Innovazione e crisi culturale tra presente e futuro

Visioni apocalittiche del presente e perciò del futuro non sono mancate anche nei più prosperi anni della società dei consumi, e riguardavano, da una parte, l’atto stesso di consumare considerato come bisogno indotto nelle masse a partire da una manipolazione che assoggetta culturalmente ai potenti (Marcuse 1967; Baudrillard 1976 e 2012), dall’altra parte un fallimento istituzionale del sistema, una generale crisi di legittimazione culturale del welfare state e delle sue politiche incapaci di salvare il tardo capitalismo dalle sue contraddizioni (Habermas 1975).

A tali posizioni, non a caso entrambe ideologicamente inseribili nella ancora forte tradizione marxista, si aggiunge, negli ultimi decenni del secolo scorso, una presa di coscienza diffusa e anche drammatica dei rischi del nostro modello di sviluppo (Beck 2000a), le cui involuzioni economicamente e ecologicamente poco sostenibili mettono sotto accusa la narrazione trionfalista della modernità.

L’innovazione non è più figlia di una visione imprenditoriale illuminata. La vera innovazione è riflessiva

La «modernizzazione riflessiva» della società comporta la consapevolezza di un comune incerto destino, non più confortato da quadri scientifici e politici dati per scontati e da un percorso biografico socialmente modellato (Beck e altri 1994).

Quest’articolata denuncia si intreccia con la critica postmodernista, che, come si sa, è soprattutto un approccio culturale, e sembra capovolgere tutte le certezze dell’Occidente, la fede nella ragione, nella scienza, nella tecnica, nel progresso (Lyotard 1981). Perciò, paradossalmente, la postmodernità risulta caratterizzata insieme da una diffusa abbondanza e dal riconoscimento della precarietà di tale abbondanza.

L’innovazione non è più figlia di una visione imprenditoriale illuminata (Schumpeter 2001) o di una moda estetizzante, di una moderna ideologia rivoluzionaria o di uno scetticismo radicale di stampo postmodernista. La vera innovazione è riflessiva (Archer 2007; Bovone 2010), origina dal ragionevole dubbio sulle nostre condizioni di vita e le chance che concretamente si prospettano per disegnare la nostra biografia (Giddens 1991); fa leva sulla immaginazione e sperimentazione di nuovi modi di lavorare, di consumare e di cercare di intervenire nella società; con l’avvio del web 2.0 nei primi anni del nuovo millennio, non può che tener conto della nuova abitudine alla condivisione. […]

Le nuove tecnologie riportano alla ribalta una categoria desueta, la comunità intesa come «network di legami interpersonali che provvedono socievolezza, supporto, informazione, senso di appartenenza e identità sociale», trasformando il cyberspace in cyberplace (Wellman 2002, pp. 28-9). La società individualizzata ritrova i suoi legami nel web, il networked belonging è il suo tratto culturale più caratterizzante, che delinea la vita quotidiana e anche i possibili futuri assetti politici (Cardoso – Jacobetty 2012). […]

Come già notava Habermas (1975), le contraddizioni del capitalismo contemporaneo non acuiscono la polarizzazione delle classi sociali ma mettono in pericolo lo stesso sistema di produzione capitalistico creando una fondamentale destabilizzazione (Thompson 2012). Nel momento in cui la crisi economica sottolinea tali contraddizioni, chi ne prende coscienza non può accontentarsi di politiche di breve respiro, per mettere una pezza alla situazione, ma deve essere pronto a cambiare totalmente prospettiva. […]

Come si vede, diversi studiosi chiedono che l’economia sia orientata da nuovi valori, ma il convivialismo pone specificamente l’accento sul decentramento decisionale, e il soggetto del cambiamento non può allora essere la sola classe politica né una nuova organizzazione economica e nemmeno la nota «economia informale», ma si deve cercare all’interno dell’intera «società vernacolare» (Latouche 2004), con il suo mix di attività mai orientate in modo puramente economico.

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Il convivialismo è definito da Alain Caillé (2015, pp. 22-3) «un’ideologia politica postcrescita» che aspira a «un’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizza la relazione e la cooperazione, e permette di opporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura».

È questa una posizione spartiacque, che risente della forte impronta critica ereditata dal convivialismo anni settanta di Ivan Illich (1974) ma che, oltre a sostenere la decrescita, pazientemente (sociologicamente?) si dedica alla rassegna di esperienze conviviali già in atto e a una prima classificazione dell’ampia casistica: il settore dell’economia sociale e solidale; il settore dell’open source, dalle licenze dei creative commons ai più vari contenuti online condivisi; il settore dell’economia della condivisione in cui l’uso temporaneo dei beni si sostituisce alla proprietà. […]

In questa lotta tra il bene e il male dell’economia contemporanea, si cominciano a delineare due popolazioni che possono gestire la crisi, due élites relativamente giovani e influenti perché ben collegate, networked nella network society.

