Verso un settore pubblico collaborativo

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    “Tutto ciò che è pubblico va difeso e rafforzato”. Con questa drastica affermazione inizia il nostro libro Fare assieme. Una nuova generazione di servizi pubblici collaborativi (Egea, 2024). Ma, per farlo davvero occorre anche aggiornare il significato di “pubblico”: le idee oggi in circolazione su che cosa sia e come operi sono nate il secolo scorso. E, da allora, tante cose sono cambiate. Quella che qui vogliamo mettere in primo piano è questa: allora il pubblico, comunque lo si volesse intendere, era un attore che si collocava in una società ancora largamente strutturata come un intrico di forme sociali: famiglie, vicinato, comunità religiose e politiche con organizzazioni sociali capillarmente distribuite sul territorio. Oggi, molte di queste forme sociali si sono sciolte: la società tende ad essere una fluida costellazione di individui.

    In questo nuovo contesto, anche il pubblico deve evolvere e aggiungere un nuovo compito a quelli tradizionali: ritessere le reti sociali, contribuire a costruire nuove comunità e nuovi beni comuni. Su questo sfondo generale, il contributo specifico di Fare insieme si riferisce ad un suo particolare aspetto: la necessità di una nuova generazione di servizi pubblici che stimolino e sostengano la capacità delle persone di essere attive e collaborare. E questo non solo per combattere la solitudine (che si presenta come il più esteso male sociale di questo secolo), ma anche perché è solo attivando le capacità collaborative di tutti che è possibile affrontare con qualche speranza di successo i problemi altrimenti irrisolvibili con cui oggi ci troviamo a doverci confrontare. Nel libro questa tesi è motivata e sviluppata. Questo articolo però non ripercorre il complesso di questi temi. Si rivolge invece ai policy maker e agli operatori nei diversi servizi pubblici che, seguendo i loro percorsi di esperienza, sono arrivati a idee analoghe, e propone loro una sintesi delle nostre osservazioni e proposte con l’intenzione di promuovere un dibattito ed un confronto. In questo spirito il nostro contributo al dibattito si riassume nella proposta di 4 azioni da mettere in atto (non necessariamente nella sequenza che qui viene proposta) per passare dalle idee e dalle sperimentazioni fin qui fatte, alla creazione e al consolidamento di una nuova tipologia di servizi: i servizi pubblici collaborativi.

    1. Riconoscere il problema: l’emergere di questioni intrattabili

    Il modello sociale che l’idea e le pratiche neoliberiste hanno reso dominante è quello di una società come aggregato di individui che esprimono domande cui dei servizi pubblici e privati dovrebbero dare individualmente risposta. Come tutti possiamo facilmente constatare, questo modo di pensare e di fare porta a scontrarsi con problemi intrattabili. Cioè problemi che, all’interno del modo di vedere le cose considerato “normale”, non possono trovare risposta1Si definiscono così (in inglese intractable problems ) quei problemi che né i classici strumenti di governo, nè le soluzioni di mercato si sono rivelati capaci di risolvere. Si veda Robin Murray, Julie Calulier-Grice, Geoff Mulgan, Open Book of Social Innovation, London: Young Foundation/NESTSA, 2010 cit. .

    Per esempio: se cresce il numero di persone che, per diverse ragioni (vecchiaia e malattie croniche o altro), hanno bisogno di cura, i servizi sociali e sanitari pensati come un insieme di prestazioni individuali specializzate, non sono strutturalmente in grado di dare risposte. Oppure: se sempre più persone vivono da sole e, essendo isolate, provano un senso di insicurezza, non c’è servizio di protezione che possa essere così vicino a tutte loro da poterle tranquillizzare.

    Occorre riconoscere che situazioni come queste pongono dei problemi intrattabili perché è lo stesso quadro concettuale adottato che, al tempo stesso, contribuisce a crearli e impedisce di trovar loro una soluzione accettabile e duratura: una società di individui isolati che esprimono domande individuali non può trovare un servizio pubblico talmente largo ed esteso da dare a tutti risposte con la qualità e la continuità che sarebbero necessarie.

