Come siamo cambiati. O forse no. Big Data e piattaforme digitali

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Per molti, il terremoto Cambridge Analytica non è stato altro che la riscoperta dell’acqua calda: il fatto che Facebook sia essenzialmente una “user farm” che rivende a terzi i prodotti del suo immenso parco bestiame non è proprio una novità. Media e grande pubblico, tuttavia, sono rapidamente caduti nell’isteria collettiva. L’indignazione per il “furto” di dati personali e la presunta manipolazione delle coscienze politiche ha portato un’ondata di cancellazioni dal social network, celebrate all’unisono da utenti comuni ed editorialisti del Guardian. Cosa sia cambiato nel Facebook di Trump rispetto a quello della seconda presidenza Obama, o a quello dei molti esperimenti sociali condotti all’insaputa di centinaia di milioni di utenti, non è chiaro. Probabilmente nulla.

Certamente, siamo cambiati noi, gli utenti delle piattaforme. Presi per mano dai fatti di cronaca, impauriti da tecnologie che si dicono in grado di sfruttare i nostri “inner demons” per manipolare ciò che pensiamo, abbiamo perso l’innocente noncuranza con cui scaricavamo tonnellate di app gratuite, e così anche la fascinazione ingenua verso Big Data, smart cities, gig economy, self-driving cars, blockchain e inglesismi affini. “Bene!” , si dirà. Non fosse che questo tardivo e affrettato processo collettivo di presa di coscienza cada talvolta in semplificazioni grossolane.

Ad esempio, una è certamente quella dell’”arma psicografica segreta” di Cambridge Analytica – un metodo apparentemente capace di ricavare la “personalità” degli utenti Facebook a partire da poche manciate di like, per poi proporre contenuti microtargetizzati estremamente persuasivi. Nonostante proclami pubblici ne testimonino l’efficacia propagandistica, è noto a studiosi della comunicazione, sociologi ed esperti di marketing come, da un lato, quella psicografica sia un’arma analitica spuntata e, dall’altro, il “proiettile” del contenuto personalizzato non sia poi così magicamente persuasivo (più dettagli in questo articolo). Insomma, il sospetto è che Cambridge Analytica sia stata più efficace a pubblicizzare se stessa che i propri clienti. Simili considerazioni scettiche riguardo alle narrazioni mediatiche intorno a piattaforme social e affini valgono a maggior ragione anche per la psicosi che circonda le “fake news” e il discutibile soluzionismo politico risultante da essa.

Insomma, spesso nemmeno i discorsi tecnocritici sono immuni da un certo sensazionalismo da clickbaiting. La loro circolazione resta in gran parte mediata dalle attività invisibili degli algoritmi proprietari. L’onda lunga dell’indignazione pubblica si riverbera attraverso le stesse piattaforme che condanna – sospinta da retweeet e raccomandazioni automatiche, presa nella risacca di filter bubbles, rivestita di like e favorites e, a partire da questi, valutata e monetizzata. L’articolo che state leggendo sarà difficilmente un’eccezione. Tuttavia, il mio punto qui è un altro: non tanto spiattellare le storture della datacrazia (l’ho già fatto altrove), quanto piuttosto porre l’accento sul bisogno di metodi per riconoscerle e problematizzarle, trascendendo l’efemeralità dell’opinionismo giornalistico.

Alcuni rimpiangono i “grandi intellettuali”, la loro capacità analitica e risonanza pubblica. Io personalmente trovo più utile valorizzare e diffondere lo sforzo scientifico collettivo di migliaia di ricercatori e ricercatrici che per lavoro analizzano il mondo attraverso il rigore metodologico e lo sguardo critico propri delle scienze sociali. Sociologi e accademici come David Beer, Ted Striphas, Adam Arvidsson, Tarleton Gillespie, Kate Crawford, Zeynep Tufekci, John Cheney-Lippold – per citare alcuni dei più noti – hanno prodotto critiche potenti e originali di potere algoritmico e capitalismo informazionale. In Italia, iniziative come quella dell’Università di Siena sulla politica delle piattaforme vanno esattamente in questa direzione.

Il 25 e il 26 maggio prossimi proporrò un workshop intitolato “Sociologia degli algoritmi”, organizzato dalla Scuola Open Source, il quale sarà ospitato da MACAO a Milano (è possibile iscriversi entro il 12 maggio). Si tratta di un altro piccolo passo verso un maggiore dialogo pubblico ed extra-accademico su Big Data e piattaforme digitali, portato avanti attivamente – per esempio – dai tanti autori che hanno contribuito al volume “Datacrazia” in uscita per D Editore, a cura di Daniele Gambetta (anche lui presto ospite della Scuola Open Source a Bari).

Ciò che discipline come la sociologia possono offrire non è soltanto un mucchio di opinioni, quanto piuttosto un ventaglio di “lenti” per osservare il mondo e problematizzare il dato per scontato, rendendone intellegibili i meccanismi di potere. È più che mai necessario che l’immaginazione sociologica, anzichè rimanere il titolo impolverato di un caposaldo della disciplina o l’ispirazione di conferenze e articoli per soli addetti ai lavori, si trasformi in un esercizio di conoscenza e democrazia aperto a tutti.

“Un sport de combat” – per dirla con Pierre Bourdieu – senza barriere all’ingresso. Temi come algoritmi, capitalismo informazionale e tecnologie digitali rappresentano una palestra perfetta per allenarci insieme.


Immagine di copertina: ph. Delano Balten da Unsplash