La questione giovanile oggi è fortemente caratterizzata da un ritardo, che sembra diventato strutturale, dei giovani nell’ingresso del mondo del lavoro e della società. La sindrome del ritardo appare sempre più drammatica e non è esagerato affermare che le due ultime generazioni italiane siano state bruciate da questo immobilismo. Nel Rapporto sui giovani 2016 quasi il 90% degli interpellati definisce le proprie opportunità lavorative scarse o limitate. Questo dato appare più significativo nelle classe sociali più basse e, considerata la nostra minima mobilità sociale, il dato non stupisce. Questi dati, se affiancati alla fiducia che i giovani mostrano verso le istituzioni – in una scala da 1 a 10 nessuna raggiunge la sufficienza, delineano un quadro davvero preoccupante.
Tutto questo porta da un lato, a bruciare vite e a dissipare competenze e intelligenze, dall’altro diminuiscono progressivamente quelle energie – tra l’altro sempre meno in termini quantitativi – che possono portare innovazione nella società e nelle comunità. I giovani da potenziale di cambiamento diventano un “peso” anche da punto di vista sociale ed economico, questo soprattutto nelle narrazioni degli adulti che evidenziano elementi negativi legati alla devianza oppure alla dipendenza dalla famiglia intesa come incapacità all’azione e al sacrificio (si pensi alla ormai famosa definizione di bamboccioni). In questa direzione possiamo pensare anche all’utilizzo (italiano ed europeo) della categoria dei neet, che se da una parte ha posto l’attenzione sulle difficoltà di uno specifico gruppo sociale, dall’altro ha permesso di oscurare un’incapacità, direi congenita, del nostro Paese nell’offrire occasioni lavorative e di sviluppo ai cittadini più giovani.
Lavorando con i giovani appare subito chiaro che la situazione è molto differente da quella descritta in queste retoriche. Sono molti i ragazzi e le ragazze attivi all’interno della società: volontariato, politica, tentativi imprenditoriali. Certo, le modalità sono decisamente diverse rispetto a 10-15 anni fa. Persone e gruppi sono molto più mobili e mutabili. Tuttavia le prospettive che i ragazzi e le ragazze sviluppano sono molte e interessanti, ad esempio l’ultimo lavoro di Stefano Laffi ci regala uno spaccato di una generazione che ha ancora voglia di sognare, di essere protagonista e di provare a cambiare in meglio le nostre comunità.
Tutto questo responsabilizza da un lato gli youth worker e dall’altro le istituzioni nell’essere attenti a porre le precondizioni per cui i giovani possano essere davvero protagonisti e allo stesso tempo utilizzare metodologie di lavoro che non ne tradiscano l’aspettativa di voler esser attori del cambiamento. In questo tentativo è dunque decisivo non cadere in una narrazione ideologica dei giovani, in visioni eccessivamente edulcorate o nell’idolatria degli strumenti. Ci riferiamo nello specifico ad alcune retoriche che in questi anni hanno visto al centro del dibattito sulle politiche giovanili parole e concetti come start-up, coworking, makerspace, ecc. Siamo convinti che questi possano certo essere strumenti interessanti e integrabili all’interno di strategie di sviluppo, ma riteniamo allo stesso tempo centrale la definizione degli obiettivi e la misurazione dei risultati in modo da evitare di cadere in azioni prettamente simboliche che, nonostante l’ampia visibilità, non portano di fatto a sviluppi territoriali di nessun tipo.
Perché una piattaforma abilitante
La nostra proposta operativa utilizza il dispositivo delle piattaforme abilitanti che, recuperando un precedente contributo del nostro gruppo di lavoro, possiamo così definire:
Sono l’esito di progettazioni ex novo o di aperture/trasformazioni di un qualcosa di dato, ma in entrambi i casi chi compie questo intervento, pur non rinunciando alla responsabilità, non si illude rispetto alla possibilità di governare completamente processi ed esiti. È proprio in quegli spazi che vengono lasciati aperti, indeterminati, da coprogettare che queste piattaforme rilevano la propria (continuamente rinnovabile) capacità di abilitazione e innovazione.