    Non solo. La realtà attuale ci pone anche altri problemi che, in tutta evidenza, emergono come intrattabili da una società pensata e operante come un insieme di individui isolati. Il più evidente è quello della difesa del territorio e dei suoi ecosistemi: se entrambi sono sotto stress e si degradano in tutta la loro estensione, non ci sono enti che possano effettuare, in modo capillare e continuativo, il loro controllo e la loro rigenerazione. Similmente, anche se ad una diversa scala, se si dispone di un patrimonio storico enorme e diffuso, come in Italia, non c’è un ente pubblico che possa garantirne in modo estensivo la preservazione e l’accessibilità. Ne viene che anche questi sono, a tutti gli effetti dei problemi intrattabili. Occorre dunque riconoscere la natura di questi problemi e, di conseguenza, saper cambiare la visione della società cui si fa riferimento e che, con le nostre azioni, ed anche con i nostri servizi, collaboriamo a costruire.

    2. Cambiare l’idea di cittadino: la figura del cittadino attivo, capace e collaborativo

    Nella mentalità, e nelle pratiche neoliberiste i cittadini tendono ad essere ridotti al ruolo di utenti e clienti di servizi individuali. L’essere utenti/clienti è dunque il profilo che, implicitamente o esplicitamente, i progettisti e gestori servizi pubblici adottano per descrivere le persone cui fanno riferimento. Questo modo di vedere le cose è diventato così potente da essere adotto anche da queste ultime che, a loro volta, tendo a confrontarsi con le istituzioni pubbliche come utenti/clienti individuali, in attesa passiva di un servizio, esprimendo rassegnazione, e/o aggressività, quando le presentazioni ricevute non sono ritenute adeguate.

    D’altro lato, tutti quelli che, per qualche ragione, non possono o non vogliono adattarsi a questo ruolo sono messi da parte, escono dai radar e, come ha scritto tempo fa Bauman diventano “scarti umani”: persone di cui la società non ha, e non avrà mai, bisogno (Zigmund Bauman,Vite di scarto, Laterza, 2005).

    Certamente, questo modello ammette anche l’esistenza del volontario, come figura minore, che può entrare in scena per dare conforto o/o integrare ciò che i servizi (pubblici e privati) non possono e non vogliono fare. Però, così definita, la figura del volontario, non mette in discussione il modello dominante, ne resta intrappolata e non cambia la natura intrinsecamente intrattabile dei problemi che affronta: non ci saranno mai volontari sufficienti per rispondere a tutte le domande che emergono dalla società degli individui e degli ecosistemi abbandonati.

    Come si è detto, per uscire da questo impasse, occorre cambiare il modo di vedere le cose. E farlo sia sul versante delle persone, che su quello delle istituzioni. I primi devono riscoprirsi cittadini (potenzialmente) capaci di essere attivi e collaborativi. Le seconde devono darsi il ruolo di stimolare e sostenere questa potenziale diffusa capacità, anche laddove il capitale sociale è più debole.

    Due decenni di innovazione sociale ci dicono che tutto questo può avvenire e che, nella contraddittoria complessità delle società contemporanee, di fatto, già avviene. In altre parole, essa ci mostra che, quando e dove le persone hanno scelto di collaborare, e concretamente hanno potuto farlo, hanno saputo affrontare problemi difficili come quelli prima indicati. E lo hanno fatto generando inedite forme di comunità e mostrando (o meglio: rendendo nuovamente evidente) che, oltre ai beni privati e quelli pubblici, ci sono anche i beni comuni (Ezio Manzini, Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità, 2018).
    Non solo. Hanno mostrato anche la molteplicità dei modi in cui le persone possono essere attive e collaborative: dal partecipare con continuità alle attività di un’organizzazione, alla partecipazione molecolare, con compiti ben definiti e limitati nel tempo, fino alla partecipazione leggera ad eventi sentendosi parte della continuità che li organizza (come ci insegnano le nuove forme di attivazione promosse principalmente dalle giovani generazioni, anche attraverso l’uso del digitale).
    Tutto ciò ci porta a riconoscere che una società può non essere fatta solo di individui passivi, ma anche di reti di persone attive. E che è proprio in questa riserva di capacità collaborative che può trasformare i problemi intrattabili di cui si è detto in campi di possibilità: terreni di azione in cui è possibile immaginare delle inedite soluzioni rese possibili da nuove reti di individui attivi e capaci di collaborare.

    3. Cambiare l’idea di pubblico: un agente che stimoli e supporti reti sociali

    Il fatto che i cittadini operino in modo attivo e collaborativo dipende da molti fattori. Primo tra tutti che le infrastrutture socio-tecniche su cui basano la loro esistenza lo rendano possibile. Per cui, il cambiamento necessario nella idea di cittadino cui si fa riferimento deve andare in parallelo con un analogo cambiamento nelle infrastrutture socio-tecniche di supporto. E questo è anche ciò che il pubblico deve contribuire a fare. In particolare, sono proprio i servizi pubblici che devono essere ripensati per diventare abilitanti, favorendo l’attivazione e la collaborazione tra le persone. Il che, per essi, è certamente un ruolo nuovo.

