Le newsletter non sono morte: stanno guarendo la creator economy

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    BeReal ha un problema: vuole farci essere noi stessi. Seguendo la chimera della self expression, ci esorta a rivelare i segreti più intimi con i nostri contatti, una volta al giorno, al suono di una sirena. A metterci troppo tempo a scattare la foto – selfie con doppia fotocamera attiva, a svelare il bifrontismo del reale –, o non scattarla proprio, eliminati. Per te, nessuna possibilità di cibarti delle vite degli altri, voyeurismo all’ennesima potenza, perché, secondo le regole del gioco, che si stia compiendo una rapina in banca o spogliandosi per un bagno ristoratore, you gotta be real. Ad attendere dall’altra parte della bilancia, la categoria del fake, coloro che sdoppiano la propria identità in online e offline, che violano cioè il primo comandamento della futura netiquette di avatar e web3: sii te stesso, non importa la telecamera.

    È senza mezzi termini inquietante, che un medium comunicativo sia nato con lo scopo di farci essere chi siamo. E ciò aggiunge valore alla consapevolezza che sempre più anima la digital divide: l’alfabetizzazione digitale non si basa sul saper effettuare operazioni meccaniche in rete o meno, ma sulla finezza d’applicazione del discernimento rispetto al medium – e ogni social, con l’attuale proliferazione e seguendo il canonico adagio per cui il medium è il messaggio, è un medium diverso in quanto veicola un messaggio diverso. Così ci si allarga, ci si scolla dalla tara generazionale, che, se per il web1 e 2 poteva ancora trovare ancoramento nella realtà, appare ora superata. Ma, condensando. Se si dice Facebook si pensa a scrittura a flusso di coscienza e bollettino informativo per eventi e simili; Instagram, post sponsorizzati e storie; TikTok, contenuti comedy, travel, food, lifestyle (intuitivamente, si capirà dove le cose accadano, sui social contemporanei); Snapchat, una cosa che in Italia non ha mai davvero attecchito; Twitter, non-luogo di dissing e comunità professionali; LinkedIn, mah, contenitore per chi vuole applaudire più forte degli altri; BeReal, un modo per staccare la testa per trenta secondi da qualsiasi attività si stia svolgendo.

    La domanda giusta potrebbe essere: perché dovrei aprirmi un profilo social e non, invece, raccogliere un po’ di pensieri su una newsletter e poi, quando sono pronta, condividere tutto con una cerchia ristretta di persone?

    Al mezzo di un ecosistema che pretende di regolare le modalità espressive dei propri utenti al modo in cui inchini e posti a tavola regolavano le interazioni sociali delle corti rinascimentali (il Medioevo appare sempre più come la vera epoca scanzonata dell’umanità occidentale), pena ostracismo per falsità o l’abisso dell’incomunicabilità, una zona franca sembra però palesarsi. Perché, se si pensa alle newsletter, non viene in mente un bel niente. Non codici di comunicazione, idee-stampo preimpostate, piattaforme esclusive. Pur con diversi provider esistenti, la nozione di newsletter – o bollettino; bollettino è una parola meravigliosa, per quanto radical-chicchezzata dal movimento di “ritorno alla sincerità” appunto, sempre contro il fake, che anima le arterie delle grandi città – riporta a un nido d’ape di variabili. Un po’, forse, come la nozione di “essere umano” copre variamente lo spettro di autrici e autori, proprio delle newsletter, e anche tutte quelle altre che, di newsletter, non vogliono manco sentir parlare. Ma un passo alla volta.

    La prima newsletter del contemporaneo può probabilmente venir fatta risalire all’era pre-internet, 1978, e a un messaggio mail di vendita – oggi lo chiameremmo spam – che Gary Thuerk, impiegato alla Digital Equipment Corp., fece recapitare contemporaneamente a 400 persone. Da lì alle newsletter, la catena evolutiva prevede altri due fondamentali passaggi: la sistematizzazione dell’e-mail marketing, e l’ascesa e declino della blogosphere (“blogosfera”), più o meno attorno agli anni di massima popolarità di MySpace (2005-2008) e immediatamente a seguire. Il prodromo della newsletter è insomma il foglio bianco, digitale, unito alla possibilità di una condivisione ramificata e quantitativa: in quante più direzioni possibili, con il maggior volume possibile. Il suo mito di fondazione, l’unificazione dei blank spaces offerti dagli hosting internet aperti al pubblico con le logiche di vendita e informazione giornalistica dei feed RSS.

