Chat GPT, una riflessione apocalittica

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    Nonostante l’abbia comprato ormai più di due mesi fa, ancora oggi continua a calamitare la mia attenzione ogni volta che lo attivo. Quello inizia il suo tour per le stanze di casa, col suo incedere lento ma continuo, e io finisco inevitabilmente a osservarlo per la maggior parte del tempo: guardo come ispeziona meticolosamente ogni angolo, come sembri rallentare un secondo prima dell’urto con la superficie di un mobile o di un muro di cui aveva già memorizzato la posizione, o come ricalibra il proprio percorso quando trova un ostacolo che prima non c’era. Lo guardo e tutte le volte mi chiedo: «Ma come fa?».

    Sto parlando ovviamente del robot aspirapolvere, anche detto navicella aliena, il dischettone bianco che ho acquistato per pulire il pavimento più spesso e con meno fatica. In realtà lo so come fa – più o meno –, non sono davvero mio nonno: è dotato di sensori che gli permettono di scansionare l’ambiente intorno a sé, di una memoria che gli consente di immagazzinare quei dati e di qualche chip che lo rende in grado di calcolare i movimenti più efficienti da compiere. Insomma, capisco grossomodo la tecnologia che c’è dietro, ma nondimeno continuo a provare un po’ di meraviglia quando lo vedo all’opera; un senso di stupore misto ad appagamento, la soddisfazione di chi assiste a un algoritmo che ti risolve i problemi e ti sgrava da doveri pallosi.

    È un entusiasmo piuttosto naif, me ne rendo conto; di recente, tuttavia, mentre riflettevo su queste sensazioni, ho realizzato che non riguardano solo me. Cioè, l’entusiasmo che provo di fronte al dischettone che mi spazza il pavimento assomiglia da vicino a quello che esibiamo, come società, a ogni grande annuncio di progresso tecnologico – soprattutto quando riguarda il campo dell’intelligenza artificiale. Prendiamo il protagonista indiscusso degli ultimi mesi, il software che sta dominando la nostra attenzione e il dibattito scientifico: Chat GPT, ovviamente. Dal momento in cui il chatbox di OpenAI è stato rilasciato e messo a disposizione di chiunque volesse testarlo, è stato come se un’ondata d’eccitazione c’avesse travolto tutti: ovunque ti girassi trovavi soltanto espressioni di stupore, articoli entusiastici, hype a palate. Un grandissimo «ma come fa?» generale: come fa un software di intelligenza artificiale a essere così intelligente, a rispondere in così poco tempo e in modo così efficiente a richieste complesse di ogni tipo? Ecco, questo è il tipo di atteggiamento che adottiamo d’istinto quando ci troviamo di fronte a uno strumento che fa davvero qualcosa di nuovo, mai visto: l’entusiasmo stupito di chi ha assistito al trucco di un mago e sta lì ad applaudirlo. Un’emozione che sfuma finanche nella felicità, come quando un parente o un’amica ti annunciano di aspettare un bambino; perché alla fine, ogni invenzione è figlia dell’intelletto umano, no?

    Dal momento in cui il chatbox di OpenAI è stato rilasciato e messo a disposizione di chiunque volesse testarlo, è stato come se un’ondata d’eccitazione c’avesse travolto tutti

    Chat GPT è stato rilasciato il 3 novembre 2022, e in questi quattro mesi e passa le reazioni del pubblico hanno avuto il tempo di evolversi e cambiare forma: all’entusiasmo sono subentrate anche la paura e la paranoia. È la sempiterna dicotomia fra apocalittici e integrati (secondo la celeberrima definizione di Eco), che emerge a ogni avvento di strumenti e tecnologie potenzialmente spartiacque: gli apocalittici di oggi si concentrano sulle minacce che l’AI pone per il mondo del lavoro, sul pericolo di valutazioni discriminatorie fatte da software impiegati in settori amministrativi, o sui guai che la capacità sempre migliore di imitare il linguaggio umano potrebbe procurare; gli integrati invece enfatizzano i benefici di una società in cui l’AI è al servizio dell’umanità tutta, dipingendo paradisi in terra fatti di comodità e benessere diffusi, in cui le fatiche (e i doveri pallosi) sono demandati alle macchine. In mezzo ci sono, come sempre, i moderati, quelli il cui parere è assimilabile alla solita massima: “ogni strumento può avere ricadute sia positive che negative, dipende dall’uso che ne fa l’essere umano”. Questa è la posizione che mi sembra più ragionevole e vorrei tanto potervi aderire convintamente, ma il fatto è che mi sento un moderato con un forte ascendente apocalittico. Già, perché ogni volta che cerco di riflettere sui buoni esempi di utilizzo delle grandi innovazioni degli ultimi anni mi viene in mente cosa è diventato Internet – con tutti i problemi di privacy, aumento della disinformazione e dello scontro sociale che si porta dietro – e mi sale forte l’apocalisse.

    Il pessimismo poi aumenta con la sensazione che a livello giuridico non si stia facendo nulla di che per controllare l’impatto di questa tecnologia, o che comunque il lavoro del legislatore in materia proceda troppo lentamente rispetto alla velocità con cui si evolvono le capacità di Chat GPT e compagnia. Se i rischi di un utilizzo improprio si conoscono ormai da anni, le proposte concrete per prevenirli – e cioè che comportano obblighi e vincoli reali per le aziende sviluppatrici – stentano ad affermarsi, sia a livello europeo che internazionale (classe politica italiana: non pervenuta), e le indicazioni fornite sin qui non danno l’idea di poter raccogliere la complessità della questione a cui siamo davanti.