    D’alto lato, va detto che questo loro inedito modo di proposi è del tutto in linea con la nostra tradizione. Infatti, la stessa Costituzione riconosce l’autonoma iniziativa dei cittadini nello svolgimento di attività di interesse generale (quando nell’articolo 3 parla di effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e quando, con l’articolo 118, indica una strada sul come farlo nel quadro del principio di sussidiarietà orizzontale). Non solo. Uno spirito analogo lo troviamo nella discussione sui servizi pubblici negli anni ’70 quando la forte pressione dei movimenti politici e sociali aveva portato il sistema politico italiano ad aprirsi alla partecipazione istituendo, per esempio, gli organi collegiali nelle scuole e i consigli di circoscrizione nei quartieri. E quando, nel 1978, dando il via al Servizio Sanitario Nazionale, l’articolo 1 della sua legge istitutiva dice: “l’attuazione del servizio sanitario nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini”.

    Se tutto questo costituisce il retroterra della nostra proposta, ciò che essa aggiunge si basa sulla convinzione che oggi, mezzo secolo dopo, in una società profondamente cambiata, l’idea di partecipazione e di Pubblico elaborati negli anni ’70 non siano più sufficienti ed occorra immaginare nuove fome di partecipazione e collaborazione. A partire da qui, ciò che ha trasformato questa domanda di rinnovamento in una proposta praticabile è stata, come già anticipato, l’osservazione dell’innovazione sociale degli ultimi 20 anni. La constatazione che, già da tempo, ci sono scuole, biblioteche, case della salute, cose di quartiere, centri sociali e culturali che hanno iniziato ad operare in modo nuovo, stimolando e sostenendo una varietà di reti sociali.

    Con riferimento a questi esperimenti socio-istituzionali si può osservare che essi sono emersi in modo indipendente gli uni dagli altri, e a partire da diverse specifiche motivazioni. Però, mettendoli assieme, uno vicino all’altro, appare evidente che hanno molte similitudini. In particolare, sono tutti caratterizzati da una struttura descrivibile come una T, dove il tratto verticale indica la loro specifica prestazione (educare, promuovere la lettura, aver cura dei cittadini, ecc) e quello orizzontale l’attività di stimolo e supporto alla collaborazione che sono stati in grado di generare.

    Si può notare inoltre che ognuno di essi è il risultato della collaborazione tra diversi attori: scuole, biblioteche, strutture locali sanitarie, centri culturali e case di quartiere, associazioni del terzo settore, università, gruppi di cittadini attivi e, in alcuni casi, edicole, negozi, bar (quando diventano luoghi di incontro, di mutuo supporto, di socializzazione). Insomma, emerge chiaramente che ogni iniziativa può avere un promotore (una scuola, una biblioteca pubblica, un’organizzazione del terzo settore, un gruppo informale di cittadini organizzati) ma, per produrre valore sociale e durare nel tempo, questo promotore iniziale ha bisogno di collaborare con altri (Michele d’Alena, Immaginazione civica, Luca Sossella Editore, 2021).

    L’insieme di questi caratteri ci porta a considerare i casi cui si riferiscono, e che fino ad ora sono stati discussi separatamente, come espressione di specifici e diversi campi d’azione, come un’unica nuova tipologia di servizi: i servizi pubblici collaborativi. Essi sono dunque: una nuova generazione di servizi che combinano l’offerta di ben definite prestazioni (in genere erogate professionalmente da operatori specialisti) con quella di piattaforme abilitanti grazie alle quali i cittadini stessi possono collaborare tra loro e con altri attori sociali (enti pubblici, imprese, università, organizzazioni del terzo settore) per produrre valore sociale. Certamente, i casi su cui questa proposta è costruita sono ancora relativamente pochi. Ma è possibile pensare ad una loro estensione.

