Brutti, sporchi e populisti

«Che cosa stavi facendo il giorno dell’elezione di Donald Trump?». Quello che è successo l’8 Novembre è un evento che fa cambiare la Storia. Non è stato solo il giorno dell’elezione del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. È stato il giorno in cui è crollato simbolicamente un intero sistema di interpretazione del mondo. Il successo di una proposta politica percepita come anti-establishment non è più da considerare un caso isolato, ma un nuovo e radicato sistema di pensiero. Pensandoci bene, l’attacco al “sistema” è esattamente quanto auspicato dai movimenti che, in tutti questi anni, hanno occupato piazze protestando contro le politiche di austerità, contro il capitalismo finanziario che ha distrutto il mercato del lavoro, contro la globalizzazione e le sue conseguenze dirette sulla vita delle persone. Mentre ci si aspettava una rivoluzione di sinistra – non fosse altro perché è in quella parte politica che storicamente si costruisce la riflessione sul mondo nuovo – la rabbia anti-globalizzazione, anti-multiculturale e anti-complessità ha preso piede anche nei territori della destra. Il Tea Party è stato il germe, il laboratorio che ha fatto capire che sì, un personaggio come Donald Trump poteva rappresentare la rabbia di un popolo e trasformarla in consenso elettorale vincente contro ogni aspettativa, ogni analisi e ogni valutazione. Ma in giro per il mondo il vento di questa rivoluzione soffia da anni.

In Italia, ad esempio, abbiamo il Movimento 5 Stelle che è stato recentemente valutato da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera primo partito e la Lega Nord di Matteo Salvini che si candida a guidare il fronte della destra dopo essersi lasciato alle spalle le battaglie localiste. In Francia, ci si prepara a un voto presidenziale che vede in una posizione molto forte Marine Le Pen del Front National. In Germania, tra Angela Merkel e Martin Schulz, spunta l’AFD (Alternative für Deutschland) di Frauke Petry. Per non parlare di quello che è successo in Inghilterra con la Brexit: il colpo più forte mai inferto all’altresì intoccabile monolite-Europa. Questo scenario porterà quasi inevitabilmente, attraverso varie leggi elettorali, alla creazione di strane alleanze cross-partitiche. Una vera e propria istituzionalizzazione delle “grandi coalizioni” e delle “larghe intese” che diventano esercizio di sopravvivenza ad excludendum con cui le forze “di sistema”, o repubblicane, metteno assieme l’interesse particolare per tagliar fuori dall’esercizio di governo questi cosiddetti partiti populisti. Gli esperti di settore stanno sempre più affermando che non è più in essere la vecchia divisione tra destra e sinistra, ma tra alto e basso. Forse è una metafora semplice e banale, ma rende l’idea di quello che sta succedendo.

“Populismo” è una parola fondamentale del vocabolario politico contemporaneo. Per come si è sviluppata la discussione, però, il termine viene usato implicitamente con uso dispregiativo. Il populista è colui che dice cose brutte, sporche e cattive; un incantatore del popolo, che utilizza un messaggio primordiale per soddisfare la domanda di un ‘popolo’, appunto, che per sua stessa natura è sempre arrabbiato e deluso dal potere, dal sistema, dai politici. Il populista viene additato come un barbaro alle porte, che offre soluzioni semplici a problemi complessi (dall’uscita dall’Euro al rimpatrio dei clandestini che ci rubano il lavoro passando per la costruzione di un muro tra Stati Uniti e Messico); una di quelle persone che vuole solo vedere il mondo bruciare. Il populista è quello che deresponsabilizza il popolo, legittima la sua rabbia, gli dice quello che vuole sentirsi dire (guadagnandone quindi il voto) e ribadendo che tutto quello che non va succede per colpa di qualcun altro (le banche, la politica, il complotto massonico, eccetera). Può non piacere, ma il populista offre soluzioni, offre risposte, offre una prospettiva, offre un’idea.

“Populismo”, però, è un termine tutto sommato neutro. Esiste un’ampia bibliografia a riguardo – sia sui casi generali (si può partire da Italia populista di Marco Tarchi o La ragione populista di Ernesto Laclau) sia su quelli specifici (su Trump ad esempio sono recentemente usciti Perché vince Trump di Andrew Spannaus, Wasp. L’america razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump di Guido Caldiron e Donald Trump di David Cay Johnson) e banalizzare la questione a “strategia di opposizione all’establishment” attraverso un linguaggio rozzo ed elementare rischia di essere quantomeno riduttiva. Anche perché una delle esperienze populiste più interessanti degli ultimi anni arriva proprio da sinistra, ed è quella di Podemos.

