi si sono immalinconiti. Finito il lockdown, con l’arrivo a frotte nei weekend di visitatori da tutta la regione, non si distingue più il lamento dal sollievo.
«Abbiamo però scoperto una cosa», confessa Alberta Basaglia, psicologa e scrittrice, che a Venezia ci è nata, ci vive e ci ha lavorato costruendo alcuni servizi sociali modello. Cosa? «Prima dell’epidemia, quando stavamo in casa, ci arrivava il vociare dalla strada, i rumori dei trolley e le risate dei “foresti”: potevamo solamente ascoltare loro che ci passavano sotto le finestre. Ascoltavamo le parole che venivano da fuori. Durante l’epidemia, invece, passeggiando tra le calli, riuscivi a distinguere le voci che provenivano dalle cucine e dai salotti. Abbiamo scoperto, dopo tanto tempo, la voce dei veneziani nelle loro case».
«Abbiamo scoperto, dopo tanto tempo, la voce dei veneziani nelle loro case»
Il quadro lo ha ricostruito Alice Corona per conto di Inside Airbnb, la piattaforma ideata da Murray Cox sei anni fa per monitorare il fenomeno degli affitti brevi del colosso californiano.
Tutto è iniziato perché «Airbnb non rende pubblici i dati né li ha mai forniti alle amministrazioni locali», ha spiegato la data journalist veneziana. Da qui un lavoro certosino per estrarre numeri visibili. Nel rapporto su Venezia, redatto nel 2019, si è scoperto che il 5% dei 5 mila host gestiva in città il 63% dei quasi 9 mila annunci, il 75% dei quali riguardavano un’intera casa.
«E così si è smontata la retorica fatta di piccoli proprietari che arrotondano affittando una stanza», ha raccontato Corona. E ancora: il 75% degli annunci erano concentrati in centro storico, dove 12 case su 100 stavano in Airbnb e qui 5 persone su 100 gestivano il 35% dei ricavi. Significa una cosa: «Venezia è un albergo diffuso che funziona senza cambi di destinazione d’uso». In laguna, residenziale e turistico sono diventati un’unica zona opaca ed elusiva.
Verso la fine del lockdown è stato il Rettore dello Iuav, Alberto Ferlenga, a lanciare il sasso. La città era appesa a una specie di incanto spettrale dove giravano i meme con fenicotteri e coccodrilli in giro per calli e canali. Ferlenga ha proposto un patto ai residenti: in mancanza di turisti, affittate le case agli studenti per sei mesi o un anno, e costruiamo una rete finanziaria e legale, di garanzia per i proprietari.
Residenziale e turistico sono diventati un’unica zona opaca ed elusiva
I quattro atenei universitari presenti in città (Iuav, Ca’ Foscari, Conservatorio e Accademia di Belle Arti) sommano circa 20 mila studenti, in gran parte fuorisede. Due anni fa un convegno dello Iuav (“Vuoto/Pieno. I caratteri della Venezia che cambia”), ha fatto un’altra fotografia.
In quell’occasione, si è stimato un fabbisogno di stanze per 10 mila studenti. Negli ultimi anni, anche loro sono stati via via espulsi dal centro storico e hanno cercato appartamenti in terraferma, dove peraltro Airbnb si mangiava case fino ai quartieri più periferici.
A leggere gli atti del convegno, impressiona un altro dato: a fronte di circa 6 mila universitari che vivono in centro storico, i veneziani tra i 19 e i 25 anni non superano i 3 mila. L’Esu (l’Ente regionale per il diritto allo studio) garantirebbe non più di 720 posti letto, cui si andranno a sommare altri 1170 letti, una volta che saranno completati i campus a San Giobbe e a Santa Marta in centro storico e in via Torino a Mestre. I numeri non lasciano scampo.
Di fronte alla proposta del Rettore, le associazioni di B&B si sono dette subito d’accordo, così come la nuova piattaforma di “turismo sostenibile” FairBnb, per non parlare dell’amministrazione comunale che annaspa nel vuoto. Più cauti i responsabili di Airbnb, che devono far fronte al nervosismo delle città storiche di mezzo mondo, comprese le reiterate minacce di tassazioni e limiti drastici.
