I fallimenti dei media digitali rappresentano una sorta di grimaldello teorico per scardinare le interpretazioni semplicistiche dei processi di invenzione, adozione e utilizzo dei mezzi di comunicazione, mettendo in luce come tali processi non siano destinati al successo in maniera lineare e “naturale”. Un’analisi attenta dei fallimenti ci mostra, infatti, che la vita sociale dei media digitali è ben più simile a un sentiero tortuoso e accidentato, pieno di bivi, deviazioni e anche vicoli ciechi, dove il punto di arrivo – le tecnologie che poi si diffondono e diventano di uso comune – è un’eccezione più che la regola. E anche nel caso delle tecnologie che “ce l’hanno fatta”, il successo finale offusca spesso le prove e gli errori precedenti, le complessità e le interpretazioni sbagliate che caratterizzano praticamente ogni percorso tecnologico.
Tre ragioni per guardare al fallimento
Ma perché, nello specifico, dovremmo studiare i fallimenti digitali? Proponiamo in questa sede tre ragioni principali. In primo luogo, il flop può essere visto come un insegnamento. Guardare ai fallimenti ci può infatti far comprendere che i media digitali, come li usiamo e li percepiamo oggi, non sono oggetti statici: si sono già trasformati più volte in passato e cambieranno ancora in futuro – da successi potranno insomma trasformarsi in fallimenti e viceversa. Questo dovrebbe insegnarci che le tecnologie della comunicazione sono spesso instabili, in trasformazione, a rischio estinzione o ri-emersione. Pensiamo ai cd-rom, oggi un dinosauro della comunicazione digitale, ma così popolari e simbolici negli anni Novanta da incarnare in un solo oggetto molte delle possibilità che il software digitale sembrava fornire. Al tempo stesso, possiamo domandarci perché la telefonia senza fili di Guglielmo Marconi, vecchia di più di un secolo, si è trasformata in uno dei più grandi successi della storia dei media (il telefono mobile) solo a ottanta o novant’anni dalla sua scoperta. La risposta è che i media sono instabili e, come detto, possono sparire e riemergere. E questo può insegnarcelo solo uno sguardo storico e “simmetrico”, che pone cioè sullo stesso piano l’analisi dei successi e quella dei fallimenti.
La seconda ragione per cui studiare i fallimenti può rivelarsi utile a capire meglio i media contemporanei è riassunta nell’espressione: fallimento come bilanciamento. Come detto, da vari anni tutto quello che ruota attorno al mondo del digitale – e in primo luogo media e tecnologie della comunicazione – è saldamente associato a una retorica di successo, vittoria e affermazione. Il digitale è insomma circondato da retoriche che celebrano l’adozione dell’ultima tecnologia disponibile sul mercato come una “rivoluzione” e una soluzione a problemi personali, politici o aziendali. E dunque volgere la nostra attenzione ai media che hanno fallito rappresenta un modo per bilanciare le mitologie che hanno circondato – e ancora circondano – la digitalizzazione, mettendo in campo uno sguardo più critico e analitico. Grazie a questo approccio si può “depurare” il discorso pubblico attorno ai media digitali dalle ideologie del “nuovismo mediale”, dalle narrazioni che riconoscono nel digitale un sacro graal dai poteri mistici, dalle tendenze a innalzare i media digitali a mitologie positive e vincenti.
Al contrario, il digitale ha vari “lati oscuri” che stanno emergendo in maniera più chiara in questi anni e che uno sguardo attento ai flop aiuta a comprendere. Si pensi al progressivo fallimento di alcune delle idee politiche e sociali che avevano connaturato la nascita della rete internet, come la sua capacità di democratizzazione dovuta alla presunta orizzontalità delle comunicazioni, la possibilità di esprimere nella rete il sé più autentico, o l’impossibilità dei governi di controllare (e soprattutto censurare) i contenuti web.