Un caso interessante (analizzato da Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena qualche anno fa) che parte da un’istanza popolare precisa – il movimento degli Indignados – e si è costruito negli anni con un sistema capillare di incontri fisici e online per costruire proposte realizzabili a problemi concreti come, ad esempio, l’emergenza abitativa e la disoccupazione giovanile. Urlare slogan contro le banche e la finanza serve fino a un certo punto: quello che serve è sia costruire una piattaforma politica in grado di generare consenso e attivismo, sia un messaggio forte capace di accendere la scintilla della speranza. In questo, un altro attore fondamentale che arriva da sinistra è Bernie Sanders. Il suo messaggio non è solo un attacco a banche e finanza, ma è a favore di una società comunitaria e collettiva che va contro la deriva della società moderna improntata all’individualismo sfrenato, all’alienazione e alla nevrosi contemporanea dovuta agli effetti del turbo-capitalismo cognitivo sulla vita delle persone. Soprattutto, è stato un messaggio innovativo perché “nuovo” per un’intera generazione di ragazzi giovani che certe parole non se le sono mai sentite dire perché cresciuti a pane e TINA (There is no alternative).

Essere “populisti” non vuol dire attaccare l’establishment per il gusto di farlo, vuol dire il tentativo di azzerare la distanze tra esercizio della militanza e esercizio della rappresentanza, mettere la politica al servizio del popolo perché è con quello stesso popolo che si raccolgono le istanze, si costruiscono soluzioni e si disegnano traiettorie nuove. Accusare qualcuno di essere “populista”, in sé, non vuol dire niente. E anche in questo caso si verifica la sostanziale vacuità del vocabolario politico contemporaneo, dove ogni parola è sganciata dal suo significato originale, ne è privata e quindi riempita a piacere per farne l’uso più strumentale e necessario per il momento contingente. Il problema non è il “populismo”, ma l’assenza di una prospettiva politica che vada oltre la costruzione e la gestione del consenso in quella dinamica sociale che Douglas Rushkoff ha definito del “presente continuo”, per cui non esiste sguardo prospettico né memoria storica. Esiste in contingente ed esiste il qui e ora. Non importa che tu sia al governo o all’opposizione, porterai comunque avanti un discorso legato a dinamiche rivendicative. È un comportamento – questo sì – inedito e interessante che Marco Revelli ha definito (nel suo ultimo Dentro e contro) “populismo di palazzo”: anche dal banco di governo, ci si comporterà sempre come se si dovesse inseguire l’ultimo argomento del dibattito popolare, sempre additando e mai portando avanti, sempre “all’opposizione” secondo il ben noto principio di deresponsabilizzazione. Del resto, quando si vive in un eterno presente, non si ha la preoccupazione di come costruire il futuro.

I primi giorni della presidenza Trump hanno visto una dimostrazione di violenza e decisione che molti credevano solo manifesto elettorale. Dagli ordini esecutivi sul famigerato muro alla distruzione del programma di assistenza sanitaria passando per le politiche anti-ambientali molto aggressive. Ultimo ma non ultimo, il vergognoso ordine esecutivo che impedisce l’accesso agli Stati Uniti a qualsiasi persona proveniente da Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen.

L’idea è quella di “proteggere” i confini parlando di un mondo in contrazione. Nel paese che ha costruito l’utopia della silicon valley (con tutte le sue contraddizioni) è un cambio di paradigma significativo. In un mondo che ha considerato sempre di più la connettività come principio su cui costruire una “nuova era”, un passo indietro cognitivo inevitabile. Anche questa, di fatto, è una alternativa. Forse non ci piace, ma per un numero sempre più alto di persone Marine Le Pen, Nigel Farage, Beppe Grillo e Donald Trump rappresentano delle risposte. Forse risposte che si basano sulla stessa ideologia che vogliono contrastare (se è vero, dicendola con Pierre Dardot e Christian Laval, che su il manifesto argomentano che «populismo è la parola del nemico» perché nasce nell’ideologia neo-liberale e quindi rafforza il sistema che all’apparenza si vuole attaccare), ma al momento sembrano essere l’unica via per una situazione apparentemente senza via di uscita.

Chi parla di “crisi della politica”, però, sbaglia la terminologia. La crisi è uno stato di transizione, in cui c’è un prima e ci sarà inevitabilmente un dopo. Forse dobbiamo smetterla di pensare secondo queste categorie classiche. Stiamo entrando in un mondo nuovo con un atlante non aggiornato. È la politica nuova, uno stato permanente. Non una crisi, ma un capitolo nuovo. Il “populismo” è diffuso sia a livello di palazzo, che a livello di strada. Non esistono istanze collettive, ma rivendicazioni individuali che si traducono in un attacco perenne a tutto quello che non viene fatto. Il livello del dibattito si abbassa perché quando si polarizza lo scontro, i toni diventano più accesi, le argomentazioni più scadenti. Questi individui smettono gli abiti del quotidiano per diventare ‘massa’ informe, non guidata e non organizzata, che rappresenta un ‘potere’ quantitativo ma che diffida della questione qualitativa. E pure chi si occupa di organizzazione del consenso, costruzione del messaggio e elaborazione delle politiche punta al minimo comun denominatore sulla scia di quella che Alain Deneault ha definito mediocrazia. Il sistema che attacca il “sistema” si regge sul trionfo dell’uomo comune: io sono come te, non sono meglio di te, al mio posto potresti esserci tu, quindi faccio come faresti tu. Muovendosi quindi in uno scenario post-ideologico in cui non esistono più politiche di destra o di sinistra, la politica non indica più una direzione, ma risponde solo al consenso permanente e istantaneo.