Costituiscono/contengono uno o più touchpoint (fisici o digitali) che sono le porte di ingresso, permettono al cittadino di entrare in relazione, essere partecipe di soluzioni sociali, sviluppare abilità e competenze sulla base di problemi e passioni, promuovere attività innovative e aperte alle esigenze del momento. Favoriscono la nascita di reti di peer che interagiscono tra loro, creano e scambiano valore. In questi luoghi si costruiscono relazioni, si collabora, si co-genera. Nella rete fra pari non c’è indistinzione e indifferenza di ruoli, compiti, responsabilità, ma è il potere ciò che viene effettivamente messo in gioco. Questi sono anche gli elementi che permettono, da un lato, la costruzione di nuovi mercati, dall’altro, invece, la crescita di relazione e di fiducia tra le persone e all’interno delle comunità di riferimento. In questo senso possiamo evidenziare un effetto secondario delle esperienze che si basano sul modello delle piattaforme abilitanti ovvero la crescita di fiducia e di resilienza all’interno della comunità.
Il modello di funzionamento è basato su dispositivi che hanno come elemento centrale quello di liberare, ibridare e potenziare le conoscenze, le competenze e le capacità di azione delle persone. Sono dispositivi che promuovono processi divergenti in grado di produrre nuove opportunità e nuove occasioni a partire dalle azioni realizzate. In questa direzione gli elementi che crediamo possono contribuire a definire i dispositivi piattaforme abilitanti sono:
- Raccogliere i bisogni individuali e connetterli all’interno di una piattaforma digitale e/o sociale che permetta di identificare/costruire nuove soluzioni sostenibili socialmente;
- Le soluzioni che si producono pretendono sempre attività di carattere abilitante in modo da sviluppare dei processi di empowerment in prima battuta individuale e successivamente di gruppo e/o comunitario;
- Sviluppare delle strategie di risposta e/di fronteggiamento delle problematiche che prevedano elementi di co-produzione da parte delle micro-comunità
- Costruire dei percorsi di risposta che prevedano un investimento in grado di generare nuove esperienze e micro-attività che producano società.
L’utilizzo di questi dispositivi e modalità di lavoro ha permesso il raggiungimento di alcuni importanti risultati che possiamo così sintetizzare:
Ri-Generare le istituzioni
Le istituzioni pubbliche, in primo luogo le Amministrazioni Comunali, vengono percepite come soggetti con i quali è possibile interagire e con le quali poter provare a costruire delle proposte utili per se stessi, i propri coetanei e le proprie comunità. In quest’ottica le istituzioni diventano delle opportunità e dei generatori di possibilità. Cambia l’atteggiamento verso la cosa pubblica. All’interno del progetto Link on Labour, ad esempio, la possibilità di partecipare a una call for idea ha permesso di liberare le energie di oltre 100 ragazzi e ragazze che hanno messo a disposizione le proprie idee a favore della comunità. Questo tipo di processi sembra faccia crescere la fiducia verso le istituzioni e verso la possibilità del cambiamento. La fiducia porta alla messa in discussione dei rapporti classici di potere. Le istituzioni non diventano più esclusivamente “quelli che decidono”, negli immaginari spesso castrano, ma soggetti in grado di abilitare energie e risorse, con i quali è possibile entrare in dialogo senza sentirsi minacciati. In quest’ottica appare centrale il concetto di capacitazione come “alimentare lo sviluppo di opportunità per le persone di ampliare le proprie possibilità e di ridurre, di conseguenza, i livelli di disuguaglianza personali e territoriali”.
Co-produzione di opportunità
Il primo risultato pone le basi per la partecipazione, per il prendere parte, che è in qualche modo l’opposto della fuga all’estero o dell’exit quale obiettivo ultimo delle start up che oggi vanno tanto di moda. I giovani diventano co-produttori di politiche e di attività. Questo elemento nella nostra proposta operativa è fortemente strategico in quanto comporta una necessaria revisione e ridefinizione dei servizi (siano essi centri di aggregazione giovanile, biblioteche, makerspace, ecc) e rende tutti i soggetti responsabili di questo processo di ridefinizione. Giovani, operatori, istituzioni partecipano quindi a una costruzione collettiva e alla produzione di valore condiviso, processi che sono sempre più il paradigma di riferimento della nostra società. La co-produzione porta, da un lato, alla sperimentazione dei giovani, dall’altro all’innovazione del nostro sistema sociale. In quest’ottica crediamo che ci siano dei buoni punti di riferimento nelle prassi della co-progettazione, della ricerca-azione e in approcci che re-interpretano modalità di coinvolgimento della comunità come il service design. Si insiste sul rapporto tra co-produzione ed empatia e sulla capacità di costruire forti relazione con il fruitore. Appare, però, fondamentale inserire questi approcci all’interno di processi territoriali che abbiano un senso condiviso e soprattutto non siano elementi estemporanei e legati a mode transitorie, ma siano ancorati a processi di lavoro reali e continui. Questa attenzione è decisiva per evitare strumentalizzazioni che nel tempo potrebbero provocare disaffezione.