Il fallimento di queste idee socio-politiche e l’emersione di visioni opposte (anti-democratiche, verticistiche, inautentiche e censorie) ci fa capire quanto le narrazioni sul digitale siano state figlie di un tempo storico preciso, e quanto queste idee non fossero dipendenti da caratteri intrinseci delle tecnologie. Bilanciamento attraverso il fallimento vuol quindi dire affiancare narrazioni contrastanti tra loro, comprendere come le tecnologie digitali di comunicazione possano essere viste al di là della dicotomia positivo/negativo o apocalittico/integrato. Insomma, il fallimento aiuta a bilanciare, e a complicare, due poli interpretativi dei media digitali apparentemente opposti.
Infine, uno sguardo attento al fallimento e al flop può aiutare a vedere la possibilità di sviluppare idee alternative rispetto a quelle che si sono cristallizzate nel tempo. I fallimenti sono spesso valutati con il senno di poi e, di solito, si sostiene che siano il prodotto inevitabile di miopie politiche e imprenditoriali e talvolta di scarsa adattabilità degli utenti. Tutto questo è sbagliato e, ancora una volta, semplicistico.
Se ci poniamo al tempo in cui il fallimento si stava realizzando, quando quindi non era ancora compiuto, possiamo ricostruire una serie di possibilità, di scelte aperte, di idee che si sarebbe potuto intraprendere e che sono state invece scartate. Molto spesso quelle che si riveleranno come fallimentari sono state ottime idee, perfettamente plausibili nella società della propria epoca, parte di una visione addirittura mainstream sul futuro dei media. Era mainstream negli anni Settanta l’idea che i computer fossero grandi strumenti, costosissimi e nelle mani di apparati militari e burocratici.
Per questa ragione la ritrosia delle grandi compagnie dei mainframe nel produrre personal computer non deve apparire come un errore di valutazione, ma semplicemente come la persistenza di un modo di vedere il computer ben radicato e, all’epoca, maggioritario. Altrettanto mainstream era l’idea negli anni Ottanta e Novanta che, prima o poi, tutti avremmo usato un solo dispositivo per accedere ai vari media: era anzi proprio questo il principale corollario della convergenza dei media. Un dispositivo con cui guardare la tv, ascoltare la radio, telefonare, scambiarsi informazioni, navigare in rete (anzi no, navigare in rete è una di quelle attività che allora solo poche persone avevano previsto).
E non si dica che questa idea si è realizzata: è vero che con lo smartphone oggi si possono compiere tutte le attività sopra elencate, ma è altrettanto vero che usiamo sempre più dispositivi e strumenti (computer, tablet, smart tv) e che, semmai, tutti questi sono diventati convergenti e multi-funzione. Insomma, il fallimento rappresenta un’idea abortita, un medium scomparso, una perdita di denaro. Ma è anche e soprattutto il declino di una visione (di una possibilità, appunto) del futuro, di un nuovo modo di vedere persone, società e abitudini. Una visione/possibilità che non si è realizzata nel passato ma che potrebbe sempre ripresentarsi in futuro.
Fallimento in pratica
Per dare sostanza a queste riflessioni, possiamo analizzare un fallimento proveniente dall’universo della televisione digitale: quello del sistema Dvb-h (acronimo di Digital Video Broadcasting – Handheld), ossia la prima versione di televisione digitale mobile. Il Dvb-h fu adottato in Italia per la prima volta nel 2006 dalla H3G e permetteva di ricevere direttamente sul telefonino un segnale digitale terrestre, fatto però circolare con la modalità a pacchetti tipica di internet.