Ripensare alle categorie potrebbe, però, non essere più sufficiente. Da un lato, perché la parola sinistra sta vivendo una crisi di credibilità e di identità che sembra irreversibile. Dall’altro, perché la destra invece vive di buona salute sia che si tratti di “governo”, sia che si tratti di “opposizione”. Merito, forse, del frame cognitivo in cui ci si muove.

Negli anni Ottanta, infatti, la destra liberista retta dall’asse di ferro Margaret Thatcher-Ronald Reagan riconfigurò totalmente l’agenda politica dettando nuovi bisogni basati sulla deregolamentazione, la messa al centro della persona e la distruzione del tessuto connettivo nella società. «La società non esiste» diceva l’ex primo ministro britannico «Esistono gli individui». Lo spazio mentale in cui ci muoviamo, quindi, è determinato da queste regole: consumismo sfrenato, crescita, finanziarizzazione dell’economia, soddisfazione istantanea dei bisogni, edonismo, egoismo, deresponsabilizzazione nei confronto dello spazio pubblico. L’elettore di Trump non è il redneck ignorante che ci hanno voluto vendere le prime analisi. È l’uomo incazzato perché non ha più i soldi per comprarsi la seconda auto. È la famiglia che non arriva più alla fine del mese dopo aver creduto di poter vivere al di sopra delle proprie possibilità. È chi attacca il “carro” non perché vuole costruire un carro nuovo, ma perché ci vuole essere anche lui, su quel carro.

L’elettore è da tempo trattato alla stregua di un consumatore. Nel 1997, Giovanni Sartori parlò di homo videns per definire l’involuzione antropologica dell’individuo. Con il prevalere dell’immagine sulla parola, si rovescia il meccanismo di interpretazione e comprensione del reale e si arriva a non poter più distinguere cosa è vero da cosa è falso (e qual è l’estrema conseguenza se non la questione della post-verità?), non costruirsi una propria opinione (e quindi essere più permeabili alle bufale e alle fake news) e perdere consapevolezza al momento del voto. È una riconfigurazione cognitiva che germinò negli anni Sessanta con il famoso dibattito televisivo tra John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon, esplose negli anni Ottanta con lo “storytelling” di Ronald Reagan e si sublimò negli anni Novanta con la figura iper-(post)-moderna di Silvio Berlusconi. Tutto quello che stiamo vivendo oggi è la conseguenza tragica e farsesca al tempo stesso di quanto la politica-spettacolo è stata in grado di seminare negli ultimi decenni. Non dimentichiamo, inoltre, che Donald Trump è un personaggio televisivo, che Beppe Grillo nasce come comico e che Pablo Iglesias di Podemos ha una estrema consapevolezza del sistema mediatico e ha condotto programmi tv in Spagna.

«Che cosa stavi facendo il giorno dell’elezione di Donald Trump?». Erano le quattro del mattino. Stavo tornando a casa. Probabilmente stavo pensando a come l’epoca con il più grande accesso all’informazione e alla cultura, con la più alta connettività e infinite possibilità di discussione e dialogo e contatto tra le persone abbia prodotto una risposta minima, aggressiva e riottosa. Una risposta che rappresenta un vero stress-test per la democrazia. Pensavo a come tutte le utopie con cui ci siamo affacciati pieni di ottimismo nel ventunesimo secolo – la rivoluzione di Internet, la ricerca della sostenibilità, l’abbattimento dei confini, la messa in discussione del capitalismo come sistema di disuguaglianza, la fine del potere – siano state spazzate via da una vorace e spaventosa fame di realtà. E questa realtà stava arrivando da un’altra parte, senza che noi avessimo ascoltato fino in fondo i segnali che stavano arrivando. Una realtà in cui la crisi dei corpi intermedi che ci ha proiettati in un nuovo capitolo, in questo nuovo mondo che non abbiamo ancora mappato, abbia portato ancora più in là le previsioni di Margaret Thatcher. La società è già morta da un pezzo. Le comunità non esistono. E trasformandosi in pura funzionalità – elettore consumatore, perso nella massa senza necessaria consapevolezza critica, incapace di distinguere il vero dal falso – non esiste più nemmeno l’individuo.