La scelta tra gioco e necessità

C’è stato un tempo in cui scegliere da che parte stare, come starci e quando starci, poteva significare la differenza tra la vita e la morte. C’è stato un tempo in cui la scelta aveva il senso di una direzione esistenziale, di un percorso intellettuale, morale e civile. Insomma quel tempo che poi è poco lontano e affonda nel Novecento, imponeva scelte inequivocabili sia per come si sarebbe vissuto il presente, sia per come si sarebbe affrontato di conseguenza il futuro, plasmandolo nell’assunzione di responsabilità come dei desideri.

Oggi forse non è più così, oggi la scelta è stata degradata a opportunità e l’evanescenza dei ruoli non aiuta a chiarire realmente quale rischio e quale senso può avere il futuro.

Paolo Di Paolo con Tempo senza scelte (Einaudi) costruisce un repertorio convincente di quello che è stato soprattutto nella cultura del Novecento compiere delle scelte, dare pratica conseguenza alle proprie idee. Fare scelte, ci ricorda Di Paolo attraverso le parole di Piero Gobetti, è essere presenti a se stessi ossia assumersi il rischio della coerenza e la responsabilità del futuro. Elementi oggi mischiati, sciolti da un acido ideologico che occulta il tempo riducendolo a una carta patinata priva di senso. Si dice attualità, ma si legge urgenza (sempre e solo presunta), stress, ansia, ossessioni relazionali. L’attualità domina, falsando il presente al punto da staccarlo dal concetto di futuro rilasciando continue scadenze, impedimenti al discorso, ostacoli alle relazioni come alla profondità di pensiero.

Tutto questo è generativo di una sorta di delirio dentro al quale l’unica possibilità di recupero viene sempre e solo dal passato. Una mistica del recupero che vede sentimenti incontrastati la nostalgia e la malinconia. I due sentimenti gareggiano costruendo illusorie impalcature a una decadenza sentimentale degli individui che ha ridotto la società a mero alternarsi di pulsione e compulsione. I desideri sono stati cancellati, sostituiti all’altare dell’attualità delle opportunità. Quello che resta sono corpi privi di senso, immobili nella loro frenesia. Vibranti, ma solo perché masturbatori.

In Nuotare con gli squali (Einaudi), Joris Luyendijk racconta, con sguardo da antropologo, la vita dei banchieri, di chi lavora nella city londinese. Luyendijk descrive la vita vista dal punto di vista della finanza e della bolla, e non è un bel vedere. Tra vite strappate ad ogni forma di senso e quindi sempre più aggrappate ad un lavoro spesso privo anch’esso di valenza, l’economia appare ridotta a puro sentimento di paura che lascia donne e uomini smarriti e sempre più spremuti da contraddizioni dentro alle quali è quasi sempre impossibile resistere. E nulla spiega meglio la perdita di spazio della scelta come questo denso saggio che offre un panorama di oltre duecento interviste a vari esponenti del mondo della finanza così sconosciuto e a tratti incomprensibile eppure capace di stravolgere in poche ore vite intere, stati e nazioni comprese.

La scelta non esiste più perché non ci conviene si potrebbe pensare, ed in parte è vero o almeno lo è stato per un certo periodo. Non vedere, non sentire e non guardare per un certo lasso di tempo conviene, dopo però rischia di diventare un danno potenzialmente irreversibile. Una vera e propria bolla che a livello geopolitico sta già mostrando i suoi frutti anche in Europa. E la bolla non è ancora esplosa.

Scegliere si può, anzi è ormai necessario. Scegliere è il primo intervento culturale possibile. La scelta è il segno di una distinzione, ma soprattutto di una direzione. La scelta implica senso esistenziale prima ancora che razionalità o istinto: non un azzardo, ma una decisione responsabile. Quando si sceglie, tutto viene messo in moto, ma nulla in gioco. Il gioco non vale mai e lo racconta splendidamente Colson Whitehead in un piccolo capolavoro di giornalismo e letteratura che è La nobile arte del bluff (Einaudi). Il gioco, l’azzardo non sono altro che la faccia disperata di un fallimento, il desiderio ridotto ad adrenalina. Un brivido certamente (anche di piacere), ma solo per un istante dentro al quale la scelta è solo un bluff, ossia una nobile messa in scena.

Scegliere significa l’inattualità perché orienta al futuro, a un rischio che oggi appare sempre eccessivo e soprattutto insostenibile. Sostenere una scelta diviene dunque il primo e l’ultimo intervento culturale possibile. La credibilità di una scelta prende forma nella sua consapevolezza culturale ossia nella capacità di intervenire e favorirne il percorso attraverso una logica di costruzione che poco c’entra con le manifestazioni di coinvolgimento tipiche dei social network ormai ridotti nell’uso comune (e anche nell’accezione) ad una propaganda in cui l’indignazione è prettamente sentimentale e quasi mai reale: una reazione nostalgica per l’appunto e quindi priva di reale presa o capacità di attivazione.

L’azione culturale deve dunque assumere la forma e anche il gusto di una visione coraggiosa e quindi ricca di desiderio dentro cui la realtà diventa il campo di lotta e partecipazione e non la sua negazione o peggio ancora la sua frustrazione. Scegliere significa favorire nuovi incontri e soprattutto dare spazio al piacere dell’imprevisto. Attivare un pubblico è generare cittadinanza, non obbligare a un voto o a un quesito, ma costruire una coscienza pubblica dentro alla quale sia possibile dare realtà al discorso. Rischiare sì il pregiudizio, ma in favore di un giudizio sempre capace di aggiornarsi. Accettare una forma per poterla ridefinire, progettare per poter gettare le basi di una società coesa, ma non conformista.

Pretendere di poter scegliere è mettersi in una posizione di rischio, è rifiutare il male minore in quanto consolazione priva di alternativa. Collaborare, ma non colludere. Scegliere perché le possibilità prendono la forma dei desideri meglio che degli obblighi o delle frustrazioni. La scelta è il tempo, oltre non resta che un eterno presente, come in un acquario i pesci rossi.