Si riteneva, in quegli anni, che gli utenti della telefonia mobile (in costante crescita nel Paese) avrebbero accolto favorevolmente la possibilità di fruire della programmazione tv non solo sui tradizionali televisori domestici, ma in mobilità. Sembrava logico e lineare far convergere due tra le passioni mediali più travolgenti degli italiani: la tv e il telefonino. Non a caso, il quotidiano la Repubblica (come altri giornali) nel 2005 titolava: “Dvb-h, la tv arriva sul cellulare. Ecco come cambierà la nostra vita”. Allo stesso modo, nel 2008 l’Unione Europea prevedeva che gli spettatori della tv mobile nel mondo sarebbero diventati mezzo miliardo entro pochi anni.
Eppure, come sappiamo, la cross-fertilizzazione tra internet e televisione digitale è andata in tutt’altra direzione: quella dei social network, dello streaming web e di Netflix. E così, già nel 2011, il sistema Dvb-h è stato abbandonato per lo scarso interesse e utilizzo dell’utenza e dichiarato morto da tutti gli operatori, tanto che le frequenze di trasmissione relative sono state riallocate. A posteriori, le ragioni del fallimento del sistema sono (o possono sembrare) molteplici ed evidenti. L’impostazione del servizio incarnava ancora una distinzione netta tra la “televisione” (i programmi erano trasmessi in una classica logica di palinsesto) e “internet” (con un accesso on-demand e cross-piattaforma dei contenuti).
Inoltre, allora, non erano ancora in commercio dispositivi attraenti, con schermo sufficientemente ampio e batterie in grado di reggere il consumo audiovisivo. Infine, soprattutto, gli utilizzatori di cellulari si rivelarono poco interessati a “guardare la tv” in movimento. Se a posteriori il fallimento può dunque sembrarci scontato, resta tuttavia da capire perché tutti gli attori in gioco (aziende di telefonia mobile, broadcaster, istituzioni, esperti di media) concordarono nel riconoscere nel Dvb-h la soluzione per la televisione del futuro. Evidentemente non è così facile anticipare il fallimento e anche le aziende e gli attori più coinvolti talvolta hanno un’idea di futuro molto diversa da quella che si realizza.
Il Dvb-h costituisce un classico esempio delle tre dimensioni ricordate prima. In primo luogo, questo caso è un fallimento-insegnamento che ci mostra come sia complicato fare previsioni sul futuro dei media, anche prossimo, e come sia fondamentale fare tesoro dei fallimenti e dei flop passati, così da essere più attrezzati per analizzare e costruire scenari più realistici per le situazioni presenti. In secondo luogo, la storia è un fallimento-bilanciamento perché fa da contrappeso alle decine di storie di successo che circolano attorno alla televisione digitale.
Si pensi al digitale terrestre e a come esso sia visto come un successo per l’affermazione di un nuovo standard, un successo di politiche comunitarie (l’Unione Europea ha giocato un ruolo determinante), un successo commerciale per i venditori di apparecchi tv, un successo per gli utenti, che hanno a disposizione più canali gratuiti di quanti ne abbiano mai avuti. Infine, il Dvb-h ci mostra un fallimento-possibilità, successivamente non realizzato, un’idea che sembrava avere tutte le caratteristiche per imporsi ma non ce la fece.
La potenzialità di guardare contenuti audiovisivi in movimento non è certo morta con il Dvb-h, ma anzi è riemersa di lì a pochi anni, sempre perché le idee e i media sono flessibili e si adattano nel tempo. Gli stessi consumatori che rifiutarono la tv mobile, infatti, sono oggi incollati agli schermi degli smartphone per guardare e ascoltare brevi video, soprattutto se condivisi da amici tramite i social network o YouTube, o serie tv attraverso Netflix, all’ora e nella sequenza a essi più congeniale.
Ecco dunque un esempio del perché i fallimenti costituiscono un modo di guardare ai media capace di aprire nuovi filoni d’indagine, di rivalutare idee e approcci abbandonati, di ripensare la stessa dicotomia successo/fallimento. Che non sia forse proprio nei “fallimenti di successo” una delle strade per presagire e intravedere il futuro incerto dei media digitali di domani?
Immagine di copertina: ph. Dean Maddocks da Unsplash