    Iscriversi alle liste di posta di pubblicazioni imperniate su Substack, Bulletin, Revue, Mailchimp, Ghost, TinyLetter, 4Dem, Sender, eccetera eccetera, potrà dunque massimamente comportare due ordini di cambiamento per la casella mail della sottoscrivente: o, la ricezione di aggiornamenti commerciali di brand e aziende in modalità informativa – aspettandosi, spesso, di ottenere sconti e offerte esclusive – o, contenuti editoriali, e curati, tra originalità e selezioni ragionate di “cose” provenienti da altri angoli web. Come se, insomma, ci si tornasse a fidare della vicina per trovare un buon idraulico rispetto ad assumerne uno solo perché spinto da attività di marketing. Allo stesso tempo, quest’ultimo caso, potrebbero obiettare, ricalca in realtà la modalità di espressione e comunicazione social, in quanto mette in relazione una singola autrice, o gruppo di autrici, con una community.

    Per questa caratteristica, e per le possibilità di monetizzazione tramite abbonamento offerte dalle diverse piattaforme di hosting, le newsletter ab persona sono state variamente inserite dentro i confini della creator economy, seguendo i dettami di uno spirito di pragmatismo capitalista per cui, se non è monetizzabile, allora no, grazie – tornando al discorso social, vedremo quanto resisterà BeReal senza introdurre pubblicità, programmi creator, e altre argute soluzioni di guadagno, o, al contrario, i brand a corroborarlo di marketing.

    Comunque, ovunque s’inserisca la parola economy, prima o vi si sostituirà il termine bubble, la bolla. Un bel riassunto, e una precisa fotografia dello stato di turgidità della bolla delle newsletter, in Italia e all’estero, è stata restituita qualche tempo fa da Riccardo Congiu, in un articolo de Il Post. Portando esempi illustri del nostro panorama quali Link Molto Belli di Pietro Minto – in circolazione dal 2014 & still kicking – e La moda, il sabato mattina di Federica Salto, Congiu trasmette un’osservazione fondamentale per comprendere meglio non solo la bolla, ma anche il sentimento diffuso verso la produzione, e circolazione, di contenuti nel web2-incipiente-web3. In sostanza, vale sempre il buon principio anti-stakanovista per cui: fanne poco, fallo bene. Tradotto in newsletterese: se esce di meno, lo fai meglio, e agli utenti fa più piacere leggerlo. Trasposto nella lingua dei social, c’è troppa roba là sopra, raga. Troppo aggressiva. E la soglia d’attenzione breve a cui abitua il breve schermo dello scroll scende, cala, droppa. Il burnout da lettore/fruitore di contenuti è una cosa reale.

    Ovunque s’inserisca la parola economy, prima o vi si sostituirà il termine bubble, la bolla

    Lo spettro del reverse burnout – cioè non di produce, ma di chi fruisce – legato alla parte utente dei social circola in realtà da più tempo rispetto al sospetto verso la newsletter bubble. Si è manifestato subito dopo i più duri tempi pandemici, a cavallo tra 2020 e 2021, e ha staccato netti cambiamenti non tanti nei linguaggi, quanto nelle modalità di applicazione degli stessi sui singoli social network. Per esempio, la scelta di un’estetica lo-fi e scatti alla cazzo di cane (cit. Boris) su Instagram (ne ha parlato bene Il Post in un altro articolo azzeccato, ovviamente, senza la citazione dell’amata serie TV); l’uso sostanzialmente passivo che la stragrande maggioranza degli utenti non-creator ha di TikTok (anche l’utente più passivo pubblicherà a tratti, su Instagram, post o storie; non è vero su TikTok); il sollievo di potersi presentare nella propria versione incensurata, impiegando solo una manciata di secondi a creare contenuti targati “me”, offerta da BeReal. Fatica che riverbera anche sui dati di crescita dei diversi social. Impossibile, se non a pagamento, crescere su Facebook.

    Impresa approcciabile su Instagram, ma a patto di avere ricondivisioni da parte di account con già grande seguito. Mentre, in questo, TikTok si presenta ancora smarcato e sulla cresta delle onde dell’hype, complice anche il chiacchierato algoritmo e la creazione del feed “Per te”, progettato come un one-sheeter. A foglio, cioè, singolo: aprendo il social, non si ha l’impressione di essere inondati di contenuti, in quanto è possibile visualizzarne solo uno alla volta, a tutto schermo. Ciò non succede con Instagram o Facebook, per esempio, che sia nelle loro versioni app che desktop tolgono gli argini a una diga di alterità presentata, per il solo fatto di essere sulla piattaforma, come imprescindibile. Non è forse un caso che la generazione che più lamenta la pressione della FOMO (Fear Of Missing Out) sia quella dei Millennial, i quali, alla nascita di Facebook, avevano coscienze già adolescenziali e impressionabili. Non è nemmeno un caso che spesso siano proprio i social a essere disattivati in molti percorsi di riabilitazione psicologica, o che molti si dichiarino “riconnessi alla realtà” dopo un periodo di digiuno dai social feed. La chiave di volta si annida forse qui: una certa disconnessione del cosmo online dal reale e analogico, messa prepotentemente in evidenza dalla sterzata digitale della vita sotto lockdown. Un quiet quitting che arriva a coinvolgere non solo il luogo di lavoro, ma anche i laboratori delle nostre identità. Eppure, la voglia di condivisione è tutt’altro che passata. E, nell’ecosistema della comunicazione digitale, basta forse spostare di qualche centimetro la linea di messa a fuoco per accorgersene.