    Infatti, tutte le scuole, le biblioteche, le case della salute, le case di quartiere, i centri sociali e culturali hanno due fondamentali caratteri comuni: la loro presenza è, o dovrebbe essere, uniformemente distribuita sul territorio, e quindi tale da avere relazioni anche con le fasce più fragili della società (quelle più povere del tempo e dell’energia necessari per attivare progetti collaborativi). Inoltre, e questo è il secondo tratto comune, le loro strutture sono usate in modo parziale (per esempio, le scuole sono vive solo per alcune ore); o si prestano per altri impieghi (per esempio, un centro culturale può diventare anche un luogo per attività sociali e sanitarie, e viceversa); oppure, a fronte dei cambiamenti sociali e tecnologici avvenuti, vivono una crisi strutturale (come le biblioteche).

    L’insieme di questi due caratteri fa sì che ciascuno di questi luoghi potrebbe evolvere diventando anche “centro di prossimità”, vicino ai cittadini e capace di offrire loro una molteplicità di opportunità: spazi ibridi multifunzionali dove rendere possibili diverse forme di partecipazione e collaborazione.

    4. Orientare, delegare, dare tempo: un’inedita forma sociale

    Se davvero, in futuro, tutte le scuole, le biblioteche, le case della salute, i centri culturali, le case di quartiere andranno nella direzione ora indicata dipende da se ci sarà o meno la volontà politica di farlo succedere. Non sarà facile. Affinché ciò avvenga, ogni settore dell’amministrazione dovrà riconoscere, accettare e gestire dei cambiamenti su diversi terreni: da quello del diritto a quello della comunicazione e dell’organizzazione. Si tratta infatti di valorizzare elementi immateriali (come la gestione delle relazioni), nuove forme di leadership (come la gestione della partecipazione e della rappresentanza locale), inediti modelli di sostenibilità economica, sociale e ambientale (basati su una nuova concezione di collaborazione e mutualismo).

    Su questo terreno problematico vogliamo concludere indicando tre questioni che ci sembrano di grande rilevanza (e che meritano degli approfondimenti che vanno al di là dei limiti di questo articolo.)

    La prima è relativa a come trasferire potere ai cittadini e alle loro organizzazioni, senza tuttavia perdere la capacità di indirizzo. Si tratta di progettare servizi pubblici che abbiano in sé «un vuoto da riempire» con le azioni e le scelte dei cittadini. Servizi per i quali chi amministra accetti e veda come un proprio successo che questi vuoti vengano riempiti da altri e che si generino azioni e scelte che non sarà lui o lei a fare. In ultima istanza, ciò significa che chi amministra deve accettare e promuovere una ridistribuzione del potere, che però non sia un’abdicazione dal potere. Il che, per il pubblico, implica mantenere l’orientamento del servizio verso l’interesse generale.

    La seconda questione rilevante e problematica è come riconoscere e valorizzare il tempo necessario alla cura delle relazioni. Un tempo che va considerato come tempo di lavoro. Detto questo, va discusso come ciò potrebbe avvenire. Infatti, il tempo della cura è per definizione un tempo qualitativo, non riportabile in moduli predefiniti. Quindi è un tempo difficile da misurare e valutare. Il che significa che occorre andare oltre gli standard delle procedure degli atti pubblici e riconoscere il valore della cura delle relazioni. Cioè delle attività che costruiscono coesione sociale.

    Emerge dunque la necessità di introdurre una nuova generazione di operatori specificatamente dedicati alla cura delle reti sociali. Ma non solo. E’ necessario che la cultura della collaborazione si estenda all’intera organizzazione del Pubblico: occorre ripensare gli approcci tradizionali e mettere la collaborazione tra i cittadini e gli operatori dei servizi al centro dell’intervento. E occorre dare loro tempo e fiducia: il tempo per coltivare le relazioni e per far emergere il loro potenziale di intelligenza collettiva; la fiducia nelle scelte che questa intelligenza collettiva potrà fare.

    La terza questione, che sta alla base delle prime due è questa: a fronte dell’indebolimento delle reti sociali che caratterizza le società contemporanee, occorre che rafforzare la dimensione collettiva e mutualistica. Non solo. Occorre che la sua esistenza vada riconosciuta come nuovo diritto sociale: il diritto alla collaborazione per rompere l’isolamento in cui siamo stati spinti e re-imparare a collaborare. Cioè, il diritto di essere nodi di reti sociali che ci permettano di immaginare e mettere in atto iniziative e progetti di vita praticabili proprio perché fatti assieme ad altri. Riconoscere che le persone hanno al tempo stesso la necessità e il diritto di essere attive e collaborative implica, dunque, che il pubblico assuma un nuovo ruolo: che diventi, appunto, un Pubblico collaborativo.

     

    Immagine di copertina di Michele Bitetto su Unsplash

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