Lo sentiamo dire ogni giorno: il giornalismo è morto. Morto ammazzato. Se la situazione è questa, la domanda sorge spontanea: chi l’ha ucciso? Da questa domanda muove il saggio Slow Journalism, di Alberto Puliafito e Daniele Nalbone (Fandango Editore), in cui c’è, per iniziare, un’ammissione di colpa: “La nostra indagine è anche una confessione: se il giornalismo è stato ucciso, anche Daniele e io siamo colpevoli”, racconta a cheFare Alberto Puliafito.
La ragione è molto semplice: Alberto e Daniele sono stati a lungo, rispettivamente, direttore di Blogo e responsabile di Today. “Da questo punto di vista, siamo stati complici: abbiamo fatto parte di quel giornalismo che si basava solo o quasi sui click allo scopo di far vedere quanti più banner pubblicitari ai visitatori. È un tipo di lavoro che, soprattutto per quanto riguarda il posizionamento su Google attraverso la SEO, abbiamo fatto abbastanza bene; tanto da venir poi imitati da parecchie testate mainstream”, spiega Puliafito. “Quindi, per cominciare, facciamo ammissione di colpa”.
Come in ogni carneficina, i responsabili sono però numerosi. Al di là dei giornali che utilizzano modelli di business basati sui click (spesso alla base delle numerose degenerazioni di giornalismo sensazionalista, affrettato e poco accurato che vediamo ogni giorno), chi sono gli altri responsabili? “Tutti ci dicono che la colpa è di Facebook e di Google. Sarà vero?”, si chiede l’autore di Slow Journalism. “Noi non siamo diventati improvvisamente difensori di queste piattaforme: sappiamo benissimo che ci sono dei problemi. Ma sappiamo anche che – per quanto tolgano alcune opportunità – possono anche offrirne delle altre”.
In poche parole, Google e Facebook sono certamente responsabili di divorarsi una parte enorme della torta della pubblicità digitale. Allo stesso tempo, un loro attento utilizzo fornisce agli editori la possibilità di raggiungere una platea immensa di lettori, con positive ricadute economiche (per quanto insufficienti a sopperire al calo di copie vendute in edicola).
È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere non si trova
La ricerca del colpevole, quindi, deve continuare: “Sarà mica colpa della gente che è stupida, come spesso affermano i colleghi più fortunati; quelli regolarmente assunti nelle redazioni con contratti di ferro?”, prosegue Alberto Puliafito. “Ma quand’è che la gente è diventata stupida? Significa che fino a poco fa, quando compravano il giornale di carta, erano invece intelligenti?”.
“È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere non si trova. La verità infatti è un’altra: il giornalismo non è morto. È un mestiere sempre necessario e si trova ancora chi lo fa per bene: bisogna soltanto avere la pazienza di andarlo a cercare”, spiega sempre Alberto. “Non c’è un omicidio, non ci sono degli assassini: ci sono semmai svariate concause che hanno messo in grave difficoltà questa professione. E sono le stesse che andiamo ripetendo da tempo: il modo errato in cui si è monetizzato il digitale, il calo delle vendite e degli abbonamenti, la fiducia in costante discesa nei confronti del giornalismo (come di tutte le altre istituzioni)”.
Ma la colpa sta anche nell’autoreferenzialità di un mondo che, di fronte alle difficoltà che sta incontrando, non trova niente di meglio che incolpare l’ignoranza di chi non legge più i giornali. È possibile sostenere una tesi del genere? “Non ci credo. Anzi, penso che troppi colleghi si siano dimenticati che il giornalismo è un prodotto che deve parlare a un pubblico; non lamentarsi se questo pubblico non lo ascolta più. Uno dei problemi principali è che non ha saputo mettersi in discussione. Se vogliamo generalizzare – e fatte le dovute eccezioni – possiamo dire che il modello di business che c’era una volta è saltato completamente. Se prima l’inserzionista pagava per apparire su un mezzo generalista come il quotidiano (perché veniva comprato da tot persone, veniva letto al bar e quindi garantiva una certa esposizione), oggi gli inserzionisti sono molto più interessati a raggiungere con precisione i loro potenziali clienti. Ed è in questo che Google e Facebook hanno davvero fatto la differenza: hanno il monopolio dei dati e di conseguenza quello sulla pubblicità digitale; lasciando agli altri soltanto le briciole”.
A differenza di quanto avvenuto nel cinema e nell’industria discografica (che – dopo quasi due decenni di pesante calo seguiti alla rivoluzione inaugurata da Napster – ha ricominciato a crescere grazie alla diffusione dei servizi in streaming), il giornalismo non si è dimostrato in grado di adattarsi all’epoca digitale. Come se ne esce? “La cruda verità è che un modello di business che ci permetterà di tornare a lavorare come prima non esiste e non esisterà”, spiega Puliafito. “La rivoluzione digitale è, per l’appunto, una rivoluzione. E le rivoluzioni fanno morti e feriti, non sono un pranzo di gala; per usare la classica citazione”.
