Facebook, l’algoritmo e lo tsunami

Pensiamo a quando, nella storia dell’uomo, decisioni di pochi hanno avuto conseguenze immediate sulla vita quotidiana di tutti o quasi. La firma dell’Editto di Costantino a Milano, nel 313, che garantì la liberta religiosa da un confine all’altro dell’impero romano, fu forse uno di questi momenti. Le scelte che portarono alla rivoluzione russa o alle due guerre mondiali possono essere legittimamente annoverate all’elenco. Le conseguenze dell’escalation nucleare tra Stati Uniti e URSS furono anch’esse planetarie, quotidiane, e guidate da pochi. Sembrerà strano ma oggi stiamo assistendo a qualcosa di simile, un evento apparentemente futile ma senza precedenti in quanto a capillarità dei suoi (ipotetici) effetti: il cambiamento dell’algoritmo di Facebook.

L’undici di gennaio Zuckerberg ha annunciato la variazione imminente, l’ultima e più radicale di una lunga serie, già testata selettivamente questo autunno: sarà data priorità nel news feed a post di amici e familiari, a discapito delle pagine (non paganti). Gli utenti coinvolti saranno oltre due miliardi – una cifra di poco superiore alla popolazione del mondo stimata allo scoppio della rivoluzione d’ottobre e leggermente inferiore a quella del 1950. A cambiare sarà la costruzione socio-tecnica delle realtà che navigheremo sul tram ogni mattina e nel letto ogni sera. Per molti forse le variazioni saranno impercettibili, insignificanti. Tuttavia, se ci osserviamo per un istante, impaludati come siamo in un romanzo postumo di Asimov dove è una macchina a gestire il nostro principale palcoscenico sociale come un teatro di marionette, è difficile rimanere indifferenti. Aldilà di quali saranno le effettive conseguenze del cambiamento nel codice, vale la pena di riflettere già ora sui discorsi che lo circondano.

Già, perchè l’algoritmo non è solo una ricetta computazionale in grado di trasformare informazioni, ma anche e soprattutto un oggetto culturale, uno spettro che gravita nell’immaginario contemporaneo (come ci ricorda David Beer). I commenti a caldo seguiti all’annuncio di Zuckerberg tratteggiano l’algoritmo del news feed come una specie di divinità greca un po’ lunatica, che ha deciso così, di punto in bianco, di chiudere i rubinetti social. Addetti ai lavori nell’ambito della comunicazione digitale parlano dell’avvenimento come di un nuovo uragano o terremoto – una catastrofe naturale inevitabile e imprevedibile, a cui si può solo adattare, e sperare. I toni degli articoli che consigliano professionisti e semplici lettori sul da farsi sono quelli di un decalogo per sopravvivere allo tsunami. Il dato più interessante è che lo tsunami in questione non è il prodotto di Nettuno, di un imperatore, e nemmeno di un leviatiano hobbesiano, ma di una corporation con sede a Menlo Park, California.

Il nuovo algoritmo privilegerà quelle che Zuckeberg chiama “meaningful interactions”, interazioni significative. Per rimettere famiglia e amici al centro dell’esperienza Facebook, verrà penalizzato il “public content”, ossia i post di aziende, brand e media.

Lo scopo dichiarato pare nobile: favorire un uso “sano” e attivo della piattaforma, capace di avvicinare le persone (“bring people closer together”) e non soltanto di intontirle con una fruizione passiva e “quantitativa” del medium. Il commento a riguardo da parte di Rob Horning (giornalista per New Inquiry e Real Life) è spietato, e può essere riassunto come segue: dal punto di vista di Facebook, un’interazione è “significativa” solo se può essere misurata e quantificata dalle sue metriche, ed è possibile dunque estrarne dati e valore; l’algoritmo, operativizzando questa nozione di significatività nella selezione di contenuti proposti in tempo reale, favorisce una “depoliticizzazione su larga scala” dell’opinione pubblica. Considerazioni simili le fa anche Salvatore Iaconesi, parlando più in generale di piattaforme e gerrymandering digitale.

Dunque la quotidianità di miliardi di persone è oggi in balia delle decisioni a porte chiuse di un manipolo di ingegneri informatici? Almeno fosse così semplice. Come per l’Editto di Costantino, la rivoluzione sovietica, i conflitti mondiali e la guerra fredda, anche stavolta si rischia di cadere nell’errore di chi appiattisce meccanicisticamente gli eventi storici sulla volontà individuale di decisori sospesi nel vuoto – un vuoto che alcuni analisti talora riempiono malamente, soffermandosi su ricostruzioni psicologiche e particolarismi biografici.

Al contrario, per comprendere l’algoritmo bisogna concentrarsi sul retroterra socio-culturale dei suoi creatori: da un lato la Silicon Valley, culla del tech capitalismo dalle ambizioni ecumeniche; dall’altro, l’etica ingegneristica del “basta che funzioni”, deontologicamente indifferente di fronte alle conseguenze sociali del codice. Insomma, per capirci qualcosa di più, lasciamo perdere la macchina, e anche Zuckeberg. Piuttosto, prendiamoci il tempo per riflettere su quale modello di società lascerebbe tranquillamente decidere a una piattaforma privata quali sono le nostre “meaningful interactions”. In altre parole, vediamo quell’entità nebulosa che chiamiamo “algoritmo” per ciò che è: la punta dell’iceberg di una questione politica ben più ampia e ormai difficile da ignorare.


Immagine di copertina: ph. Kenny Eliason da Unsplash