Cardoso e Jacobetty (2012) ce le mostrano una rivolta al passato, alla conservazione del privilegio del capitale finanziario, e guidata da una cultura del networked self-interest, l’altra che spinge per il cambiamento e nuovi valori, per un networked belonging che prevede un modo aperto e inclusivo di aggregare gli interessi e condividere le decisioni. […]

Oltre che di convivialismo, di condivisione e di appartenenza, gli scenari positivi del futuro ci parlano di economia creativa, ricollegandosi al noto concetto di industria creativa: se però quest’ultima una volta era il prodotto di economia e cultura, adesso è il prodotto di economia, cultura e tecnologia (Hartley e altri 2014); se una volta era gestita dagli intermediari culturali, ora la parola d’ordine è «disintermediazione», appartiene virtualmente alle microproduzioni di tutti.

Il termine cultura in questo caso non ha certo a che fare col passato, ma con una conoscenza condivisa che produce innovazione; e questa è da ricercare non tra pochi creativi e nei pochi paesi che se la possono permettere, ma ovunque.

Risultano comunque riduttive tutte le connessioni tra creatività e concetti di tipo economico, da economia, appunto, a industria a classe.

Naturalmente c’è, in tutto quanto stiamo prendendo in considerazione, un che di produttivo, di economia intesa in senso «sostanziale», secondo la lezione di Karl Polanyi (1983, p. 56), cioè come «processo interattivo istituzionalizzato che serve alla soddisfazione dei bisogni materiali», ma il discorso economico diventa facilmente economicistico (e di questo si lamentano, abbiamo visto, anche i teorici della decrescita) quando fa implicitamente riferimento all’unica logica dello scambio nell’economia di mercato e a un regime di scarsità, e si dimenticano altri modi di approvvigionarsi, di cui ci parlano gli antropologi e oggi ritornati alla ribalta, come la reciprocità. e poi, di nuovo, come si notava prima a proposito dei valori postmaterialisti, in un regime di non scarsità è difficile pensare in prima istanza o solo ai bisogni materiali, specialmente parlando di condivisione e creatività. […]

Del resto, anche concentrarsi sulle industrie creative confina la creatività entro strutture economiche formalizzate, escludendo attività informali o non-profit o solo parzialmente orientate al mercato, come la crescente produzione degli oggetti tramite stampanti 3D, per esempio, tipica dei makers. per loro, la creatività è una scelta di vita, etica e politica (Gauntlett 2013), la decisione di realizzarsi in un fare gratificante più che nei suoi risultati: «la creatività quotidiana si riferisce a un processo che mette in relazione almeno una mente umana attiva con il mondo materiale o digitale, nell’attività di fare qualcosa che è nuovo in quel contesto, ed è un processo che evoca una sensazione di gioia» (ibid., p. 107).

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I makers sembrano fare risuscitare quella cultura dell’artigianalità che non contrappone la mano al pensiero o l’individuo alla comunità e che stiamo ritrovando in molte attività contemporanee (Sennett 2008). Qualificante, in questo caso, è, oltre alla tipica già menzionata posizione di prosumer (chi produce per sé e per pochi, in piccoli numeri, on demand, condividendo spazi e mac- chine con amici ecc.), la motivazione espressiva collegata a una scelta autonoma e creativa. […]

Piuttosto che da una «terza rivoluzione industriale», il nuovo scenario che vogliamo ritrarre sembra meglio definito dai collaborative/creative commons (Rifkin 2014), un mix variabile di creatività e condivisione, cui talvolta corrisponde sia la riscoperta della comunità come capitale sociale di riferimento, solo allargata e dislocata nella rete, sia la permeabilità di produzione e consumo.

Non solo ai makers si applica oggi infatti la categoria di prosumers che Toffler (1980) aveva coniato all’inizio degli anni ottanta. Si è fatta strada finalmente, e solo per via delle nuove tecnologie, la fondamentale presa di coscienza del fatto che siamo (sempre stati) tutti prosumers (Ritzer 2013), anche se ovviamente con diversi coinvolgimenti sui due estremi della creazione del valore economico e soprattutto con diversa capacità riflessiva, diversa consapevolezza del nuovo aggiuntivo valore che le pratiche di prosumerismo portano con sé.

Perché, come nota Ritzer, il prosumerismo contemporaneo promette di spazzar via il fantasma dell’alienazione non solo dal lavoro ma anche dal consumo, cioè lascia democraticamente spazio agli attori e alle loro scelte personali e sociali.

Infine, si nota da più parti che la vera condivisione implica inclusione. La crisi impone di aguzzare l’ingegno e, trattandosi di una crisi globale, suggerisce strategie transculturali, invita per esempio a confrontarsi con quella microimprenditorialità, tipica dei paesi emergenti, che si distingue per la sua capacità di «cocreare valore insieme ai consumatori e ai partner, attraverso una catena di valore», di innovare la produzione con mezzi frugali rendendola più accessibile e allargando il mercato anche a chi ne era escluso, a chi sta ai margini.

Ormai è chiaro, infatti, che la crisi economica globale mette sotto la lente d’ingrandimento una «crisi culturale», la «non sostenibilità di certi valori come principi guida del comportamento umano». È per questo che le pratiche alternative devono venire studiate per cercare di individuare i valori che incarnano e capire se ci sembrano convincenti.