La situazione, quindi, è questa: la rivoluzione digitale ha cambiato il mondo sotto ai piedi dei giornalisti e l’Italia ha investito pochissimo in ricerca e sviluppo. Sono passati due decenni dall’inizio di questo processo e ci troviamo ancora oggi alle prese con un disorientamento completo. “In più, si è creato un vero e proprio solco tra chi ha avuto la fortuna di entrare nel giro degli articolo 1 (i contratti regolari da giornalisti, nda), che sono giustamente tutelati, e chi ha solamente la partita Iva”, prosegue Alberto. “Le aziende ormai non ti chiamano neanche più giornalista, ma content editor e ti pagano tre euro a pezzo. Ovviamente non si può dare la colpa a chi accetta questi compensi: se uno ha bisogno di lavorare diventa ricattabile per necessità. È un cane che si morde la coda: il modello di business salta, non si investe, i compensi scendono, la qualità scende, la fiducia scende”.
Il contenuto dev’essere pensato per durare nel tempo
Su un punto così importante come quello dei compensi, credo che sia il caso di fare un ulteriore chiarimento. Spesso ci si immagina un giornalista che lavora tutto il giorno per scrivere un singolo pezzo che viene pagato 3/5/15 euro. Le cose non stanno così. L’ho sperimentato per anni sulla mia pelle: ciò che viene richiesto è di scrivere moltissimi articoli ogni giorno (anche dieci); articoli brevi e da produrre all’istante, in cui si riprendono polemiche, dichiarazioni sui social dei vari politici, gossip e quant’altro. In questo modo, per il giornalista che li produce, diventa possibile mettere assieme un compenso che, in alcuni casi, può persino essere dignitoso. Il problema è (anche) un altro: è dignitoso il giornalismo che si produce in questo modo, fatto di tonnellate di articoli che diventano inutili nel giro di un paio d’ore?
“Anche quanto abbiamo visto durante l’incendio di Notre Dame è stato drammatico”, conferma Alberto Puliafito. “Titoli che hanno il solo scopo di emozionare e che riportano i fatti in maniera assolutamente esagerata”. Tutto questo è una conseguenza della necessità di fare clic sul web e, ormai, anche di ridurre il calo delle copie; attraverso titoli urlati che possono diventare virali sui social network (i casi di Libero o La Verità ci ricordano tutti i giorni questa particolare dinamica). “Qual è allora la buona notizia? Avendo fondato, nel mio piccolo e assieme ad altri colleghi, un progetto come Slow News – che rinuncia completamente alla raccolta pubblicitaria – abbiamo avuto modo di conoscere altre redazioni che lavorano secondo questa logica”, prosegue Puliafito. “Realtà come la danese Zetland, la britannica Delayed Gratification, l’olandese De Correspondent e altre ancora. Tutte realtà che si sostengono, in forme diverse, grazie al supporto economico dei lettori. Alcune usano il termine Slow Journalism e altre no; ma tutte hanno una cosa in comune: l’attenzione nei confronti dei contenuti e la consapevolezza che la loro produzione non è solo qualcosa che costa tempo e fatica, ma è anche un asset che va sfruttato sul lungo termine”.
Perché produrre un articolo pagato pochi euro e che genera attenzione per poche ore, quando si può produrre qualcosa di qualità, pagato il giusto e che mantenga la sua freschezza per mesi se non addirittura anni? Da questo punto di vista, uno dei casi scuola a livello mainstream è l’articolo What Isis Really Wants del The Atlantic. Un pezzo di qualità, lungo, approfondito, che sfrutta anche una chiave di ricerca molto comune su Google (“Che cosa vuole l’Isis?”) e che ha generato, letteralmente, milioni di visite per mesi e mesi. Un articolo capace di coniugare successo in termini di traffico con qualità e longevità. E che sicuramente svolge un ruolo sociale molto più importante dei vari pezzi che riportano gli ultimi selfie di Salvini.
Mi chiedo se sia sostenibile un modello in cui tutte le testate parlano della stessa notizia allo stesso modo
“Il contenuto dev’essere pensato per durare nel tempo. E il digitale offre, da questo punto di vista, la possibilità di manutenere gli articoli pensati in questo modo, aggiornandoli quando necessario”, precisa Alberto. “Dal punto di vista del rapporto con i lettori, invece, i casi di Zetland e De Correspondent ci insegnano soprattutto come vadano trattati gli abbonati: non delle persone da contattare solo per il rinnovo dell’abbonamento, ma membri di una community con cui dialogare, con cui relazionarsi, di cui ascoltare le richieste. Non significa avere un rapporto paternalistico o confondere il ruolo dei giornalisti e dei lettori, ma avere consapevolezza che tra i nostri lettori ci sono insegnanti, infermieri, avvocati: persone che hanno conoscenze che a noi giornalisti mancano”. In questo modo, diventa possibile ascoltare le richieste dei lettori e pianificare i contenuti prendendosi il tempo necessario”.