Eco-sistemi sociali
Si costruiscono così degli ecosistemi che vedono la collaborazione tra giovani, istituzioni, terzo settore e mondo for profit. Si sviluppano network in grado di aumentare le opportunità e di facilitare la realizzazione di una catena di valore che vada da quello sociale attraverso un valore condiviso. Proprio per questo la suddetta tipologia di progetti interroga in maniera significativa le capacità di innovazione del terzo settore e del settore profit. In questo senso si tratta di provare a costruire “un approccio che allinea, in termini di rilevanza, le scelte ecosistemiche alle scelte strategiche”. In questa direzione è facile comprendere come i giovani possano diventare motore ed elemento di sviluppo del territorio e delle organizzazioni che animano in maniera attiva le comunità. Questo approccio potrebbe aprire anche delle sperimentazioni di open innovation. In questa direzione siamo convinti che la sfida reale non sia costruire strategie inclusive per i giovani, ma porre essi stessi al centro di un processo di innovazione che permetta di sviluppare le potenzialità del territorio e produrre nuove risposte alle problematiche delle persone.
Network Europeo
La costruzione di ecosistemi territoriali, la capacità di coproduzioni di opportunità a livello locale non doveno portare a pensarsi come sistemi isolati, autoreferenziali, rischio a cui le politiche giovanili, in quanto spesso giocate a un livello simbolico, si espongono in continuazione. Il modo migliore per evitarlo è costruire dei processi inclusivi e aperti al confronto soprattutto attraverso la partecipazione dei giovani a network differenti da quelli territoriali. Proprio per questo siamo convinti che la dimensione della mobilità europea possa rappresentare una delle principali occasioni da mettere in campo per garantire lo sviluppo delle competenze nei giovani.
Cosa ci attende
Provare a connettere bisogni all’interno di luoghi che diventano piattaforme di abilitazione può portare alla costruzione di soluzioni sociali, condivise e coesive per i gruppi sia a livello generazionale sia a livello locale. Si possono così costituire e sviluppare dei gruppi di interesse e di azione in grado di promuovere anche un dibattito pubblico svolgendo una vera e propria esperienza di voice su temi diversi: green e blue economy, diritti, cultura e territorio, ecc. Questo processo consente inoltre la connessione delle esperienze (mobilità internazionale, appartenenze a subculture, ecc) la messa a sistema di conoscenze e competenze anche in un’ottica di rafforzamento e sviluppo di esse. Esso diventa infine una possibile modalità di accesso al mondo del lavoro e alla partecipazione sociale.
I percorsi dei gruppi sono anche l’esito di percorsi individuali che si possono inscrivere nei processi di empowerment e devono sempre più avere la finalità, da un lato, di impattare le comunità di riferimento e di sviluppare capitale sociale in modo da contenere le strategie di exit dei giovani e dall’altro, invece, di provare a superare la sindrome del ritardo nominata inizialmente.
Non si ignora certo che le soluzioni locali possano risultare frammentate e parziali, però in assenza di una policy nazionale forte e condivisa appaiono l’unica reale possibilità di azione. Queste modalità di lavoro ovviamente avranno un forte impatto innovativo sulle comunità soprattutto se riusciranno a rappresentare nuove problematiche e a coinvolgere i giovani nella coproduzione delle soluzioni. È chiaro che la rappresentanza di nuovi interessi e problematiche permette di generare un maggior coinvolgimento in grado di co-produrre nuove soluzioni. Attorno a queste nuove soluzioni si costruiscono micro-comunità, si strutturano pezzi di società, nuove relazioni e ipotesi alternative di futuro. Tutto questo, a nostro avviso, permette di lavorare su percorsi – individuali, di gruppo, comunitari – che apparentemente nella cultura attuale appaiono sconnessi. I risultati saranno tanto più significativi e incisivi quanto più prodotti attraverso un ecosistema composto da Amministrazioni Pubbliche, Terzo Settore e Soggetti for profit in un’ottica di social investment alliance.
Pensiamo che queste dimensioni diventeranno sempre più centrali nel lavoro dei youth work e porteranno – in realtà sta già avvenendo – a una nuova interpretazione dello youth worker quale un manager di rete che sviluppa piattaforme abilitanti capaci di costruire nuove architetture di interconnessioni e di far lievitare le occasioni.
Contributors: Giuseppe Imbrogno (ACLI Lombardia), Pierpaolo Forello (Il Torpedone Cooperativa Sociale Onlus).