    Come piccolo esempio pratico, mi è capitato di lavorare, recentemente, per la promozione digitale di una rivista online. Testando diverse modalità di promozione social, i risultati stendevano davanti agli occhi un interessante set di considerazioni: la prima, che i follower guadagnati tramite promozione diretta su Facebook – Instagram non offre la possibilità di promuovere post allo scopo di attrarre nuovi follower sulla pagina – tendono a non interagire con i contenuti successivamente pubblicati. La seconda, che le promozioni di post Instagram con finalità Interazione tendono a portare like al singolo contenuto sponsorizzato, senza invece fidelizzare pubblico alla pagina. La terza, che, sia su Facebook che Instagram, la promozione di un form di raccolta contatti per la newsletter della rivista restituiva prestazioni puntualmente superiori a quelle pronosticate dal Business Manager di Meta. La quarta, che promuovere tali form di raccolta contatti su Instagram portava anche nuovi follower alla pagina. La quinta, che i tassi di disiscrizione alla newsletter sono infinitesimali, e che le percentuali di apertura hanno sempre superato, a ogni invio, il 41-42%. Inoltre, a ogni nuovo articolo pubblicato, il form pop-up che propone l’iscrizione diretta alla newsletter della rivista registra nuovi contatti e nominativi. Il tutto a fronte di invii a cadenza più o meno mensile, senza giorni né orari prestabiliti, e una campagna pubblicitaria che descriveva la newsletter come “lunga uno scroll”, per dare effettivamente alla lettrice la possibilità di concentrarsi sui contenuti di propria elezione. Un anti-feed, insomma, di risultati in linea con quanto sottolineato nell’articolo di Congiu precedentemente citato.

    Tirando le somme, gli utenti esistono, e non hanno perso la fame. Al contrario, i feed a flusso continuo – e personalistico – dei social hanno affinato il gusto, aprendo una nuova era dell’alfabetizzazione digitale, la quale, suppergiù, potrebbe essere ricondotta all’atteggiamento verso le storie Instagram degli altri: o le apro tutte, o apro quelle che realmente mi interessa visualizzare. Con un piccolo esercizio di straniamento, la prova del nove per il portato di arricchimento alla sfera del proprio personale di ogni contenuto social potrebbe diventare: ma se l’avesse scritto in una newsletter, l’avrei letta? Nella maggior parte dei casi, il monologismo dei social ci porterebbe probabilmente a una risposta negativa. Facendoci caso, condividere ha le dinamiche di un allenamento a squash: non mi serve un partner per proseguire nell’enunciazione. La newsletter – editoriale, ça va sans dire – ragiona invece sui binari del dialogico, e necessita divisione di poteri tra enunciante e ricevente, che a sua volta potrebbe diventare enunciante, e così a proseguire.

    Abbiamo detto tanto, negli ultimi quindici anni, sui social, ma abbiamo sempre parlato molto poco. Forse, i numeri di affezione verso le newsletter, e la loro sussistenza e fioritura a discapito dei proclami di morte e scoppio della bolla a paventare regolarmente una palingenesi delle nostre abitudini comunicative, ci dicono soprattutto una cosa: che siamo stanchi di circumnavigare le osservazioni della linguistica per cui, perché ci sia comunicazione, entrambe le parti devono sottoscrivere un patto, sapere di compenetrarsi nella sfera dell’altro. Che non c’è differenza tra il guidare ed essere distratti da cartelloni pubblicitari e l’accedere al proprio profilo social. Che la domanda giusta, parlando di comunicazione digitale, potrebbe essere non tanto sulla morte o sopravvivenza di questo o quel social, della bolla delle newsletter. In fondo, queste sono speculazioni di mercato. La domanda giusta potrebbe essere: perché dovrei aprirmi un profilo social e non, invece, raccogliere un po’ di pensieri su una newsletter e poi, quando sono pronta, condividere tutto con una cerchia ristretta di persone? Le newsletter in fondo potranno mimare le dinamiche dei social network, eppure, guadagni o meno, si stanno sempre più imponendo come l’antidoto alla creator economy: un bell’appuntamento, regolare o spontaneo, al bar del paese, con gli amici di una volta, con i quali aggiornarsi, ragionare in serietà, fare delle belle chiacchiere e, una volta arricchiti, continuare ognuno per la propria strada.

     

    Immagine da Unsplash di Mathyas Kurmann

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