Finora, però, abbiamo parlato dei modelli di business di realtà editoriali di nicchia, che non ambiscono e non hanno i mezzi per sostituire le testate più note, che continuano comunque a svolgere un ruolo cruciale: tenerci informati su ciò che sta avvenendo in questo momento. “Non nego la necessità di avere informazioni su ciò che succede adesso, ma mi chiedo se sia sostenibile un modello in cui tutte le testate parlano della stessa notizia allo stesso modo”, precisa Puliafito. “Si è obbligati a riempire gli spazi in ogni modo, anche dicendo assurdità. Quand’ero più giovane, in televisione c’era l’edizione straordinaria: si interrompevano i programmi per cinque minuti, si davano le informazioni e poi riprendeva la programmazione normale. Non era cinismo, in quei pochi minuti venivano dette le cose che si sapevano: cos’altro ti devo dire sul momento?”.
Oggi invece si fanno maratone chilometriche ma inutili, in cui si ripetono all’infinito le stesse cose; prima ancora che si abbia una vera conoscenza dell’accaduto. “Prendiamo il caso del crollo del Ponte Morandi: nonostante tutto lo spiegamento di forze che c’è stato, il lavoro più bello l’ha fatto il New York Times, con un reportage uscito quasi un mese dopo il fatto”. Il senso di tutto questo è: ci servono davvero news immediate e incomplete o è meglio concentrare le risorse per investigare davvero l’avvenuto; prendendosi il tempo necessario? “Uno dei modi per salvare il giornalismo è capire che il nostro impegno dovrebbe rivolto verso qualcos’altro rispetto alle news, che ormai sono diventate una commodity. Il giornalismo invece non si è mai interessato a quello che succede in senso fondativo, ma solo in senso eccezionale. Come dice il direttore di De Correspondent: ‘Abbiamo parlato per 150 anni del tempo che fa, avremmo dovuto invece parlare del clima che cambia’”.
C’è una sola strada da seguire: iniziare subito a sperimentare, investire e trovare nuove forme di produzione dei contenuti e di business
Se la salvezza di musica e cinema è arrivata attraverso realtà come Netflix e Spotify, saranno piattaforme come Apple News + o Blendle a risollevare le sorti economiche del giornalismo (usando lo stesso principio: paghi un tot al mese e puoi accedere a tutti i contenuti che vuoi)? “Per quanto riguarda Blendle, quando li ho intervistati ho avuto la sensazione di una startup che andrà lentamente declinando. Non penso che il modello Netflix possa funzionare. Il giornalismo non è come il cinema o la musica: nel giornalismo sei legato alla testata in una maniera completamente diversa rispetto al legame che si ha con un’etichetta discografica. Invece di dare 10 euro al mese a Apple News, è più probabile che si preferisca darli al giornale di fiducia”.
E infatti questa è la strada intrapresa da sempre più testate italiane come Repubblica, il Corriere e La Stampa; che pubblicano numerosi articoli sotto il cosiddetto paywall, che richiede un pagamento mensile per accedere a tutti i contenuti. “Per i big questa strada può funzionare eccome, ma devono ripensare profondamente il loro giornalismo. Se provi questa via, devi avere il coraggio di rinunciare a tutto il resto: togliere le gallery e le notizie curiose. Se vuoi convincermi a pagare, devi creare un ecosistema completamente diverso”.
Questa strada, come noto, è quella perseguita con successo dal New York Times, che ha superato i 3 milioni di abbonati all’edizione digitale. Ma c’è un problema: il NYT è una testata che si rivolge letteralmente a tutto il mondo, i cui abbonati arrivano in larga parte anche da fuori gli Stati Uniti (16%) e che rappresenta comunque un caso unico. Può essere sostenibile anche per le testate nostrane, che si rivolgono a una platea massima potenziale di 60 milioni di lettori (neonati inclusi)? “Con i costi di struttura che queste testate hanno oggi, non si può fare. E in questi costi includo anche il numero di giornalisti. Non c’è un modello di business che vale per tutti, ognuno deve trovare la sua via”.
Se vogliamo evitare uno scenario apocalittico, in cui le realtà editoriali che oggi conosciamo smettono di esistere per poi rinascere in maniera economicamente più sostenibile (lasciando quindi sul terreno i già citati “morti e feriti delle rivoluzioni”), c’è una sola strada da seguire: iniziare subito a sperimentare, investire e trovare nuove forme di produzione dei contenuti e di business; che restituiscano prestigio a questa professione, e di conseguenza facciano riscoprire ai lettori il vero valore del giornalismo di qualità.