    Ad esempio, soffermandoci sul tema lavoro, per scongiurare il rischio sostitutivo – ossia il rischio che le macchine freghino il lavoro a tutti, per farla breve – l’Unione Europea sembra decisa a puntare forte su concetti come formazione costante e riqualificazione dei lavoratori, in modo da mantenerli competitivi in questa fase di transizione tecnologica; che ok, è anche giusto, ma quanto è davvero sostenibile sul lungo periodo? Un dipendente può seguire tutti i corsi di formazione che si vuole ma l’algoritmo crescerà comunque più velocemente e, soprattutto, costerà comunque di meno. «Beh, ma queste difficoltà verranno bilanciate dalla creazione di nuovi posti di lavoro» potrebbero obiettare l’amica integrata o l’amico moderato di turno; ed è vero che nasceranno nuove occupazioni, ma l’apocalittico che è in me replica: quante saranno rispetto a quelle che si andranno perdendo o rimarranno appannaggio di lavoratori super qualificati? E quanto saranno appetibili davvero (perché, siamo onesti, il ruolo di Data Detective è meno figo di come suona)?

    Sono domande a cui è difficile trovare una risposta oggi e che turbano la fantasia di chi ha visto troppo Black Mirror – come me –; in realtà esistono anche problematiche meno appariscenti, sempre legate all’adozione di software e AI, che sono più urgenti del rischio sostitutivo perché condizionano già adesso il mondo del lavoro. Mi riferisco ad esempio all’impiego degli algoritmi per organizzare attività e orari dei lavoratori digitali (come i rider), della cui regolamentazione non si parla abbastanza nonostante si siano già avuti diversi esempi delle conseguenze negative sulla salute psicofisica dei lavoratori – o direttamente sulla loro vita, come nel tragico caso dei rider morti in incidenti stradali, durante tratte commissionate da applicazioni che hanno l’unico obiettivo di minimizzare i tempi di consegna. Uno di questi – Sebastian Galassi, morto a Firenze lo scorso ottobre – non solo è stato licenziato post-mortem (con una mail automatica) ma è stato anche rimproverato post-mortem, visto che il portavoce di Glovo (l’azienda per cui lavorava Galassi) ha dichiarato a Repubblica, con grande tatto, che l’algoritmo «non obbliga ad andare veloci». Un segnale, si direbbe, che alcune grandi aziende hanno già le idee chiare su che parte tutelare nel dualismo emergente fra lavoratori e AI.

    Insomma, il futuro non sembra poi così entusiasmante a giudicare da alcuni indizi. Magari invece andrà tutto bene, il buon uso delle AI garantirà benessere e comodità alla società nella sua interezza e i timori di oggi non saranno che un lontano ricordo. L’impressione, tuttavia, è che prima di farci prendere dal senso di meraviglia per le incredibili capacità e potenzialità di questi strumenti dovremmo cercare di capire se le nostre istituzioni hanno un piano per affrontare i cambiamenti epocali che ci aspettano (e che non riguardano il solo mondo del lavoro). Perché senza strategie coerenti e nuove regole è dura immaginare che i benefici dell’avanzamento tecnologico possano essere davvero diffusi e alla portata di tutti, mentre è più semplice immaginare che, come sempre, a goderne sarà una porzione molto minoritaria della società.

    Il futuro non sembra poi così entusiasmante a giudicare da alcuni indizi

    Per curiosità, ho deciso di sottoporre la questione a Chat GPT – sì, lo so che ormai girano centinaia di articoli contenenti conversazioni con Chat GPT, ma ho pensato che magari poteva darmi un parere interessante. Gli ho fatto questa domanda – giusto un tantino vaga e generica – : “Secondo te, da un punto di vista socioeconomico, chi trarrà maggiori benefici nel prossimo futuro dall’avanzamento tecnologico e dal miglioramento costante di strumenti come l’intelligenza artificiale? La maggior parte della popolazione mondiale, o una parte minoritaria della popolazione mondiale?”, e mi ha risposto una roba troppo lunga. Quindi gli ho chiesto di riarticolare in modo più sintetico, e il risultato è stato questo:

    “L’intelligenza artificiale può offrire benefici a diverse parti della popolazione mondiale, ma la distribuzione dei vantaggi non è uniforme. Le persone e le aziende con accesso alle risorse tecnologiche avanzate e competenze tecnologiche avanzate potrebbero beneficiare maggiormente dell’AI. Tuttavia, l’AI potrebbe anche offrire benefici a lungo termine per la popolazione mondiale nel suo insieme, e ci sono molte iniziative in corso per democratizzare l’accesso all’AI e migliorare l’inclusione sociale e la giustizia”.

    La prima parte è più apocalittica, la seconda più integrata; in definitiva, la risposta di un moderato. Anche Chat GPT quindi relativizza, dice che dipende, che le potenzialità benefiche ci sono tutte; e io so che ha ragione, che è davvero così, ma non riesco comunque a convincermi del tutto.

    Anche il robot aspirapolvere, adesso, mi ispira diffidenza. Pure lui, del resto, sta rubando il lavoro a qualcuno: agli addetti alle pulizie, ad esempio. Sono complice dell’aggravamento delle condizioni del mondo del lavoro ogni volta che attivo il dischettone bianco, penso tra me e me. Lo guardo con sospetto, mentre inizia il suo tour per le stanze di casa. Lo guardo con sospetto ma continuo a guardarlo, e intanto mi chiedo: «Ma come fa?».

    Immagine di copertina da Unsplash di Aideal Hwa

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