Il Rettore si dice pragmatico: «Affittare agli studenti sarebbe una soluzione win-win: la città tornerebbe ad essere abitata, seppur temporaneamente e i proprietari rassicurati sulla possibilità di recuperare gli immobili e di avere nel frattempo un’entrata che ora hanno perduto». Ma soprattutto, aggiunge, «si potrebbe creare un circolo virtuoso, per cui molti di quei giovani si potrebbero fermare, se nel frattempo si creassero spazi professionali e nuove filiere economiche». Ai veneziani c’è voluta una pandemia per farsi dire l’impensabile. E così la proposta del Rettore è finita sul New York Times.
Solo il 26,5% di chi acquista una casa lo fa per viverci. Per un altro 26 è un investimento
«Nei giorni successivi al lockdown, i portali immobiliari hanno cominciato a rimpinguarsi di annunci. È durato una settimana.
Poi, questa folata di case disponibili si è ritirata. Una mossa forse per scansare un effetto bolla ed evitare che l’offerta facesse scendere i prezzi». Luca Velo insegna urbanistica sempre allo Iuav ed è un attento osservatore delle dinamiche residenziali della città. In altre parole: «Le agenzie hanno pacchetti nuovi di case, ma non li mettono in vetrina. D’altra parte, sono in molti a non avere urgenza di vendere, perché spesso hanno due o di più immobili. E, vista la crisi, hanno deciso di metterne uno sul mercato, ma con cautela».
Sempre in quel convegno del 2018 ad Architettura, si veniva a sapere che a Venezia solo il 26,5% di chi acquista una casa lo fa per viverci. Per un altro 26 è un investimento. E per un altro terzo è seconda casa. L’urbanista Laura Fregolent lo aveva spiegato cosi: «La sfida di oggi non è semplicemente come gestire il turismo a Venezia, ma di come gestire Venezia con il turismo». L’epidemia ha risolto, per il momento, una delle due variabili del quesito. Ma resta quella centrale: come gestire Venezia.
Da sempre la parola d’ordine è fermare l’esodo e attrarre nuovi residenti. Più di vent’anni fa, l’Osservatorio Casa del Comune di Venezia aveva consegnato all’amministrazione un’indicazione strategica: il social housing. La scommessa era quella di permettere a un’ampia fascia sociale (e generazionale) di tornare ad abitare anche in centro storico: persone che non rientrano nelle condizioni per le liste di edilizia popolare e allo stesso tempo non possono permettersi i prezzi di mercato.
Vent’anni dopo, un altro Osservatorio Casa, che si fa chiamare “Ocio”, questa volta creato dall’attivismo civico, ha dimostrato come quella strategia sia stata sterilizzata sul nascere. In due decadi, dei 13 progetti annunciati, solo 3 sono stati realizzati e in uno sono scomparsi tutti gli alloggi a edilizia calmierata.
Social housing: in due decadi, dei 13 progetti annunciati, solo 3 sono stati realizzati
E «anche nei 3 casi in cui gli alloggi sono stati consegnati, non si può sempre parlare davvero di successo», si legge nel rapporto dell’Osservatorio. Un esempio? «Alla Giudecca, per l’area Junghans ci sono voluti 18 anni e 11,6 milioni di euro in contributi pubblici per passare dall’annuncio del concorso alla consegna delle case. Nella convenzione iniziale inoltre erano previsti 137 appartamenti in vendita e 37 in locazione a prezzi convenzionati. Dei primi, solo 80 sono stati effettivamente venduti al prezzo concordato. Quelli in locazione sono invece scomparsi del tutto».
Oggi, nessuno parla più di social housing. Giancarlo Ghigi è uno dei fondatori di Ocio: «In questi anni le proposte si sono spostate su soluzioni in project-financing o in progetti di cooperative che costruiscono e lasciano i residenti come usufruttuari a vita. Ma sembrano tutte molto aleatorie. Credo che nessuna soluzione sia realistica senza una regia e un investimento pubblico massiccio, che riporti la casa nella sfera del welfare».
Dopo tutto quello che è successo, potrebbero cambiare le politiche pubbliche? Il buio è totale e non ci sono finora segnali nemmeno dai candidati che si disputeranno le elezioni a settembre. E così la città sembra fluttuare in un’interminabile apnea. Le case rimarranno chiuse e irraggiungibili? Luca Velo è pessimista: «Credo che chi ha appartamenti se li tenga stretti. La maggior parte aspetterà, prima di tutti chi ha davvero investito in grandi proprietà con enormi capitali. Aspetteranno, anche fino al 2022. Aspetteranno, finché non ripartirà il flusso di turisti. E ripartirà. E temo sarà predatorio, più di prima».
Immagine di copertina: ph. Francesco La Corte da Unsplash